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Capitolo quindicesimo
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XV
Ma nel tempo medesimo che queste cose succedevano in Lombardia, per i travagli di quella parte e per l’assenza del pontefice, non era stata del tutto quieta Bologna; ma molto meno quieta la Toscana. Perché a Bologna Annibale Bentivoglio e con lui Annibale Rangone, raccolti nascostamente circa quattromila uomini, si accostorno una mattina in sull’aurora, con tre pezzi di artiglieria, dalla parte de’ monti, e non sentendo farsi per quegli di dentro strepito alcuno, molti passorono il fosso e appoggiorono le scale alle mura: ma quegli di dentro, che il dí davanti avevano presentita la loro venuta, levato quando parve tempo il romore, e cominciato a dare fuoco all’artiglierie e uscendo molti di fuora ad assaltargli, si messono subitamente in fuga, lasciate l’artiglierie; e nel fuggire fu ferito dalla parte di dietro Annibale Rangone. Credettesi quasi per certo che questa cosa fusse stata tentata con saputa del cardinale de’ Medici; il quale, temendo che il pontefice, o per proprio consiglio o per suggestione di altri, non cercasse, come fusse venuto in Italia, di diminuire la sua grandezza, avesse desiderato che, perturbato da tanta iattura dello stato ecclesiastico non solamente avesse necessitá di dare opera ad altro che a perseguitarlo ma fusse costretto a ricorrere a’ consigli e aiuti suoi.
Ma molto piú lunghi e maggiori erano stati i travagli e pericoli di Toscana. Perché, appena assicurato dal duca d’Urbino lo stato di Siena e posate le cose di Perugia e di Montefeltro, era stato dato nuovo ordine, per suggestione del cardinale di Volterra, dal re di Francia che Renzo da Ceri, il quale si riposava ozioso in terra di Roma, tentasse di mutare lo stato di Firenze, rimettendo in quella cittá i fratelli e nipoti del cardinale di Volterra, dichiarato con tutti i suoi amico e confederato del re: i danari necessari alla quale impresa, perché il re allora era costituito in somma necessitá, si doveano numerare dal cardinale, ricevendo promessa dal re che gli avessino a essere restituiti a certo tempo. Le quali cose, mentre che Renzo si prepara per muoversi, pervenute a notizia del cardinale de’ Medici, lo costrinsono, per timore che medesimamente il duca di Urbino non si movesse, a convenire che, senza pregiudicio delle ragioni che i fiorentini e il duca pretendevano nelle terre del Montefeltro, il duca fusse capitano generale di quella republica per uno anno fermo, e un altro di beneplacito, cominciando la sua condotta al principio del prossimo settembre. Condusse per la medesima cagione Orazio Baglione agli stipendi de’ fiorentini, ma con condizione che la condotta sua non cominciasse prima che del mese di giugno, perché insino a quel tempo era obligato a’ viniziani. La quale convenzione benché si facesse eziandio in nome di Malatesta suo fratello nondimeno non si ratificava da lui, perché avendo ricevuti prima danari per congiugnersi, con dumila fanti e cento cavalli leggieri, con Renzo da Ceri, né voleva mancare apertamente all’onore proprio né da altra parte provocarsi con cagioni nuove l’inimicizia del cardinale e de’ fiorentini: però, fingendo di essere infermato, mandò a Renzo, che era venuto a Castel della Pieve, duemila fanti cento cavalli leggieri e quattro falconetti, scusandosi che per la infermitá non poteva andare personalmente; e al cardinale dava speranza di non prendere piú dagli inimici nuovi danari, di ratificare, finito il tempo per il quale era pagato, la condotta fatta, e in quel mezzo procedere con maggiore moderazione potesse in quelle cose le quali non poteva, per i danari ricevuti, ricusare di fare. Entrò dipoi Renzo con cinquecento cavalli e settemila fanti nel territorio di Siena, seguitandolo i medesimi fuorusciti i quali avevano seguitato il duca di Urbino, per tentare la mutazione di quel governo: la quale se gli fusse succeduta, non si dubitava che, avendo per questo la facoltá di entrare per quella via nelle viscere del dominio fiorentino, gli sarebbe delle cose di Firenze succeduto il medesimo. Ma da altra parte i fiorentini, prevedendo questo pericolo e desiderando che gli inimici non si approssimassino a Siena, avevano mandato nel sanese tutte le genti loro sotto Guido Rangone, eletto per questo tumulto governatore generale dell’esercito; lo intento del quale era sforzarsi di fare perdere tempo agli inimici, a’ quali si sapeva che se non avessino qualche prospero successo mancherebbono presto i danari, e nel tempo medesimo procurare quanto poteva di impedire loro le vettovaglie: però, governandosi secondo i progressi degli inimici, attendeva a mettere guardia ora in queste ora in quelle terre piú vicine del dominio sanese e fiorentino. Nella quale mutazione de’ soldati da luogo a luogo accadde che andando la compagnia de’ cavalli de’ Vitelli da Torrita ad Asinalunga, riscontrandosi in trecento cavalli degli inimici, fu rotta, preso Ieronimo Peppolo luogotenente di Vitello con venticinque uomini d’arme e due insegne. Fu il primo movimento di Renzo contro alla cittá di Chiusi, cittá piú nobile per la memoria della sua antichitá e de’ fatti egregi di Porsena suo re che per le condizioni presenti; la quale terra non ottenuta, perché non avendo altre artiglierie che quattro falconetti era molto difficile lo spugnare terre difese da soldati, entrò piú innanzi tra Torrita e Asinalunga per appropinquarsi a Siena: ma non avendo nel mezzo delle terre inimiche comoditá di vettovaglie, assaltò, per acquistarne per forza, il castello di Torrita guardato da cento uomini d’arme del conte Guido Rangone e da centocinquanta fanti; onde levatosi senza effetto, seguitando il suo cammino, andò a Montelifré e di quivi al Bagno a Rapolano lontano da Siena dodici miglia, nella qual cittá aveano i fiorentini messo insino da principio il conte di Pitigliano. Ma il conte Guido, interrompendo con la diligenza e con la celeritá tutti i suoi disegni, entrò il medesimo dí in Siena con dugento cavalli leggieri, lasciato indietro l’esercito che continuamente lo seguitava. Però la vicinitá del soccorso, l’essere in questa espedizione diminuita molto, e co’ suoi medesimi e appresso agli inimici, la riputazione di Renzo, il sapersi essere ridotto in necessitá grande di vettovaglie, toglievano l’animo a quelli che in Siena arebbono desiderato mutazione; e nondimeno si appresentò a mezzo miglio alle mura, dove poiché non si faceva sollevazione si levò in capo di uno dí: nel quale dí, ma dopo la sua levata, entrorono in Siena le genti de’ fiorentini; e benché si mettessino a seguitarlo, disperate di potere giugnerlo perché aveva preso molto vantaggio, si fermorono, lasciando seguitarlo da’ cavalli leggieri e da certo numero di fanti che prima erano in Siena, da’ quali ricevette poco danno, ma camminando con celeritá, e forse non meno per la fame che per il timore, lasciò l’artiglierie per la strada, le quali con grande infamia sua pervennono in potestá degli inimici. Fermossi, per riordinare le genti molto diminuite, ad Acquapendente, sicuro, perché sapeva le genti de’ fiorentini avere rispetto a entrare nel dominio della Chiesa; ma essendogli mancati denari, e giá disprezzandolo i cardinali Volterra, di Monte e di Como, co’ quali per ordine del re di Francia si trattavano le cose sue, corse con quelle poche genti che gli erano restate a predare nella Maremma di Siena, dove dette invano la battaglia a Orbatello. Però i fiorentini, che avevano spinto l’esercito loro al ponte a Centina, che è il confine dello stato de’ sanesi e quello della Chiesa, vedendo Renzo non dissolvere totalmente le genti, minacciavano di assaltare le terre sue; però il collegio de’ cardinali, a’ quali era molesto che questo incendio si appiccasse nello stato ecclesiastico, si interpose alla concordia, che fu parimenti grata a ciascuno: a’ fiorentini per levarsi dalla spesa che si faceva senza frutto, a Renzo perché si trovava con piccola provisione e senza speranza di mettere insieme maggiori forze; declinando massimamente in Lombardia le cose de’ franzesi. Né contenne l’accordo altro che promessa di non si offendere tra i fiorentini e sanesi da una parte e Renzo dall’altra, per la quale fu dato in Roma sicurtá di cinquantamila ducati per l’osservanza; e che delle prede fatte si stesse alla dichiarazione del pontefice quando fusse in Italia.
Era succeduto in Lucca, questa vernata medesima, pericoloso accidente. Perché Vincenzo di Poggio di famiglia nobile e Lorenzo Totti, sotto colore di discordie particolari ma incitati forse piú presto da ambizione e da povertá, prese le armi ammazzorono nel palagio publico il gonfaloniere di quella cittá, e di poi scorrendo per la terra ammazzorono alcuni altri cittadini loro avversari; con tanto timore universale che nessuno ardiva opporsi loro: nondimeno, cessato il primo impeto, cominciando quegli che avevano spaventati gli altri a temere, per la grandezza del delitto commesso, di se medesimi, e interponendosi molti cittadini, si uscirono con certe condizioni della cittá; della quale come furono usciti furono perseguitati da’ lucchesi rigidissimamente per tutto.
Quietate come è detto le cose di Lombardia e di Toscana, ma essendo, per l’assenza del pontefice e per le discordie e ambizioni de’ cardinali, negletta totalmente dal collegio la cura dello stato della Chiesa, Sigismondo figliuolo di Pandolfo Malatesta, antico signore di Rimini, occupò quasi solo, con debole intelligenza che aveva in Rimini, quella cittá: e benché, per instanza fattagli dal collegio, il cardinale de’ Medici andasse a Bologna come legato di quella cittá, per ricuperare Rimini e riordinare l’altre cose molto turbate di Romagna, avuta promessa dal collegio che il marchese di Mantova capitano della Chiesa andrebbe in aiuto suo; nondimeno non si messe a effetto cosa alcuna, per mancamento di danari, e perché i cardinali che gli avversavano impedivano ogni deliberazione per la quale fusse per accrescersi la sua riputazione.