< Storia d'Italia < Libro XIII
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XIV

Aspirazione del pontefice all’acquisto di Ferrara. Il vescovo di Ventimiglia muove con milizie con il disegno occulto di dar l’assalto alla cittá. Ragione del fallimento dell’impresa. Scioglimento dell’esercito.

Conservavasi adunque Italia in pace per queste cagioni: benché nella fine di questo medesimo anno il pontefice tentasse di occupare la cittá di Ferrara, non con armi manifeste ma con insidie. Perché se bene si fusse creduto che, per la morte di Lorenzo suo nipote, mancando giá alla casa sua piú presto uomini che stati, avesse levato il pensiero dalla occupazione di Ferrara alla quale prima avea sempre aspirato, nondimeno, o stimolato dall’odio conceputo contro a quel duca o dalla cupiditá di pareggiare o almanco approssimarsi quanto piú poteva alla gloria di Giulio, non aveva, per la morte del fratello e del nipote, rimesso parte alcuna di questo ardore: donde che facilmente si può comprendere che l’ambizione de’ sacerdoti non ha maggiore fomento che da se stessa. Né comportando la qualitá de’ tempi, e il sito e la fortezza di quella cittá, la quale Alfonso con grandissima diligenza aveva renduta munitissima, che si pensasse a espugnarla con aperta forza, avendo lui massime quantitá quasi infinita di bellissime artiglierie e munizioni, e avendo, con limitare tutte le spese, aggiugnere nuovi dazi e gabelle, fare vive in qualunque modo l’entrate sue e, esercitandosi con la industria, rappresentare in molte cose piú il mercatante che il principe, accumulato, secondo si credeva, grandissima quantitá di danari, non restava al pontefice, se non si mutavano le condizioni de’ tempi, altra speranza di ottenerla che con occulte insidie e trattati. De’ quali avendone per il passato tentato con Niccolò da Esti e con molti altri vanamente, ed essendosi Alfonso, per non avere notizia che attendesse piú a queste pratiche, quasi assicurato non della sua volontá ma delle insidie, parve al pontefice (per partiti che gli furono proposti e per essere Alfonso, oppresso da lunga infermitá, ridotto in termine che quasi si disperava la sua salute, e il cardinale suo fratello, per non stare con poca grazia nella corte di Roma, trovandosi in Ungheria) tempo opportuno di tentare di eseguire qualche disegno che gli era proposto da alcuni fuorusciti di Ferrara, e per mezzo loro da Alessandro Fregoso vescovo di Ventimiglia, abitante allora a Bologna perché, aspirando a essere doge come era stato il cardinale suo padre, era sospetto a Ottaviano Fregoso; il quale, stato poco felice ne’ trattati che aveva fatto per sé per rientrare nella propria patria, prometteva piú prospero successo in quegli che faceva per altri nelle patrie forestiere.

Sotto colore adunque di volere entrare con l’armi in Genova, il vescovo, ricevuti occultamente dal pontefice diecimila ducati, soldò, parte del paese di Roma parte nella Lunigiana, duemila fanti. Al romore della quale adunazione essendosi, per sospetto di sé, armato per terra e per mare Ottaviano Fregoso, egli, come se per essere scoperti i suoi disegni restasse escluso di speranza di potere per allora voltare lo stato di Genova, fatto intendere a Federigo da Bozzole (con l’aiuto di chi si manteneva in grande parte la Concordia contro al conte Giovanfrancesco della Mirandola) poterlo servire di quelle genti insino non fusse finita la paga loro la quale durava presso a uno mese, passato l’Apennino scese in quello di Coreggio, pigliando lentamente il cammino della Concordia. Ed era il fondamento di questo trattato il passare il fiume del Po; al quale effetto certi ministri di Alberto da Carpi, conscio di questa pratica, avevano noleggiato, sotto nome di mercatanti di grani, molte barche che erano nella bocca del fiume della Secchia (cosí chiamano i circonvicini quel luogo dove l’acque della Secchia entrano nel Po), con le quali passando Po, disegnava il vescovo accostarsi prestamente a Ferrara: dove egli stato pochi mesi innanzi aveva speculato uno luogo della terra in sul Po dove erano in terra piú di quaranta braccia di muro, luogo aperto e molto facile a entrarvi. Il quale muro essendo caduto non molto prima non si era restaurato cosí presto, perché la vicinitá del fiume e lo starsi senza timore avevano nutrito la negligenza di chi soleva sollecitamente provedere a questi disordini.

Ma come fu sentito per il paese circostante il Ventimiglia con queste genti avere passato l’Apennino, il marchese di Mantova, non per alcuno sospetto particolare ma per consuetudine antica di difficultare alle genti forestiere i passi de’ fiumi, ritirò a Mantova tutte le barche che erano in bocca di Secchia; in modo che il Ventimiglia, non potendo servirsi delle barche noleggiate né avendo comoditá di provederne cosí presto dell’altre, massime perché i governatori vicini della Chiesa non erano avvertiti di questa pratica, né avevano commissione, quando bene l’avessino saputa, di intromettersene, mentre che cerca di qualche rimedio, egli e i ministri di Alberto soggiornò con le genti verso Coreggio e ne’ luoghi vicini: dove avendo parlato con molti incautamente, e con alcuni scoperto tutti i particolari del suo disegno, il marchese di Mantova, avvertitone, notificò per uno uomo suo la cosa al duca di Ferrara. Il quale era tanto alieno da questo sospetto che con difficoltá si indusse a prestargli fede; pure, movendolo piú che altro quello riscontro del muro rotto, cominciò a prepararsi di gente; né mostrando avere sospetto del pontefice, benché sentisse in sé altramente, fattogli intendere le insidie che gli erano ordinate dal vescovo Ventimiglia, lo supplicò che e’ commettessi ai governatori vicini che, occorrendogli di bisogno, gli porgessino aiuto: la quale cosa fu dal pontefice con favorevoli brevi eseguita prontamente, ma data però nel tempo medesimo occultamente altra commissione.

La fama che a Ferrara si cominciasse a fare provisione, aggiunta alla difficoltá di passare Po, tolse al vescovo ogni speranza: però condottosi con le genti presso alla Concordia, mentre che con quegli che vi erano dentro, insospettiti giá di lui, tratta di volere offendere la Mirandola, presentatosi allo improvviso una notte alle mura della Concordia, gli fece dare la battaglia, ma per dare cagione agli uomini di credere che non per andare a Ferrara ma per occupare la Concordia fusse venuto in quegli luoghi. Fu vano questo assalto: dopo il quale i fanti con sua licenza si dissolverono; lasciata opinione in molti e in Alfonso medesimo che se non gli era interrotto la facoltá di passare Po, arebbe ottenuta, per il muro rotto, Ferrara, dove non era gente alcuna, non sospetto, il duca ammalato gravemente, e il popolo in modo male sodisfatto di lui che pochissimi, in uno tumulto quasi improviso, arebbono prese l’armi o oppostisi al pericolo.

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