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XVII
Ma innanzi alla dedizione del castello di Milano vennono al re quattro imbasciadori, de’ principali e piú onorati del senato viniziano, Antonio Grimanno Domenico Trivisano Giorgio Cornero e Andrea Gritti, a congratularsi della vittoria, e a ricercarlo che, come era tenuto per i capitoli della confederazione, gli aiutasse alla recuperazione delle terre loro: cosa che non aveva altro ostacolo che delle forze di Cesare, e di quelle genti che con Marcantonio Colonna erano per il pontefice in Verona; perché il viceré, poi che levato del piacentino ebbe soggiornato alquanto nel modenese, per aspettare se il papa ratificava lo accordo fatto col re di Francia, intesa la ratificazione, se ne era andato per la Romagna a Napoli. Deputò il re prontamente in aiuto loro il bastardo di Savoia e Teodoro da Triulzio con settecento lancie e settemila fanti tedeschi: i quali mentre differiscono a partirsi, o per aspettare quello che succedeva del castello di Milano o perché il re volesse mandare le genti medesime alla espugnazione del castello di Cremona, l’Alviano, al quale i viniziani non avevano consentito che seguitasse il viceré perché desideravano di recuperare, se era possibile senza aiuto d’altri, Brescia e Verona, andò con l’esercito verso Brescia. Ma essendo entrati di nuovo in quella cittá mille fanti tedeschi, l’Alviano, essendosi molti dí innanzi Bergamo arrenduto a’ viniziani, si risolveva a andare prima alla espugnazione di Verona perché era manco fortificata, per maggiore comoditá delle vettovaglie e perché, presa Verona, Brescia, restando sola e in sito da potere avere difficilmente soccorso di Germania, era facile a pigliare; ma si tardava a dare principio alla impresa, per timore che il viceré e le genti del pontefice che erano in reggiano e modanese non passassino il Po a Ostia per soccorrere Verona. Del quale sospetto poiché per la partita del viceré si restò sicuro, dava impedimento la infermitá dell’Alviano; il quale, ammalato a Ghedi in bresciano, minore di sessanta anni, passò ne’ primi dí di ottobre, con grandissimo dispiacere de’ viniziani, all’altra vita; ma con molto maggiore dispiacere de’ suoi soldati, che non si potendo saziare della memoria sua tennono il corpo suo venticinque dí nello esercito, conducendolo, quando si camminava, con grandissima pompa. E volendo condurlo a Vinegia, non comportò Teodoro Triulzio che per potere passare per veronese si dimandasse, come molti ricordavano, salvocondotto a Marcantonio Colonna; dicendo non essere conveniente che chi vivo non aveva mai avuto paura degli inimici, morto facesse segno di temergli. A Vinegia fu, per decreto publico, seppellito con grandissimo onore nella chiesa di Santo Stefano, dove ancora oggi si vede il suo sepolcro; e la orazione funebre fece Andrea Novagiero gentil uomo viniziano, giovane di molta eloquenza. Capitano, come ciascuno confessava, di grande ardire ed esecutore con somma celeritá delle cose deliberate, ma che molte volte, o per sua mala fortuna o, come molti dicevano, per essere di consiglio precipitoso, fu superato dagli inimici: anzi, forse, dove fu principale degli eserciti non ottenne mai vittoria alcuna.
Per la morte dell’Alviano, il re, ricercato da’ viniziani, concedette a governo dello esercito loro il Triulzio; desiderato per la sua perizia e riputazione nella disciplina militare e perché, per la inclinazione comune della fazione guelfa, era sempre stato intratenimento e benivolenza tra lui e quella republica. Il quale mentre che andava allo esercito, le genti de viniziani espugnorono Peschiera; ma innanzi l’espugnassino roppono alcuni cavalli e trecento fanti spagnuoli che andavano per soccorrerla, e di poi ricuperorno Asola e Luná, abbandonate dal marchese di Mantova.
Alla venuta del Triulzio si pose, per gli stimoli del senato, il campo a Brescia; avvenga che l’espugnazione senza l’esercito franzese paresse molto difficile, perché la terra era forte e dentro mille fanti tra tedeschi e spagnuoli, stati costretti a partirsi numero grandissimo de’ guelfi e imminente giá la vernata, e il tempo dimostrarsi molto sottoposto alle pioggie. Né ingannò l’evento della cosa il giudicio del capitano: perché avendo cominciato a battere le mura con le artiglierie, piantate in sul fosso dalla parte onde esce la Garzetta, quegli di dentro che spesso uscivano fuora, spinti una volta mille cinquecento fanti tra tedeschi e spagnuoli ad assaltare la guardia della artiglieria, alla quale erano deputati cento uomini d’arme e seimila fanti, e battendogli anche con la scoppietteria, distesa per questo in su le mura della terra, gli messeno facilmente tutti in fuga, ancora che Giampaolo Manfrone con trenta uomini d’arme sostenesse alquanto lo impeto loro; ammazzorono circa dugento fanti, abbruciorno la polvere e condusseno in Brescia dieci pezzi d’artiglieria. Per il quale disordine parve al Triulzio di allargarsi con lo esercito per aspettare la venuta de’ franzesi, e si ritirò a Cuccai lontano dodici miglia da Brescia; attendendo intratanto i viniziani a provedere di nuova artiglieria e munizione. Venuti i franzesi, si ritornò alla espugnazione di quella cittá, battendo in due diversi luoghi, dalla porta delle Pile verso il castello e dalla porta di San Gianni; alloggiando da una parte l’esercito franzese, nel quale, licenziati i fanti tedeschi, perché recusavano andare contro alle cittá possedute da Cesare, era venuto Pietro Navarra con [cinquemila] fanti guasconi e franzesi. Dall’altra parte era il Triulzio co’ soldati viniziani; sopra il quale rimase quasi tutta la somma delle cose, perché il bastardo di Savoia ammalato era partito dell’esercito. Battuta la muraglia, non si dette l’assalto perché quegli di dentro aveano fatto molti ripari, e con grandissima diligenza e valore provedevano tutto quel che era necessario alla difesa: onde Pietro Navarra, ricorrendo al rimedio consueto, cominciò a dare opera alle mine e insieme a tagliare le mura co’ picconi. Nel quale tempo Marcantonio Colonna, uscito di Verona con seicento cavalli e cinquecento fanti, e avendo incontrato in su la campagna Giampaolo Manfrone e Marcantonio Bua, che con quattrocento uomini d’arme e quattrocento cavalli leggieri erano a guardia di Valeggio, gli roppe; nel quale incontro Giulio figliuolo di Giampaolo, mortogli mentre combatteva il cavallo sotto, venne in potestá degli inimici, e il padre fuggí a Goito: occuporno di poi Lignago, ove presono alcuni gentiluomini viniziani. Finalmente, mostrandosi ogni dí piú dura e difficile la oppugnazione, perché le mine ordinate da Pietro Navarra non riuscivano alle speranze date da lui, e intendendosi venire di Germania ottomila fanti, i quali i capitani che erano intorno a Brescia non si confidavano di impedire, furno contenti i viniziani, per ricoprire in qualche parte l’ignominia del ritirarsi, convenire con quegli che erano in Brescia, che se infra trenta dí non fussino soccorsi abbandonerebbono la cittá, uscendone, cosí permettevano i viniziani, con le bandiere spiegate con l’artiglierie e con tutte le cose loro: la quale promessa, tale era la certezza della venuta del soccorso, sapeva ciascuno dovere essere vana, ma alla gente di Brescia non era inutile il liberarsi in questo mezzo dalle molestie. Messono dipoi i viniziani in Bré, castello de’ conti di Lodrone, ottomila fanti: ma come questi sentirno i fanti tedeschi, a’ quali si era arrenduto il castello di Amfo, venire innanzi, si ritirorno vilmente all’esercito. Né fu maggiore animo ne’ capitani: i quali, temendo in un tempo medesimo non essere assaltati da questi e da quegli che erano in Brescia e da Marcantonio co’ soldati che erano a Verona, si ritirorno a Ghedi; ove prima, giá certi di questo accidente, aveano mandate l’artiglierie maggiori, e quasi tutti i carriaggi. E i tedeschi, entrati in Verona senza contrasto, proveduta che l’ebbono di vettovaglie e accresciuto il numero de’ difensori, se ne ritornorono in Germania.