Questo testo è completo. |
◄ | Libro XI - Capitolo XV | Libro XII | ► |
XVI
Dall’armi, dopo la giornata, si ridussono le cose a’ pensieri della concordia, trattata appresso al pontefice; al quale era andato il vescovo Gurgense, sotto nome principalmente di dargli l’ubbidienza in nome di Cesare e dell’arciduca; seguitandolo Francesco Sforza duca di Bari, per fare l’effetto medesimo in nome di Massimiliano Sforza suo fratello. E benché Gurgense rappresentasse come l’altre volte la persona di Cesare in Italia, nondimeno, pretermesso il fasto consueto, era entrato in Roma modestamente né voluto usare per il cammino le insegne del cardinalato, mandategli insino a Poggibonzi dal pontefice. Alla venuta del cardinale Gurgense fu fatto compromesso da lui e [da] gli oratori viniziani, di tutte le differenze tra Cesare e la loro republica, nel pontefice; ma compromesso piú tosto in nome e in dimostrazione che in effetto e in sostanza, perché niuno volle compromettere nell’arbitro sospetto, per l’importanza della cosa, se non ricevuta promessa da lui separatamente e secretamente di non lodare senza suo consentimento. Fatto il compromesso, sospese per uno breve l’offese tralle parti; il che, benché fusse accettato da tutti con lieta fronte, fu dal viceré male osservato, perché venuto tra Montagnana ed Esti, non avendo dopo la vittoria fatto altro che prede e correrie, e mandata una parte de’ soldati nel Pulesine di Rovigo, faceva in tutti questi luoghi molti danni, ora scusandosi che erano territorio di Cesare ora dicendo aspettare avviso da Gurgense. Né ebbe il compromesso piú felice il fine che avesse avuto il mezzo e il principio, per le difficoltá che nel trattare le cose si scopersono; perché Cesare non consentiva alla concordia se non ritenendo parte delle terre e per l’altre ricevendo quantitá grandissima di danari, e per contrario i viniziani dimandavano tutte le terre e offerivano piccola somma di danari. E si credeva che il re cattolico, benché palesemente dimostrasse di desiderare, come giá aveva fatto, questa concordia, ora occultamente la dissuadesse; interpretandosi che, per difficultarla piú, avesse nel tempo medesimo lasciato Brescia in mano di Cesare: la quale il viceré, affermando ritenerla per renderlo piú inclinato alla pace, non gli aveva insino a quel dí voluto consentire. Le cagioni si congetturavano variamente, o perché avendo offeso tanto i viniziani giudicasse non potere avere piú con loro sincera amicizia o perché conoscesse la riputazione e grandezza sua in Italia dependere da mantenere vivo quell’esercito; il quale, per carestia di danari, non poteva nutrire se non opprimendo e taglieggiando i popoli amici, e correndo e predando per il paese degli inimici.
Lasciò adunque imperfetta la cosa il pontefice; e poco dipoi i tedeschi occuporno furtivamente per mezzo di fuorusciti Marano, terra marittima nel Friuli, e poi presono Montefalcone: e benché i viniziani, desiderosi di recuperare Marano, propinquo a sessanta miglia a Vinegia, l’assaltassino per terra e per mare, nondimeno, essendo in ogni luogo simile la loro fortuna, furono da ciascuna delle parti danneggiati. Solamente, in questo tempo, Renzo da Ceri con somma laude sostentava alquanto il nome delle armi loro: il quale, con tutto che in Crema, dove era a guardia, fusse peste e carestia non leggiere, e che, essendo le genti spagnuole e milanesi distribuitesi, per la stagione del tempo, alle stanze per le terre circostanti, si potesse dire quasi assediata, assaltato all’improviso Calcinaia, terra del bergamasco, svaligiò Cesare Fieramosca con quaranta uomini d’arme e dugento cavalli leggieri della compagnia di Prospero Colonna; e pochi dí poi, entrato di notte in Quinzano, prese il luogotenente del conte di Santa Severina e vi svaligiò cinquanta uomini d’arme, e in Trevi dieci uomini d’arme di quegli di Prospero.
L’altre cose di Italia procedevano in questo tempo medesimo quietamente: eccetto che gli Adorni e i Fieschi con tremila uomini del paese, e forse con favore occulto del duca di Milano, presa la Spezie e altri luoghi della riviera di levante, si accostorno alle mura di Genova; ma succedendo le cose infelicemente, si partirno quasi come rotti, perduta parte delle genti che v’aveano menate e alcuni pezzi di artiglierie. Apparirono anche in Toscana princípi di nuovi scandoli: perché i fiorentini cominciorno a molestare i lucchesi, confidandosi che per timore del pontefice ricomprerebbono la pace con la restituzione di Pietrasanta e di Mutrone, e allegando non essere conveniente godessino il beneficio di quella confederazione, la quale, prestando occultamente aiuto a’ pisani, aveano violata. Della qual cosa querelandosi i lucchesi col pontefice e col re cattolico, in cui protezione erano, e non vedendo resultarne alcuno rimedio, furno contenti finalmente, per fuggire i maggiori mali, farne compromesso nel pontefice; il quale, avuta similmente autoritá da’ fiorentini, pronunziò che i lucchesi, i quali prima aveano restituita al duca di Ferrara la Garfagnana, lasciassino quelle terre a’ fiorentini, e che tra loro fusse in perpetuo pace e confederazione.
Alla fine di questo anno, le castella di Milano e di Cremona, avendo prima, perché cominciavano a mancare le vettovaglie, patteggiato di arrendersi se infra certo tempo non erano soccorse, vennono in potestá del duca di Milano; il quale in quello di Milano messe a guardia parte fanti italiani parte svizzeri. Né altro si teneva piú per il re di Francia in Italia che la Lanterna di Genova; la quale i genovesi tentorno, nella fine dell’anno medesimo, di gittare in terra colle mine, accostandosi a quella con uno puntone di legname lungo trenta braccia e largo venti, capace di trecento uomini, fasciato tutto, per resistere a’ colpi delle artiglierie, di balle di lana: cosa di grande artificio e invenzione, ma che tentata, come fanno spesso simili macchine, non succedette.