< Storia d'Italia < Libro XIX
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Libro XIX - Capitolo XV Libro XX

XVI

Il pontefice e Cesare a Bologna. Accordi per continuare l’impresa contro Firenze. La questione di Modena e di Reggio. Discussioni per la pace coi veneziani e per il perdono di Cesare a Francesco Sforza. Continuazione della guerra in Lombardia. Pace di Cesare col duca di Milano e coi veneziani.

Nel quale tempo essendo giunto il pontefice a Bologna, Cesare, secondo l’uso de’ príncipi grandi, vi venne dopo lui; perché è costume che, quando due príncipi hanno a convenirsi, quello di piú degnitá si presenta prima al luogo diputato, giudicandosi segno di riverenza che quello che è inferiore vadi a trovarlo: dove ricevuto dal papa con grandissimo onore, e alloggiato nel palazzo medesimo in stanze contigue l’una all’altra, pareva, per le dimostrazioni e per la dimestichezza che appariva tra loro, che fussino continuamente stati in grandissima benivolenza e congiunzione. Ed essendo giá cessato il sospetto della invasione de’ turchi, perché l’esercito loro, presentatosi insieme con la persona [di Solimanno] innanzi a Vienna, dove era grossissimo presidio di fanti tedeschi, non solo avevano dati piú assalti invano ma ne erano stati ributtati con grandissima uccisione, in modo che diffidandosi di potere ottenerla, e massime non avendo artiglieria grossa da batterla e stretti da’ tempi che in quella regione erano asprissimi, essendo il mese di ottobre, se ne levorono, non ritirandosi a qualche alloggiamento vicino ma alla volta di Costantinopoli, cammino credo di tre mesi; però trovandosi Cesare assicurato di questo sospetto, che l’aveva prima inclinato, non ostante l’acquisto di Pavia, a concordare col duca di Milano, e però mandato a Cremona il Caracciolo, ma ancora indotto a persuadere al pontefice il pensare a qualche modo per la concordia co’ fiorentini, acciò che spedito dalle cose di Italia potesse passare con tutte le genti in Germania a soccorso di Vienna e del fratello: ma cessato questo sospetto, cominciorono a trattare delle cose di Italia.

Nelle quali quella che premeva piú al pontefice era la impresa contro a’ fiorentini; e in questa anche Cesare era molto inclinato, sí per sodisfare al pontefice di quello che si era capitolato a Barzalona come perché, avendo la cittá in concetto di essere inclinata alla divozione della corona di Francia, gli era grata la sua depressione. Però, essendo in Bologna quattro oratori fiorentini al pontefice e facendo anche instanza di parlare a lui, non volle mai udirgli, se non una volta sola quando parve al pontefice; da chi prese anche la sostanza della risposta che fece loro. Però si conchiuse di continuare la impresa e (perché la riusciva piú difficile che non era paruto al pontefice) di volgervi quelle genti che erano in Lombardia, se nascesse occasione d’accordo co’ viniziani e con Francesco Sforza, le quali fussino pagate da Cesare, e che il papa pagasse ciascuno mese al principe d’Oranges (il quale per trattare queste cose venne a Bologna) ducati sessantamila, perché, non potendo Cesare sostenere tante spese, mantenesse quelle genti che erano giá intorno a Firenze.

Parlossi poi dell’altro interesse del pontefice che erano le cose di Modena e di Reggio; nella quale [pratica] il papa, per fuggire il carico dell’ostinazione, avendo proposto quella cantilena medesima che aveva pensata prima e usata molte volte, che se si trattasse solo di quelle terre non farebbe difficoltá di farne la volontá di Cesare, ma che alienando Modena e Reggio restavano Parma e Piacenza in modo separate dallo stato ecclesiastico che venivano in conseguenza quasi alienate; rispondeva Cesare essere rispetto ragionevole, ma mentre che le forze erano occupate nella impresa di Firenze non si potere tentare altro che l’autoritá. Ma in segreto sarebbe stato il desiderio suo che, con buona soddisfazione del papa, fussino restate al duca di Ferrara; col quale, nel venire a Bologna, aveva parlato a Modena, e datogli grande speranza di fare ogni opera col pontefice di comporre le cose sue. E aveva anche quel duca saputo conciliarsi in modo gli animi di quegli che potevano appresso a Cesare che non gli mancavano fautori grandi in quella corte.

Restavano i due articoli piú importanti e piú difficili, de’ viniziani e di Francesco Sforza; la concordia de’ quali, massime quella di Francesco, se bene non fusse secondo la inclinazione con la quale prima [Cesare] era venuto in Italia, nondimeno, trovando alle cose maggiore difficoltá che non si era immaginato in Spagna, e vedendo difficile ad acquistare lo stato di Milano, dopo la congiunzione che aveva fatto Francesco vo’ viniziani, trovandosi in spesa grossissima per tante genti che aveva condotto di Spagna e di Germania, non era piú nella pristina durezza; massime che dal fratello e da molti era, per i tumulti de’ luterani e per altri semi che apparivano di nuove cose, sollecitato a passare in Germania; dove ancora poteva credere che a qualche tempo bero i turchi; massime che era notissimo che Solimanno, acceso dallo sdegno e dalla ignominia, aveva al partirsi da Vienna giurato che presto vi ritornerebbe molto piú potente. E parendo a Cesare non solo mal sicuro ma meno onorevole il partirsi di Italia, lasciando le cose imperfette, cominciò a inclinare l’animo a concordare non solo co’ viniziani, ma eziandio di perdonare a Francesco Sforza; a che instava molto il pontefice, desideroso della quiete universale; e anche perché le cose di Cesare, disoccupate dall’altre imprese, si volgessino contro a Firenze. Riteneva Cesare piú che altro il parergli non fusse con sua degnitá il credersi che quasi la necessitá lo inducesse a perdonare a Francesco Sforza; e Antonio de Leva, che era con lui a Bologna, faceva ogni instanza perché di quello stato si facesse altra deliberazione, proponendo ora Alessandro nipote del papa ora altri: nondimeno, essendo difficoltá di collocare quello stato in persona di chi Italia si contentasse, né avendo il papa inclinazione a pensarvi per i suoi, non essendo cosa che si potesse spedire se non con nuove guerre e con nuovi travagli, Cesare, in ultimo, inclinando a questa sentenza, consentí di concedere a Francesco Sforza salvocondotto, sotto nome di venire a lui a giustificarsi ma in fatto per ridurre le cose a qualche composizione; consentendo ancora i viniziani alla venuta sua, perché speravano che in uno tempo medesimo si introducesse la concordia delle cose loro.

E nondimeno non cessavano però l’armi in Lombardia; perché il Belgioioso, il quale per l’assenza di Antonio de Leva era restato capo a Milano, andò con settemila fanti a campo a Santo Angelo, dove erano quattro compagnie di fanti viniziani e di Milano; e avendolo battuto con l’occasione di una pioggia continua che faceva inutili gli archibusi, che allo scoperto difendevano il muro, accostato i suoi, appoggiati agli scudi e con le spade e picche, dette l’assalto, accostandosi anche egli valentemente con gli altri: ma non potendo quegli di dentro tenere in mano le corde da dare il fuoco, ed essendo necessitati gittargli in terra e combattere con altre armi, sbigottiti cominciorono a ritirarsi e ad abbandonare le mura; in modo che, entrati dentro gli inimici, restorono tutti o morti o prigioni. Disegnò poi andare di lá da Adda, e passata giá parte dello esercito per il ponte fatto a Casciano, alcune compagnie de’ nuovi spagnuoli si partirono per andare a Milano; ma lui prevenendogli, fece pigliare l’armi alla terra, in modo che non potendo entrare ritornorono indietro allo esercito.

Ma giá, non ostante queste cose e lo essere i tedeschi ne’ terreni de’ viniziani, si strignevano talmente le pratiche della pace che raffreddavano tutti i pensieri della guerra. Perché Francesco Sforza, presentatosi, subito che arrivò in Bologna, al cospetto di Cesare, e ringraziatolo della benignitá sua in avergli conceduto facoltá di venire a lui, gli espose confidare tanto nella giustizia sua che, per tutte le cose succedute innanzi che il marchese di Pescara lo rinchiudesse nel castello di Milano, non desiderava altra sicurtá o presidio che la innocenza propria; e che perciò, in quanto a queste, rinunziava liberamente il salvocondotto; la scrittura del quale avendo in mano la gittò innanzi a lui, cosa che molto sodisfece a Cesare. Trattoronsi circa a uno mese le difficoltá dell’accordo suo e di quello de’ viniziani; e finalmente, a’ ventitré di dicembre, essendosene molto affaticato il pontefice, si conchiuse l’uno e l’altro: obligandosi Francesco a pagargli in uno anno ducati quattrocentomila, e cinquecentomila poi in dieci anni cioè ogni anno cinquantamila, restando in mano di Cesare Como e il castello di Milano; quali si obligò a consegnare a Francesco come fussino fatti i pagamenti del primo anno. E gli dette la investitura, o vero confermò quella che prima gli era data. Per i quali pagamenti osservare, e per i doni promessi a’ grandi appresso a lui, fece grandissime imposizioni alla cittá di Milano e a tutto il ducato, non ostante che i popoli fussino consumati per sí atroci e lunghe guerre e per la fame e per la peste. Restituischino i viniziani al pontefice Ravenna e Cervia co’ suoi territori, salve le ragioni loro, e perdonando il pontefice a quelli che avessino macchinato o operato contro a lui: restituischino a Cesare, per tutto gennaio prossimo, tutto quello posseggono nel regno di Napoli: paghino a Cesare il resto de’ dugentomila ducati, debiti per il terzo capitolo dell’ultima pace contratta tra loro, cioè venticinquemila ducati infra uno mese prossimo e dipoi venticinquemila ciascuno anno; ma in caso che infra uno anno siano restituiti loro i luoghi, se non fussino restituiti secondo il tenore di detta pace o giudicate per arbitri comuni le differenze: paghino ciascuno anno a’ fuorusciti cinquemila ducati per l’entrate de’ beni loro, come si disponeva nella pace predetta; a Cesare centomila altri ducati, la metá fra dieci mesi l’altra metá dipoi a uno anno. Decidinsi le ragioni del patriarca di Aquileia, riservategli nella capitolazione di Vormazia, contro al re di Ungheria; includasi in questa pace e confederazione il duca di Urbino, per essere aderente e in protezione de’ viniziani. Perdonino al conte Brunoro da Gambara. Sia libero il commercio a’ sudditi di tutti, né si dia ricetto a’ corsali i quali perturbassino alcuna delle parti: sia lecito a’ viniziani continuare pacificamente nella possessione di tutte le cose tengono: restituischino tutti i fatti ribelli per essersi aderiti a Massimiliano, a Cesare e al re di Ungheria, insino all’anno mille cinquecento ventitré; ma non si estenda la restituzione a’ beni pervenuti nel fisco loro. Sia tra dette parti non solo pace ma lega difensiva perpetua per gli stati di Italia contro a qualunque cristiano. Promette Cesare che il duca di Milano terrá continuamente nel suo stato cinquecento uomini d’arme, e [egli stesso], per la difesa del duca e de’ viniziani, ottocento uomini d’arme computativi i cinquecento predetti, cinquecento cavalli leggieri seimila fanti, con buona banda di artiglierie, e i viniziani il medesimo alla difesa del duca di Milano; ed essendo molestato ciascuno di questi stati, gli altri non permettino che vadia vettovaglie munizioni corrieri imbasciadori di chi offende, proibirgli ogni aiuto de’ suoi stati e il transito a lui e alle sue genti. Se alcuno principe cristiano, eziandio di suprema dignitá, assalterá il regno di Napoli, siano tenuti i viniziani ad aiutarlo con quindici galee sottili bene armate. Siano compresi i raccomandati di tutti, nominati e nominandi, non perciò con altra obligazione de’ viniziani alla difesa. Se il duca di Ferrara concorderá col pontefice e con Cesare, si intenda incluso in questa confederazione. Per la esecuzione de’ quali accordi, Cesare restituí a Francesco Sforza Milano e tutto il ducato, e ne rimosse tutti i soldati; ritenendosi solamente quegli che erano necessari per la guardia del castello e di Como; i quali restituí poi al tempo convenuto. E i viniziani restituirono al pontefice le terre di Romagna, e a Cesare le terre tenevano nella Puglia.



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