< Storia d'Italia < Libro XI
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XIII

Atto di sottomissione dei cardinali scismatici. Aiuti del pontefice a Cesare. Apprensioni dei veneziani e loro pronte decisioni.

Ma mentre che le cose dell’armi procedevano in questa forma, il pontefice si affaticava con somma industria per stirpare la divisione della Chiesa introdotta dal concilio pisano; la qual cosa dependendo totalmente dalla volontá del re di Francia, si ingegnava con molte arti di placare l’animo suo, affermando essere falsa la fama divulgata dello essere stati mandati da lui danari a’ svizzeri, e dimostrando non avere altro desiderio che della pace universale e di essere padre comune di tutti i príncipi cristiani. Dolergli sopra modo che la dissensione sua colla Chiesa privasse lui della facoltá di dimostrargli quanto naturalmente fusse inclinato alla amicizia sua, perché per l’onore della sedia apostolica e della persona sua propria era necessitato a procedere separatamente con lui, insino a tanto che, essendo ritornato alla ubbidienza della Chiesa romana, gli fusse lecito riceverlo come re cristianissimo e abbracciarlo come figliuolo primogenito della Chiesa. Desiderava il re, per gli interessi propri, la unione del suo regno colla Chiesa, dimandata instantemente da tutti i popoli e da tutta la corte, e alla quale era molto stimolato dalla reina; e conosceva, oltre a questo, non potere mai sperare congiunzione col pontefice nelle cose temporali se prima non si componevano le differenze spirituali. Però, o prestando fede o fingendo di prestarne alle sue parole, gli mandò imbasciadore per trattare queste cose il vescovo di Marsilia: alla venuta del quale il pontefice fece, per decreto del concilio, restituire la facoltá di purgare la contumacia, per tutto novembre prossimo, a’ vescovi franzesi e altri prelati contro a’ quali, come scismatici, l’antecessore aveva rigidissimamente proceduto per via di monitorio; e la mattina medesima nella quale cosí si determinò fu letta nel concilio una scrittura, sottoscritta di mano di Bernardino Carvagial e di Federico da San Severino, nella quale, non si nominando cardinali, approvavano tutte le cose fatte nel concilio lateranense, promettevano di aderire a quello e di ubbidire il pontefice, onde in conseguenza confessavano essere stata legittima la privazione loro dal cardinalato; la quale, fatta da Giulio, era stata confermata, esso vivente, dal medesimo concilio. Erasi trattato prima di restituirgli, ma differito per la contradizione degli oratori di Cesare e del re d’Aragona, e de’ cardinali sedunense ed eboracense, i quali detestavano come cosa indegna della maestá della sedia apostolica e di pessimo esempio, il concedere venia agli autori di tanto scandolo e di uno delitto tanto pernicioso e pieno di tanta abominazione; ricordando la costanza di Giulio ritenuta contro a loro, né per altro che per il bene publico, insino all’ultimo punto della vita. Ma il pontefice inclinava alla parte piú benigna, giudicando piú facile spegnere in tutto il nome del concilio pisano con la clemenza che col rigore, e per non esacerbare l’animo del re di Francia, il quale instantemente supplicava per loro; né lo riteneva odio particolare, non essendo stata la ingiuria fatta a lui, anzi, innanzi al pontificato, stati congiuntissimi i fratelli ed egli con Federico. Per le quali ragioni, seguitando il proprio giudicio, aveva fatto leggere innanzi a’ padri del concilio la scrittura della loro umiliazione, e dipoi statuí il dí alla restituzione; la quale fu fatta con questo ordine: entrorno Bernardino e Federico in Roma occultamente di notte, senza abito e insegne di cardinali; e la mattina seguente, dovendo presentarsi innanzi al pontefice residente nel concistorio, accompagnato da tutti i cardinali, eccettuati il svizzero e l’inghilese che ricusorno di intervenirvi, passorno, prima vestiti da semplici sacerdoti colle berrette nere, per tutti i luoghi publici del palagio di Vaticano, nel quale la notte erano alloggiati; concorrendo moltitudine grandissima a vedergli, e affermando ciascuno dovere [essere], questo vilipendio cosí publico, acerbissimo tormento alla superbia smisurata di Bernardino e alla arroganza non minore di Federico. Ammessi nel concistorio, dimandorno genuflessi, con segni di grandissima umiltá, perdono al pontefice e a cardinali, approvando tutte le cose fatte da Giulio e nominatamente la loro privazione, e la elezione del nuovo pontefice come fatta canonicamente e dannando il conciliabolo pisano come scismatico e detestabile. Della quale loro confessione poiché fu estratta autentica scrittura e sottoscritta di loro mano, levati in piede, feciono riverenza e abbracciorono tutti i cardinali, i quali non si mosseno da sedere: e dopo questo, vestiti in abito di cardinali, furono ricevuti a sedere nello ordine medesimo nel quale sedevano innanzi alla loro privazione: ricuperata con questo atto solamente la degnitá del cardinalato, ma non le chiese e l’altre entrate che solevano possedere, perché molto prima, come vacanti, erano in altri state trasferite.

Sodisfece in questo atto, se non in tutto, almeno in parte, il pontefice al re di Francia; ma non gli sodisfaceva nell’altre azioni, perché sollecitamente procurava la concordia tra Cesare e i viniziani, come cosa per gli accidenti seguiti non difficile a ottenere: perché si credeva che Cesare, invitato dalle occasioni di lá da’ monti, inclinasse, per potere piú speditamente attendere alla recuperazione della Borgogna per il nipote, ad alleggerirsi di questo peso; e molto piú si sperava che lo desiderassino i viniziani, spaventati per la rotta de’ franzesi e perché sapevano che il re di Francia, essendo imminenti molti pericoli al regno proprio, non poteva piú l’anno presente pensare alle cose d’Italia. Sentivano appropinquarsi l’esercito spagnuolo e doversi unire con quello le genti che erano in Verona, essi esausti di danari, deboli di soldati, specialmente di fanti, avere soli a resistere senza che apparisse scintilla alcuna di lume propinquo: e nondimeno rispondeva costantissimamente il senato, non volere accettare concordia alcuna senza la restituzione di Vicenza e di Verona. Ricercò in questo tempo Cesare il pontefice che gli concedesse dugento uomini d’arme contro a’ viniziani; la quale dimanda, benché gli fusse molestissima, dubitando che il concedergli non fusse molesto al re di Francia, né gli parendo a proposito di Cesare o suo diventare sospetto a’ viniziani per una causa di sí piccola importanza, nondimeno, perseverando Cesare ostinatamente, gli mandò il numero dimandato, sotto Troilo Savello, Achille Torello e Muzio Colonna; non volendo, col recusare, fare segno di non volere perseverare nella confederazione contratta col pontefice passato, e parendogli non essere ritenuto da obligo alcuno co’ viniziani: i quali, oltre che l’esercito loro, quando l’Alviano era appresso a Cremona, aveva, poco amichevolmente, predato per il parmigiano e piacentino, non aveano mai eletti imbasciadori a prestargli secondo l’uso antico l’ubbidienza, se non da poi che i franzesi, vinti, erano ritornati di lá da’ monti. Spaventò questa deliberazione i viniziani, non tanto per l’importanza di tale sussidio quanto per timore che da questo principio il pontefice non procedesse piú oltre, riputandolo ancora per segno manifestissimo che mai piú avesse a separarsi dagli inimici; e nondimeno non variorno da’ primi consigli, anzi, disposti mostrare quanto potevano il volto alla fortuna, commessono al proveditore di mare che era a Corfú che, raccolti quanti piú legni potesse, assaltasse i luoghi marittimi della Puglia: benché poco di poi, considerando meglio quel che importasse provocare tanto il re d’Aragona, per la potenza sua e perché aveva sempre dimostrato confortare Cesare alla concordia, rivocorno come piú animosa che prudente questa deliberazione.


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