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Capitolo primo
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LIBRO DECIMONONO
I
Alloggiato Lautrech con l’esercito appresso alle mura di Napoli, fu la prima consultazione se era da tentare di sforzare con lo impeto dell’artiglierie e con la virtú degli uomini quella cittá; come molti, confortando che a questo effetto si augumentasse il numero de’ fanti, consigliavano. Allegavano questi molte difficoltá per le quali non si poteva sperare di starvi intorno lungamente: la difficoltá delle vettovaglie, perché gli inimici, copiosissimi di cavalli leggieri e pronti a esercitargli, rompevano tutte le strade; ed essere incerta la speranza che Napoli avesse ad arrendersi per la fame, perché non essendo bastanti le galee del Doria a tenere serrato il porto né venendo le galee de’ viniziani, benché promesse ciascuno giorno, erano entrate da Gaeta in Napoli, che pativa di macinato, quattro galee cariche di farine, e ve ne entrava ciascuno dí degli altri legni; vedersi fredde le provisioni de’ viniziani, i quali, per conto de’ ventiduemila ducati che gli pagavano ciascuno mese, erano giá debitori di sessantamila ducati; essergli somministrati parcamente i danari di Francia; ed empiersi giá l’esercito di infermitá, le quali però non procedevano tanto dalla gravezza ordinaria di quella aria, che suole cominciare a nuocere alla fine della state, quanto perché i tempi erano andati molto piovosi, alloggiando anche molti dello esercito in campagna. Nondimeno Lautrech, considerando che in tanta moltitudine e virtú di difensori, e per la fortificazione del monte il quale si poteva soccorrere, l’espugnare o il monte o la cittá era cosa molto difficile, né volendo forse spendere con piccolissima speranza i danari, per timore che poi per sostentare le spese ordinarie non gli mancassino, deliberò di attendere non alla espugnazione ma allo assedio; sperando che innanzi passasse molto tempo avessino a mancare agli inimici o le vettovaglie o [i] danari. Indirizzò adunque e l’animo e tutte le provisioni all’assedio lento, intento a impedire che per terra non vi entrassino vettovaglie, e a sollecitare la venuta delle galee viniziane per privargli del tutto delle vettovaglie marittime. Quivi, mutato consiglio, permesse si facessino le scaramuccie, perché i soldati stando in ozio non perdessino d’animo; e però se ne faceva spesso, e con grande laude delle bande nere; le quali, eccellenti per la disciplina di Giovanni de’ Medici in questa specie di combattere, non avevano insino allora dimostrato quel che in giornata ordinaria e in battaglia ferma e stabile valessino in campagna. Arrivorno in questo tempo allo esercito ottanta uomini d’arme del marchese di Mantova e cento del duca di Ferrara; il quale duca benché fusse stato ricevuto in ampia protezione del re di Francia e de’ viniziani, nondimeno aveva tardato quanto aveva potuto a fargli muovere, per regolare le sue deliberazioni con quello che si potesse congetturare dello evento futuro della guerra.
In questo stato delle cose conceperono gl’imperiali speranza di rompere Filippino Doria, che era con le galee nel golfo di Salerno; non facendo tanto fondamento in su il numero e in su la bontá de’ legni loro quanto nella virtú de’ combattitori, perché empierono sei galee quattro fuste e due brigantini di mille archibusieri spagnuoli, de’ piú valorosi e de’ piú lodati dello esercito; co’ quali vi entrorono don Ugo viceré e quasi tutti i capitani e uomini d’autoritá. A questa armata, governata per consiglio del Gobbo, nelle cose marittime veterano e famoso capitano, aggiunseno molte barche di pescatori, per spaventare gli inimici da lontano col prospetto di maggiore numero di legni; i quali, partiti tutti da Pausilipo, toccorono all’isola di Capri; dove don Ugo, con grandissimo pregiudizio di questo assalto, perdé tempo a udire uno romito spagnuolo, che concionando accendeva gli animi loro a combattere come era degno della gloria acquistata con tante vittorie da quella nazione. Di quivi, lasciato a mano sinistra il Cavo della Minerva, entrati in alto mare, mandorno innanzi due galee, con commissione che accostatesi agli inimici simulassino poi di fuggire, per tirargli in alto mare a combattere. Ma Filippino Doria, avendo il dí dinanzi per esploratori fidati presentito il consiglio degli inimici, aveva, con grandissima celeritá, ricercato Lautrech che gli mandasse subito trecento archibusieri; i quali, guidati da Croch, erano arrivati poco innanzi che si scoprisse l’armata degli inimici. La quale come si scoperse da lontano, Filippino, ancora che con grande animo avesse fatte tutte le preparazioni necessarie per combattere, nondimeno commosso dal numero grande de’ legni che si scoprivano, stette molto sospeso; ma in breve spazio di tempo lo liberò da questa dubitazione il vedere, quando gli inimici si approssimavano, non vi essere altri legni da gabbia che sei. Perciò, con animo forte e come capitano peritissimo della guerra navale, fece allargare sotto specie di fuga tre galee dalle altre sue, acciò che girando assaltassino col vento prospero gli inimici per lato e da poppa, egli con cinque galee va incontro agli inimici, i quali dovevano scaricare la loro artiglieria per tôrre a lui col fumo la mira e la veduta. Ma Filippino dette fuoco a uno grandissimo basalischio della sua galea, il quale percotendo nella galea capitana, in sulla quale era don Ugo, ammazzò al primo colpo quaranta uomini, tra’ quali il maestro della galea e molti uffiziali; e scaricate poi altre artiglierie ne ammazzò e ferí molti. Da altro canto, l’artiglierie scaricate dalla galea di don Ugo ammazzorono nella galea di Filippino il maestro, ferirono il padrone; ma i genovesi, esperimentati a queste battaglie, schifavano meglio il pericolo, combattendo chinati e cauti fra gli intervalli de’ palvesi. Cosí, mentre combattono con grandissima ferocia e spavento le due galee, tre altre galee degli imperiali strignevano due genovesi, ed erano giá molto superiori; ma le tre prime genovesi, che simulando di fuggire erano andate in alto mare, ritornate sopra gli inimici percosseno per lato la galea capitana: delle quali la galea che era chiamata la Nettunna svelse il suo albero, che gli fece grande danno. Quivi don Ugo, ferito nel braccio e coperto, mentre confortava i suoi, da’ sassi e da’ fuochi gittati dagli alberi delle galee inimiche, combattendo fu morto; quivi la capitana di Filippino e la Mora spacciorno la capitana di don Ugo, l’altre due con l’artiglierie affondorono la Gobba, dove morí il Fieramosca; intratanto l’altre galee di Filippino avevano ricuperato due delle loro oppressate dalle spagnuole, e prese le loro fuste; due sole delle spagnuole, veduto la vittoria essere degli inimici, male trattate, con fatica fuggirono. Nel quale tempo il marchese del Guasto e Ascanio, affogata quasi e ardente la loro galea, rotti i remi, morti quasi tutti ed essi feriti, furono fatti prigioni, salvandogli dalla morte lo splendore dell’armi indorate. Restorno presi venti condottieri, molti padroni delle galee. E giovò assai a Filippino il liberare i forzati, la piú parte turchi e mori, che combatterno eccellentemente. I prigioni furno mandati da Filippino con tre galee al Doria; e una delle due galee, che si era salvata, passò pochi dí poi da’ franzesi, perché il padrone, che era uno marchese Doria regnicola, fu imputato dagli spagnuoli di mancamento nella battaglia. Ma scrisse l’oratore fiorentino a Firenze, conformandosi nelle altre cose, che la battaglia durò da ore ventidue insino a due ore di notte, e che gli imperiali oltre alle sei galee avevano undici vele minori cariche di soldati; che da principio furono prese due galee franzesi, con morte quasi di tutti; ma che l’artiglieria, della quale i franzesi erano superiori, messe in fondo due galee, due altre con alcune fuste furono prese, e morta o ferita la piú parte delle ciurme e de’ soldati; e che in una non ne restorono non feriti piú che tre; l’altre due, dove era Curradino co’ tedeschi, molto danneggiate fuggirono a Napoli. Don Ugo fu morto da due archibusate e gittato in mare, e cosí il Fieramosca. Restorono prigioni il marchese del Guasto, Ascanio Colonna, il principe di Salerno, Santa Croce, Cammillo Colonna, il Gobbo, Serone e molti altri capitani e gentiluomini. Morirono piú di mille fanti, e de’ franzesi pochi che non restassino o morti o feriti.
Dette questa vittoria speranza grande a’ franzesi del successo di tutta la impresa, e forse maggiore che non sarebbe stato di bisogno, perché fece in qualche parte Lautrech piú lento alle provisioni; ma empié gli imperiali di molto terrore, dubitando del mancamento delle vettovaglie, poi che restavano al tutto spogliati dello imperio del mare, e per terra stretti da molte parti, massime dopo la perdita di Pozzuolo, perché per quella strada si conduceva a Napoli copia grande di vettovaglie: e giá in Napoli era carestia grande di farina e di carne e piccola quantitá di vino: però, il dí seguente alla rotta, cacciorono di Napoli numero grande di bocche inutili; e posto ordine alla distribuzione delle vettovaglie, si sforzavano che i fanti tedeschi patissino manco che gli altri soldati. Dalle quali cose nutrendosi la speranza di Lautrech, si accrebbe molto piú per uno brigantino intercetto, il settimo dí di maggio, con lettere de’ capitani a Cesare: per le quali significavano d’avere perduto il fiore dell’esercito; non essere in Napoli grano per uno mese e mezzo, ma fare le farine a forza di braccia; cominciare a fare qualche tumulto i tedeschi, né vi essere danari da pagargli; né avere piú le cose rimedio alcuno se non veniva presta provisione di vettovaglie, di danari e di soccorso per mare e per terra: aggiugnevasi l’essere cominciata in Napoli la peste, contagiosa molto dove sono soldati tedeschi, perché non si astengono da conversare con gli infetti né da maneggiare le cose loro. Pativa, da altra parte, l’esercito di acque perché da Poggioreale alla fronte dell’esercito non sono altro che cisterne, delle quali si serviva l’esercito; augumentavanvisi le infermitá; e gli inimici, essendo molto superiori di cavalli leggieri, uscendo continuamente fuora, massime per la via che va a Somma; non solo conducevano dentro copia di carne e di vini ma spesso interrompevano le vettovaglie che venivano all’esercito franzese, il quale per questa cagione qualche volta ne pativa: né si facevano altre fazioni che scaramuccie. Ricordavangli molti che conducesse cavalli leggieri per potersi opporre a quegli degli inimici; il che recusava di fare, anzi permetteva che la maggiore parte de’ cavalli franzesi si stesse distesa in Capua in Aversa e in Nola, il che agli inimici augumentava la facoltá di fare gli effetti sopradetti. Altri consigliavano che, essendo per le infermitá diminuita la fanteria dell’esercito, conducesse in supplemento di quello (come anche, perché fusse piú potente, era stato desiderato insino da principio) sette o ottomila fanti; e questo anche, avendo giá cominciato a denegarlo, recusava di fare, allegando mancargli danari; benché a quel tempo n’avesse di Francia comoda provisione, avesse riscossa l’entrata della dogana delle pecore di Puglia, riscotesse l’entrate delle terre prese, e i signori del regno che gli erano appresso fussino pronti a prestargli non piccola quantitá di danari.
Scaramucciavasi ogni dí dalle bande nere, alloggiate nella fronte dell’esercito; le quali, traportate da troppo animo, si accostavano tanto alle mura di Napoli che da quelle erano offesi con gli archibusi; e non avendo nel ritirarsi cavalli alle spalle, erano ammazzati da’ cavalli degli inimici: donde conoscendosi il disavvantaggio grande di fare le scaramuccie senza cavalli sotto alle mura di Napoli, cominciorono a non si fare cosí frequentemente. Arrendessi a Lautrech dopo la vittoria, Castello a mare di Stabbia ma non la fortezza; Gaeta si teneva per Cesare, nella quale era il cardinale Colonna con novecento fanti italiani e con i secento fanti che erano venuti di Spagna: benché il cardinale Colonna dimandasse a Lautrech salvocondotto per andare a Roma, il quale non gli concedette. Erasi similmente arrenduto San Germano; e avendo le genti che erano in Gaeta recuperato Fondi e il paese circostante, Lautrech vi mandò don Ferrando Gaietano, figliuolo del duca di Traietto, e il principe di Melfi (nuovamente, per avere i capitani imperiali tenuto poco conto di liberarlo, concordato co’ franzesi); i quali facilmente di nuovo l’occuporono. Faceva e in Calavria Simone Romano progresso grande, per la prontezza de’ popoli a riconoscere il nome franzese: come arebbe anche fatto Napoli, se non fusse stata la tarditá di Lautrech; la quale almanco dette tempo a mettervi le vettovaglie delle terre circostanti.
Ma non bastavano queste cose a ottenere la vittoria della guerra, la quale dependeva totalmente o dallo acquisto o dalla difesa di Napoli, se o non si espugnava quella cittá o non se gli impedivano le vettovaglie con maggiore diligenza, per terra e per mare. Però, intento principalmente allo assedio, né disperando anche in tutto di potere prendere Napoli per forza, poiché erano morti tanti fanti spagnuoli nella battaglia navale, sollecitava la venuta delle armate franzese e viniziana, per privare del tutto quella cittá delle vettovaglie marittime. Mosse anche la fronte dello esercito piú innanzi, in su uno poggio piú vicino a Napoli e al monte di San Martino, dove fu fatta dalle bande nere una trincea, non solo per muovere da quel poggio una trincea la quale, distendendosi insino alla marina e avendo nella estremitá sua a canto al mare uno bastione, chiudesse la strada di Somma, ma per tentare, come prima fussino venute l’armate, di pigliare per forza il monte di Santo Martino, fatta prima un’altra trincea tra la cittá e il monte di San Martino, acciò che non potessino soccorrere l’uno all’altro; e poi in uno tempo medesimo assaltare Napoli con l’armate dalla parte del mare, e per terra, battendo dalla fronte dello alloggiamento di dentro, e di fuora assaltarla con una parte dell’esercito, e con l’altra assaltare il monte; acciò che gli inimici, divise per necessitá le forze in tanti luoghi, potessino piú facilmente essere superati da qualche banda; non abbandonato però, per l’essersi allungata la fronte dell’alloggiamento, Poggio Reale, perché gli inimici recuperandolo non gli privassino della comoditá delle acque, ma ristrignendo per la coda l’alloggiamento. A’ quali consigli bene considerati si opponevano molte difficoltá. Perché né le trincee lunghe piú di uno miglio insino al mare si potevano, per mancamento di guastatori e per le infermitá de’ soldati, lavorare con celeritá; né venivano, come per l’assedio e per l’espugnazione sarebbe stato necessario, l’armate: perché Andrea Doria con le galee che erano a Genova non si moveva, dell’armata preparata a Marsilia non si intendeva cosa alcuna, e la viniziana intenta piú allo interesse proprio che al beneficio comune, anzi piú tosto agli interessi minori e accessori che agli interessi principali, attendeva alla espedizione di Brindisi e di Otranto. Delle quali cittá Otranto aveva convenuto di arrendersi se fra sedici dí non era soccorso, e Brindisi benché per accordo avesse ammesso i viniziani, si tenevano ancora le fortezze in nome di Cesare: quella di mare, forte in modo da non sperare di espugnarla; quella grande di dentro alla cittá, avendo perduto due rocchette, pareva non potesse piú resistere.
Ma veramente non è opera senza mercede il considerare che disordini partorisca la ostinazione di quegli che sono proposti alle cose grandi. Lautrech, senza dubbio primo capitano del regno di Francia, esperimentato lungamente nelle guerre e di autoritá grandissima appresso all’esercito, ma di natura altiero e imperioso, mentre che credendo a sé solo disprezza i consigli di tutti gli altri, mentre che non vuole udire niuno, mentre si reputa infamia che gli uomini si accorghino che non sempre si governi per giudicio proprio, omesse quelle provisioni le quali, usate, sarebbono state forse cagione della vittoria, disprezzate, ridussono la impresa, cominciata con tanta speranza, in ultima ruina.
Piantossi a’ dodici di maggio l’artiglieria in su il poggio, e batteva uno torrione che danneggiava molto la campagna. Tiravasi anche spesso nella terra ma con poco frutto, e si scaramucciava qualche volta a Santo Antonio. A’ sedici, l’artiglieria piantata a Capo di Monte tirava a certi torrioni tra la porta di San Gennaro e la Capuana, e impediva fare uno bastione cominciato da quegli di dentro; e Filippino, che era allo intorno, pigliava tutto dí navi che andavano con grano a Napoli: dove la piú parte viveva di grano cotto, e ne usciva ogni dí gente assai; e i tedeschi, ancora che patissino manco che gli altri, protestavano spesso per mancamento di pane e molto piú di vino e di carne, di che vi si pativa molto: pure, oltre all’altre arti, erano intrattenuti assai con lettere false di soccorso. E da altra banda, nello esercito crescevano ogni dí l’infermitá, delle quali morivano molti. Lavoravasi a’ diciannove alle trincee nuove, con le quali piantandosi due cannoni in su il bastione, come e’ fusse fatto, si sarebbeno rovinati due mulini presso alla Maddalena guardati da due bandiere di tedeschi, che non si erano mai tentati, per avere facile il soccorso di Napoli. Intratanto si scaramucciava spesso a Santo Antonio.
Insino qui non procedevano se non felici le cose de’ franzesi: ma cominciorono per cagioni occulte, a piegarsi alla declinazione. Perché Filippino Doria, per ordine avuto segretamente, come si conobbe poi, da Andrea Doria, si era ritirato con le galee intorno a Pozzuolo; donde in Napoli, dove erano restati pochi altri che soldati, entrava sempre qualche quantitá di vettovaglia in su le barche: e se bene l’armata [de'] viniziani, acquistato Otranto, dava speranza a ogn’ora di venire a Napoli, nondimeno differivano perché erano in speranza di avere presto il castello grande di Brindisi. Crescevano anche a ogn’ora nello esercito le malattie; e le bande nere, dove prima alle fazioni si rappresentavano piú di tremila, ora, tra feriti ammalati e morti, appena arrivavano a duemila. A’ ventidue gli spagnuoli assoltorono quegli di fuora che erano alla difesa delle trincee nuove, dove si lavorava con speranza di finirle fra sei o otto dí; ed essendovi Orazio Baglione con pochi compagni, in luogo pericoloso, fu ammazzato combattendo: morte piú presto degna di privato soldato che di capitano. Dal quale disordine gl’imperiali presa speranza di maggiore successo uscirno di nuovo fuora molto grossi: ma messosi il campo in arme e fattosi forte alle trincee, si ritirorno. Ritornò pure di nuovo Filippino, per molta instanza che gli fu fatta, nel golfo di Napoli. E a’ ventisette non erano ancora finite le trincee cominciate per serrare la via di verso Somma; e gli spagnuoli ogni dí correvano e rompevano le strade, conducendo dentro quantitá grande di carnaggi: a che i cavalli del campo gli facevano poco ostacolo, perché cavalcavano rarissime volte. E Lautrech, cominciando a desiderare supplemento di fanti ma non cedendo in tutto a’ consigli degli altri, instava che di Francia gli fussino mandati per mare seimila fanti di qualunque nazione, perché per la carestia e infermitá ne partivano molti del campo; e in tante difficoltá cominciava a essere solo a sperare la vittoria, fondandosi in su la fame: né aveva però fatto altro progresso, intorno alle mura di Napoli, che levare l’acqua a uno mulino di che quegli di dentro si servivano.
Procedeva in questo tempo in Calavria Simone Romano, con dumila fanti tra corsi e paesani. Al quale benché si fussino opposti... Sanseverino principe di bisignano e... figliuolo di Alarcone con mille cinquecento fanti del paese, nondimeno difficilmente lo sostenevano; donde il figliuolo di Alarcone si ritirò in Taranto, lasciato il principe in campagna: ma poco dipoi Simone Romano acquistò Cosenza per accordo; e dipoi, nella occupazione di una terra vicina, prese il principe di Stigliano e il marchese di Laino suo figliuolo con due altri suoi figliuoli. Ma in Puglia, quegli che tenevano Manfredonia in nome di Cesare scorrevano per tutto il paese, non resistendo loro i cavalli e i fanti de’ viniziani, i quali erano andati all’acquisto di quelle terre. Né erano al tutto quiete le cose in terra di Roma; perché Sciarra Colonna avendo preso Paliano, non ostante fusse stato difeso in nome del pontefice per la figliuola di Vespasiano, lo recuperò l’abate di Farfa, facendo prigioni Sciarra e Prospero da Cavi: benché Sciarra, per opera di Luigi da Gonzaga, si fuggisse.
Ma mentre che intorno a Napoli si travaglia con queste difficoltá e con queste speranze, Antonio de Leva, presentendo che la cittá di Pavia, nella quale era Pietro da Longhena con quattrocento cavalli e mille fanti de’ viniziani, e Anibale Pizinardo castellano di Cremona, con [trecento] fanti, il quale vi era andato per mantenere a divozione del duca il paese di lá dal Po, molto negligentemente si guardava, una notte allo improviso, con le scale da tre bande, non essendo sentito da i soldati, la prese di assalto. Restò prigione Pietro da Longhena e uno figlio di Ianus Fregoso. Andò poi Antonio de Leva a Biagrassa, e quegli di dentro aspettati pochissimi tiri d’artiglierie si arrenderono; e volendo poi andare ad Arona, Federigo Buorromei si accordò seco, obligandosi a seguitare le parti di Cesare.