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VII
Non erano, come è detto di sopra, intervenuti i cardinali a’ primi atti del concilio; perché si erano fermati al Borgo a San Donnino, o per aspettare i prelati che venivano di Francia o quegli che aveva promesso di mandare il re de’ romani, o per altre cagioni: onde essendo partiti per diverse vie, si sparse fama che i due spagnuoli, i quali aveano preso il cammino di Bologna, si riconcilierebbono col pontefice; perché continuamente trattavano collo imbasciadore del re d’Aragona che dimorava appresso al pontefice, e perché aveano dimandato e ottenuto da’ fiorentini la fede publica di potere sicuramente fermarsi in Firenze. Ma arrivati nel paese di Mugello si voltorno improvisamente verso Lucca per congiugnersi con gli altri, o perché veramente avessino avuto sempre cosí nell’animo o perché nel cardinale di Santa Croce potesse piú finalmente l’antica ambizione che il nuovo timore, o perché, avendo ricevuto in quel luogo l’avviso di essere stati privati, si disperassino di potere piú essere concordi col pontefice. Passavano nel tempo medesimo l’Apennino i tre cardinali franzesi, San Malò, Alibret e Baiosa, per la via di Pontriemoli; e con loro i prelati di Francia: dietro a’ quali partivano di Lombardia, per richiesta fatta da loro, trecento lancie franzesi sotto il governo di Odetto di Fois signore di Lautrech deputato da’ cardinali custode del concilio, o perché giudicassino pericoloso lo stare in Pisa senza presidio tale o perché il concilio, accompagnato dall’armi del re di Francia, procedesse con maggiore autoritá o veramente (come dicevano) per avere possanza di raffrenare qualunque ardisse di contraffare o di non ubbidire a’ decreti loro. Ma i fiorentini, come intesono questa deliberazione, la quale insino che le genti cominciorno a muoversi era stata loro celata, deliberorno non ricevere in quella cittá, tanto importante, tal numero di soldati: considerando la mala disposizione de’ pisani, ricordandosi che la ribellione passata era proceduta alla presenza e permettendola il re Carlo, e della inclinazione che al nome pisano avevano avuta i soldati franzesi, e dubitando oltre a questo che per la insolenza militare potesse nascervi qualche accidente pericoloso; ma molto piú temendo che se l’armi del re di Francia venivano a Pisa non ne nascesse (e forse secondo il desiderio occulto del re) che la Toscana diventasse la sedia della guerra. Perciò significorno, nel tempo medesimo: al re, essere difficile l’alloggiarle per la strettezza e sterilitá del paese, incomodo non che altro a pascere la moltitudine che conveniva al concilio, né essere necessario, perché Pisa era talmente retta e custodita da loro che i cardinali potevano, senza pericolo o di insulti forestieri o di opposizione di quegli di dentro, sicurissimamente dimorarvi; e al cardinale di San Malò, colla cui volontá si reggevano in queste cose i franzesi, che aveano deliberato di non ammettere in Pisa soldati. Il quale, dimostrando colle parole di consentire, ordinava da altra parte che le genti, separatamente e con minore dimostrazione che si poteva, procedessino innanzi; persuadendosi che approssimate a Pisa vi entrerebbono, o con la violenza o con arti o perché i fiorentini non ardirebbono, con tanta ingiuria del re, di proibirlo. Ma avendo il re risposto apertamente essere contento non vi venissino e da altra parte non lo vietando, i fiorentini mandorno al cardinale di San Malò, con imbasciata pari alla sua superbia, Francesco Vettori, a certificarlo che se i cardinali entravano con l’armi nel dominio loro non solo non gli ammetterebbono in Pisa ma gli perseguiterebbono come inimici: il medesimo, se le genti d’arme passavano l’Apennino verso Toscana, perché presumerebbono non passassino per altro che per entrare poi occultamente o con qualche fraude in Pisa. Dalla quale proposta commosso il cardinale, ordinò che le genti ritornassino di lá dallo Apennino; consentendogli i fiorentini che con lui rimanessino, oltre alle persone di Lautrech e di Ciattiglione, cento cinquanta arcieri.
Convennonsi tutti i cardinali a Lucca, la quale cittá il pontefice per questa cagione dichiarò incorsa nello interdetto; ove lasciato infermo il Cosentino, che pochi dí poi vidde l’ultimo suo dí, andorno gli altri quattro a Pisa; non ricevuti né con lieti animi de’ magistrati né con riverenza o divozione della moltitudine, perché a fiorentini era molestissima la loro venuta, né accetta o di estimazione alcuna appresso a’ popoli cristiani la causa del concilio. Perché, con tutto che il titolo di riformare la Chiesa fusse onestissimo e di grandissima utilitá, anzi a tutta la cristianitá non meno necessario che grato, nondimeno a ciascuno appariva gli autori muoversi da fini ambiziosi e involti nelle cupiditá delle cose temporali, e sotto colore del bene universale contendersi degli interessi particolari, e che a qualunque di essi pervenisse il pontificato non arebbono minore bisogno di essere riformati che avessino coloro i quali si trattava di riformare; e che, oltre alla ambizione de’ sacerdoti, aveano suscitato e nutrivano il concilio le quistioni de’ príncipi e degli stati: queste avere mosso il re di Francia a procurarlo, queste il re de’ romani a consentirlo, queste il re d’Aragona a impugnarlo. Dunque, comprendendosi chiaramente che con la causa del concilio era congiunta principalmente la causa dell’armi e degli imperi, aveano i popoli in orrore che sotto pietosi titoli di cose spirituali si procurassino, per mezzo delle guerre e degli scandoli, le cose temporali. Però, non solamente nello entrare in Pisa i cardinali apparí manifestamente l’odio e il dispregio comune ma piú manifestamente negli atti conciliari. Perché avendo convocato il clero a intervenire nella chiesa cattedrale alla prima sessione, niuno religioso volle intervenirvi; e i sacerdoti propri di quella chiesa, volendo essi, secondo il rito de’ concili, celebrare la messa per la quale si implora il lume dello Spirito Santo, recusorno di prestare loro i paramenti; e procedendo poi a maggiore audacia, serrate le porte del tempio, si opposono perché non vi entrassino. Delle quali cose essendosi querelati i cardinali a Firenze, fu comandato che non si negassino loro né le chiese né gli instrumenti ordinati a celebrare gli offici divini ma che non si costrignesse il clero a intervenirvi; procedendo queste deliberazioni, quasi repugnanti a se stesse, dalle divisioni de’ cittadini: per le quali, ricettando da una parte nelle terre loro il concilio dall’altra lasciandolo vilipendere, si offendeva in un tempo medesimo il pontefice e si dispiaceva al re di Francia. Però i cardinali, giudicando lo stare in Pisa senza armi non essere senza pericolo, e conoscendo diminuirsi, in una cittá che non ubbidiva a’ decreti loro, l’autoritá del concilio, inclinavano a partirsene come prima avessino indirizzate le cose. Ma gli costrinse ad accelerare un caso, il quale benché fusse fortuito ebbe perciò il fondamento dalla mala disposizione degli uomini. Perché avendo un soldato franzese fatto a una meretrice certa insolenza nel luogo publico, e avendo i circostanti cominciato a esclamare, concorsono al romore coll’armi molti franzesi, cosí soldati come familiari de’ cardinali e degli altri prelati; e vi concorsono da altra parte similmente molti del popolo pisano e de’ soldati de’ fiorentini: e gridandosi per quegli il nome di Francia, per questi quello di Marzocco (segno della republica fiorentina), cominciò tra loro uno furioso assalto; ma concorrendovi i capitani franzesi e i capitani de’ fiorentini fu alla fine sedato il tumulto, essendo giá feriti molti di amendue le parti; e tra gli altri Ciattiglione, corso nel principio senza arme per ovviare allo scandolo, e similmente Lautrech concorsovi per la medesima cagione, benché l’uno e l’altro ferito leggiermente. Ma questo accidente empié di tanto spavento i cardinali, congregati per sorte all’ora medesima nella chiesa quivi vicina di San Michele, che fatta il dí seguente la [seconda] sessione, nella quale statuirno che il concilio si trasferisse a Milano, si partirno con grandissima celeritá, innanzi al quintodecimo dí della venuta loro: con somma letizia de’ fiorentini e de’ pisani, ma non meno essendone lieti i prelati che seguitavano il concilio; a’ quali era molesto essere venuti in luogo che, per la mala qualitá degli edifici e per molte altre incomoditá procedute dalla lunga guerra, non era atto alla vita dilicata e copiosa de’ sacerdoti e de’ franzesi, e molto piú perché, essendo venuti per comandamento del re contro alla propria volontá, desideravano mutazione di luogo e qualunque accidente per difficultare, allungare o dissolvere il concilio.
Ma a Milano i cardinali, seguitando per tutto il dispregio e l’odio de’ popoli, arebbono avute le medesime o maggiori difficoltá: perché il clero milanese, come se in quella cittá fussino entrati non cardinali della Chiesa romana, soliti a essere onorati e quasi adorati per tutto, ma persone profane ed esecrabili, si astenne subitamente da se stesso dal celebrare gli offici divini; e la moltitudine, quando apparivano in publico, gli maladiceva gli scherniva palesemente con parole e gesti obbrobriosi, e sopra gli altri il cardinale di Santa Croce riputato autore di questa cosa, e che era piú negli occhi degli uomini perché nell’ultima sessione pisana l’avevano eletto presidente del concilio. Sentivansi per tutte le strade i mormorii della plebe: solere i concili addurre benedizioni pace concordia; questo addurre maladizioni guerre discordie; solersi congregare gli altri concili per riunire la Chiesa disunita, questo essere congregato per disunirla quando era unita; vulgarsi la contagione di questa peste in tutti che gli ricevevano che gli ubbidivano che gli favorivano che in qualunque modo con essi conversavano, che gli udivano o che gli guardavano; né si potere dalla venuta loro aspettare altro che sangue che fame che pestilenza che, finalmente, perdizione de’ corpi e dell’anime. Raffrenò queste voci giá quasi tumultuose Gastone di Fois, il quale, pochi mesi innanzi alla partita di Longavilla, era stato preposto dal re al ducato di Milano e all’esercito; perché con gravissimi comandamenti costrinse il clero a riassumere la celebrazione degli uffici, e il popolo a parlare in futuro modestamente.
Procedevano per queste difficoltá poco felicemente i princípi del concilio. Ma turbava molto piú le speranze de’ cardinali, che Cesare, differendo di giorno in giorno, non mandava né prelati né procuratori; con tutto che, oltre a tante promesse fatte prima, avesse affermato al cardinale di San Severino, e continuamente affermasse al re di Francia, volergli mandare: anzi, nel tempo medesimo, o allegando per scusa, o essendone fatto capace da altri, non essere secondo la sua degnitá mandare al concilio pisano i prelati degli stati propri se il medesimo non si faceva in nome di tutta la nazione germanica, aveva convocati in Augusta i prelati di Germania per deliberare come nelle cose di quel concilio si dovesse comunemente procedere; affermando però a’ franzesi che con questo mezzo gli condurrebbe tutti a mandarvi. Tormentava anche l’animo del re colla varietá del suo procedere: perché, oltre alla freddezza dimostrata nelle cose del concilio, prestava apertamente l’orecchie alla concordia co’ viniziani, trattata con molte offerte dal pontefice e dal re di Aragona; da altra parte, lamentandosi del re cattolico che non si fusse vergognato di contravenire sí apertamente alla lega di Cambrai, e che in questa nuova non confederazione ma prodizione l’avesse nominato come accessorio, proponeva a Galeazzo da San Severino d’andare a Roma personalmente come inimico del pontefice, ma somministrandogli il re parte del suo esercito e quantitá grandissima di danari: e nondimeno non proponendo queste cose con tale fermezza che e’ non fusse dubbio quel che, sodisfatto eziandio di tutte le sue dimande, avesse finalmente a deliberare.
Dunque, nel petto del re combattevano le consuete sospensioni: che Cesare abbandonato da lui si unirebbe con gli inimici; a sostentarlo, si comperava la sua congiunzione con prezzo smisurato il quale non si sapeva che frutto avesse a partorire, conoscendosi, per l’esperienza del passato, che spesso gli nocevano piú i propri disordini che giovassino le forze, né sapendo il re in se medesimo determinarsi quali gli avessino piú a nuocere in questo tempo, o i successi prosperi o gli avversi di Cesare. Aiutava quanto poteva la sua sospensione il re cattolico; dando speranza, per farlo procedere piú lentamente a’ provedimenti della guerra, che l’armi non si moverebbono: simile officio, e per simili cagioni, faceva il re di Inghilterra; il quale aveva risposto all’oratore del re di Francia non essere vero che avesse consentito alla lega fatta a Roma, e che era disposto di conservare la confederazione fatta con lui: e nel tempo medesimo il vescovo di Tivoli proponeva in nome del pontefice la pace, purché il re non favorisse piú il concilio e si rimovesse dalla protezione di Bologna; offerendo d’assicurarlo che il pontefice non tenterebbe poi cose nuove contro a lui. Dispiaceva meno al re la pace, eziandio con inique condizioni, che il sottomettersi a’ pericoli della guerra e alle spese che, avendo a resistere agli inimici e a sostentare Cesare, si dimostravano quasi infinite: nondimeno lo moveva lo sdegno di essere quasi sforzato dal re d’Aragona col terrore dell’armi a fare questo; il potersi molto difficilmente assicurare che il papa, ricuperata Bologna e liberato dal timore del concilio, osservasse la pace; e il dubbio che, quando pure si dimostrasse apparecchiato a consentire alle condizioni proposte, il pontefice non se ne ritraesse, come altre volte avea fatto: onde, offesa la sua degnitá e la riputazione diminuita, Cesare si riputasse ingiuriato che, lasciato lui nella guerra co’ viniziani, avesse voluto conchiudere la pace per sé solo. Però rispose precisamente al vescovo di Tivoli non volere consentire che Bologna stesse sotto la Chiesa se non nel modo che anticamente soleva stare; e nel tempo medesimo, per fare ferma determinazione con Cesare, che era a Brunech terra non molto distante da Trento, mandò a lui con ampie offerte e con celeritá grandissima Andrea de Burgo cremonese, oratore cesareo appresso a sé: nel qual tempo alcuni de’ suoi sudditi del contado di Tiruolo occuporno Butisten, castello molto forte all’entrata di Valdicaldora.