< Storia d'Italia < Libro XV
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Libro XV - Capitolo XIV Libro XVI

XV

Gli imperiali, occupati i luoghi vicini a Pavia, si accostano all’esercito nemico; sussidio di munizioni agli assediati. Scaramuccie fra i soldati nemici; trattative di tregua per opera dei nunzi del pontefice presso i due eserciti. Ferita di Giovanni de’ Medici. Battaglia di Pavia.

Ma erano giá di piccolo momento i trattamenti e le pratiche de’ príncipi e le diligenze e sollecitudini degli imbasciadori, perché approssimandosi gli eserciti si riduceva la somma di tutta la guerra, e delle difficoltá e pericoli sostenuti molti mesi, alla fortuna di poche ore. Conciossiaché l’esercito imperiale, dopo l’acquisto di Santo Angelo, spingendosi innanzi andò ad alloggiare, il primo dí di febbraio, a Vistarino e il secondo dí a Lardirago, Santo Alesso e le due porte del barco, passato la Lolona piccolo fiumicello; il quale alloggiamento era propinquo quattro miglia a Pavia e a tre miglia del campo franzese: e il terzo o quarto dí di febbraio venne ad alloggiare in Prati, credo verso porta Santa Iustina, distendendosi tra Prati, Trelevero e la Motta, e in uno bosco a canto a San Lazzero; alloggiamenti vicini a due miglia e mezzo di Pavia, a uno miglio della vanguardia franzese e a mezzo miglio de’ ripari e fosse del campo loro, e tanto vicini che molto si danneggiavano con l’artiglierie. Avevano gli imperiali occupato Belgioioso e tutte le terre e il paese che avevano alle spalle eccetto San Colombano, nel quale perseverava la guardia franzese, ma assediata, che niuno poteva uscirne: avevano in Santo Angelo e in Belgioioso trovata quantitá grande di vettovaglie; e si sforzavano, per esserne piú copiosi, acquistare il Tesino come avevono acquistato il Po, donde le impedivano a’ franzesi: tenevano Santa Croce; e avendo il re, quando andò ad alloggiare a Mirabello, abbandonata la Certosa, non vi andavano gli imperiali perché non fussino impedite loro le vettovaglie. Tenevano San Lazzero i franzesi, ma per l’artiglierie degli inimici non ardivano di starvi. Correva in mezzo tra l’uno e l’altro alloggiamento una roza, cioè uno rivolo di acqua corrente detto la Vernacula, che ha origine nel barco; il quale passando in mezzo tra San Lazzero e San Piero in Verge entra nel Tesino: il quale, come molto importante, sforzandosi gli imperiali di passare per potere con minore difficoltá procedere piú innanzi, i franzesi valorosamente lo difendevano; e ciascuno sollecitamente il proprio alloggiamento fortificava. Il canale della Vernacula era alquanto profondo, con le ripe alte in modo non si poteva passare senza ponte; e passava tra Santa Croce e San Lazzero. Aveva lo alloggiamento del re grossi ripari a fronte alle spalle e al fianco sinistro, circondati da fossi e fortificati con bastioni, e al fianco destro il muro del barco di Pavia; in modo era riputato fortissimo. Simigliante fortificazione aveva l’alloggiamento degli imperiali, quali tenevano tutto il paese da San Lazzero verso Belgioioso insino al Po; in modo che l’esercito abbondava di vettovaglie. Vicini i ripari dell’uno alloggiamento all’altro a quaranta passi, e i bastioni sí propinqui che si tiravano con gli archibusi. In questo modo stavano alloggiati gli eserciti l’ottavo dí di febbraio, e scaramucciavano a ogn’ora; ma ciascuno teneva il campo nel forte suo, non volendo fare giornata a disavvantaggio; e pareva a’ capitani imperiali avere insino a quel dí guadagnato assai, poiché si erano accostati tanto a Pavia che facendosi giornata potevano essere aiutati dalle genti che vi erano dentro. Pativasi in Pavia di munizioni; però gli imperiali mandorno cinquanta cavalli, ciascuno con uno valigiotto in groppa pieno di polvere; i quali entrati di notte per la via di Milano, aspettando che per ordine di quegli del campo si facesse dare all’arme a’ franzesi, si condussono salvi in Pavia: donde spesso uscendo Antonio de Leva, e infestando quegli di fuora, assaltati i grigioni che erano alla guardia di Borgoratto e di San Lanfranco, tolse loro tre pezzi di artiglieria e parecchie carra cariche di munizioni. I quali, pochi dí poi, revocati da’ loro superiori si partirno dall’esercito.

In questo stato delle cose era incredibile la vigilanza la industria e le fatiche del corpo e dell’animo del marchese di Pescara, il quale dí e notte non cessava, con scaramuccie col dare all’arme con fare nuovi lavori, di infestare gli inimici; spingendosi sempre innanzi, con cavamenti con fossi e con bastioni. Lavoravano uno cavaliere sopra il canale, e danneggiandogli molto i franzesi con due pezzi piantati a San Lazzero, voltatavi l’artiglieria lo rovinorno, e gli costrinsono ad abbandonarlo. Però pativano i franzesi molto da uno cavaliere fatto nel campo, e il simigliante da un altro che era fatto a Pavia. Ed eransi fortificati in modo con bastioni e con ripari, e fatti tali cavalieri, che offendevano assai il campo franzese ed erano poco offesi: però i franzesi mutavano artiglierie, per battergli per fianco, facendo continuamente ogni opera gli spagnuoli per andare innanzi a palmo a palmo. Erano anche, in tanta vicinitá, frequenti le scaramuccie, nelle quali quasi sempre i franzesi restavano inferiori; non si intermettendo in parte alcuna le fazioni per la pratica della tregua, la quale continuamente si trattava per i nunzi del pontefice che erano nell’uno esercito e nell’altro; né mancando anche, assiduamente, molti de’ piú intimi del re, e il pontefice molte volte, di confortarlo che per fuggire tanto pericolo si discostasse con l’esercito da Pavia, per essere necessario che, per la penuria che avevano gli inimici di danari, ottenesse in brevissimo tempo e senza sangue la vittoria. Il decimo settimo dí di febbraio, quegli di Pavia usciti fuora scaramucciorno con la compagnia di Giovanni de’ Medici, il quale onorevolmente gli rimesse dentro; e ritornando poi a mostrare all’ammiraglio il luogo e le cose accadute nella fazione, essendo ascosti alcuni scoppettieri in una casa, fu ferito con uno scoppio sopra ’l tallone e rottogli l’osso, con dispiacere grande del re; per la quale ferita fu necessitato farsi portare a Piacenza. Per la ferita del quale si rimesse, nelle scaramuccie e negli assalti subiti, tutta la ferocia del campo franzese; e quegli di Pavia, uscendo ogni dí fuora con maggiore ardire, e avendo abbruciata la badia di San Lanfranco, sempre battevano i franzesi, i quali parevano molto inviliti; e la notte de’ diciannove venendo i venti, il marchese di Pescara con tremila fanti spagnuoli assaltò i bastioni de’ franzesi, e salito (secondo scrive il Numaio) su per i ripari, ammazzò piú di cinquecento fanti e inchiodò tre pezzi di artiglieria. Finalmente, non essendo possibile a’ capitani imperiali sostenere piú, per mancamento di danari, l’esercito loro in quello alloggiamento, e considerando che ritirandosi non solo si perdeva Pavia ma restavano senza speranza di difendere l’altre cose che possedevano del ducato di Milano, avendo anche grandissima confidenza di ottenere la vittoria per la virtú de’ soldati loro e perché nell’esercito franzese erano moltissimi disordini, e oltre a esserne partiti molti fanti non corrispondendo il numero, di lunghissimo intervallo, a quegli che erano pagati: la notte avanti il vigesimoquinto dí di febbraio, giorno dedicato secondo il rito de’ cristiani all’apostolo Matteo e il medesimo dí natale di Cesare, deliberati, secondo dicono alcuni, di assaltare l’esercito del re, altri dicono, di andare a Mirabello dove alloggiavano alcune compagnie di cavalli e di fanti, con intenzione, non si movendo i franzesi, di avere liberato lo assedio di Pavia, e movendosi, tentare la fortuna della giornata, — però avendo (secondo scrivono alcuni) fatto dare nelle prime parti della notte piú volte all’armi per straccare i franzesi, fingendo volergli assaltare verso il Po, Tesino e San Lazzero, dipoi, a mezza notte, essendosi per comandamento de’ capitani tutti i soldati messi una camicia bianca sopra l’armi per segno di riconoscersi da’ franzesi, fatto (secondo scrive il Cappella) due squadre di cavalli e quattro di fanti, nella prima seimila fanti divisi in parti eguali di tedeschi spagnuoli e italiani sotto il marchese del Guasto, la seconda solo di fanti spagnuoli, la terza e quarta di tedeschi; — e arrivati al muro del barco, con muratori ed eziandio con aiuto de’ soldati, essendo qualche ora innanzi giorno, gittorno in terra sessanta braccia di muro, secondo il Cappella: il Numaio, che andorno alle due porte del barco, presonle ed etiam gittorno a terra piú braccia di mura secondo il Barba, roppeno in piú luoghi il muro del barco per fare in uno tempo tre assalti: uno con tremila fanti tra lanzi e spagnuoli alla volta di Mirabello, dove (secondo lui) alloggiava il re con parte dello esercito; l’altro nel resto delle genti d’arme che erano piú a basso co’ svizzeri, nel bosco grande del barco, e questi due assalti non con grande sforzo ma tanto che intratenesse; e col resto del campo assaltare al traverso del campo franzese. E scrive il Cappella che il muro fu gittato in terra con tanto silenzio che i franzesi non sentirno, ma di questo il re poi disse il contrario; e che entrati nel barco, la prima squadra andò alla volta di Mirabello, il resto dello esercito alla volta del campo; ma che il re, intesa la entrata nel barco, pensando andassino a Mirabello, uscí degli alloggiamenti e venne a combattere in su la campagna, la quale credo fusse aperta e spianata dal re, desideroso si combattesse piú presto quivi che altrove, per la superioritá di cavalli. E secondo il Numaio, presono il cammino verso Mirabello e castel di Pavia; e che i franzesi, credendo volessino andare a Milano, voltorno subito l’artiglierie e feciono grande danno al retroguardo; e che gli imperiali avevano nella vanguardia quattrocento cavalli leggieri e quattromila tra archibusieri e scoppiettieri, che si attaccorno con lo squadrone del re, che ordinariamente era la battaglia ma, secondo camminavano gli spagnuoli, fu la vanguardia. Scrive il Cappella che, scontrato il re nella prima squadra degli spagnuoli, i suoi furno costretti dagli scoppi a piegare, insino a tanto che, sopravenendo i svizzeri, gli spagnuoli furno ributtati da’ svizzeri e dalla cavalleria che gli assaltò per fianco; e che sopragiunsero i tedeschi e ruppeno con molta uccisione i svizzeri: ed essendo il re con grande numero di gente d’arme entrato nella battaglia, e sforzandosi fermare i suoi, dopo avere combattuto alquanto, ferito il cavallo ed egli caduto in terra, fu preso da cinque soldati che non lo conoscevano; ma sopravenendo il viceré, dandosi a conoscere venne in sua mano. Nel quale tempo, il Guasto con la prima squadra aveva rotto i cavalli che erano a Mirabello; e il Leva, il quale (secondo dicono alcuni) aveva a questo effetto gittato in terra tanto spazio di muro che potevano uscirne in uno tempo medesimo cento e cinquanta cavalli, uscito di Pavia aveva assaltato i franzesi alle spalle, in modo che tutti si messono in fuga, e quasi tutti svaligiati eccetto il retroguardo de’ cavalli, il quale, sotto Alanson, nel principio della battaglia si ritirò intero. Scrive il Barba che quella terza parte piú grossa, che assaltò al traverso del campo franzese, fu piegata dalle artiglierie di sorte che se il viceré, per avviso di Pescara, non soccorreva erano rotti, ma la sua giunta gli ricompose e seguitò lo assalto gagliardo; che la scoppietteria spagnuola dette ne’ svizzeri, e gli voltò di sorte che fece fare il medesimo alla gente d’arme; che quegli di Pavia con sei bandiere assaltorono i fanti franzesi che alloggiavano quasi al diritto del castello, e con l’aiuto dell’artiglierie gli ruppeno subito; che al re fu morto il cavallo sotto, e ferito leggiermente in una mano e piú leggiermente nel volto. Il Numaio: che lo squadrone del re, assaltato da detti scoppiettieri, si messe in rotta, e nel ritirarsi disordinò gli altri fanti e il resto dello esercito; che al re fu morto il cavallo sotto, ed essendo in mezzo di molti che lo volevano prigione vi corse il viceré, e con molte riverenze gli baciò la mano, e [lo] ricevé prigione in nome dello imperadore, ferito leggiermente in una mano e piú leggiermente nel volto; e che di Pavia uscirno tutti i cavalli e tremila fanti. Il Cappella: che in questa giornata morirno, tra di ferro e di essere affogati, fuggendo, nel Tesino, piú di ottomila nel campo franzese e circa venti de’ primi signori di Francia, tra’ quali l’ammiraglio, Iacopo Cabanneo, il marisciallo di Francia (credo sia la Palissa), la Tramoglia, il grande scudiere, Obigní, Boisí e lo Scudo; il quale, pervenuto ferito in potestá degli inimici, espirò presto. Furono fatti prigioni il re di Navarra, il bastardo di Savoia, Memoransí, San Polo, Brione, La Valle, Ciandé, Ambricort, Galeazzo Visconte, Federigo da Bozzole, Bernabò Visconte, Guidanes e infiniti gentiluomini, e quasi tutti i capitani che non furono ammazzati; fu preso anche Ieronimo Leandro vescovo di Brindisi, nunzio del pontefice, ma per comandamento del viceré fu liberato: de’ quali prigioni San Polo e Federigo da Bozzole, condotti nel castello di Pavia, non molto dipoi, corrotti gli spagnuoli che gli guardavano, si liberorno con la fuga. Che degli imperiali morirno circa settecento, ma nessuno capitano eccetto Ferrando Castriota marchese di Santo Angelo; e che la preda fu sí grande che mai furno in Italia soldati piú ricchi. Il marchese di Pescara ebbe due ferite di picca e una di scoppio, e Antonio da Leva fu ferito leggiermente in una gamba. E de’ franzesi annegorno molti nel Tesino; e Pavia si poteva poco piú tenere, mancandovi massime il vino. E i genovesi avevano poco innanzi fatto tregua co’ franzesi per tempo di uno mese. E il Numaio: che nella giornata morirno in tutto seimila uomini1,

Salvossi di tanto esercito il retroguardo guidato da Alanson, di [quattrocento] lancie; il quale, senza combattere o essere assaltato o seguitato, intero, ma lasciati i carriaggi, si ritirò con grandissima celeritá nel Piamonte. Della quale vittoria subito che fu pervenuto il rumore a Milano, Teodoro da Triulzi restatovi in presidio con quattrocento lancie, se ne partí verso Musocco, seguitandolo tutti i soldati alla sfilata: in modo che, il dí medesimo che fu fatta la giornata, restò libero dai franzesi tutto il ducato di Milano. Fu il re condotto, il dí seguente dopo la vittoria, nella rocca di Pizzichitone; perché il duca di Milano per sicurtá propria malvolentieri consentiva che e’ fusse condotto nel castello di Milano: dove, dalla libertá [in fuori], che era guardato con somma diligenza, era in tutte l’altre cose trattato e onorato come re.

E fu di questo successo attribuita per tutto colpa grande o alla avarizia o alla pusillanimitá del pontefice: il quale, se al desiderio che ebbe di sospendere l’armi tra gli eserciti, insino a tanto che tra i príncipi si fusse convenuto delle differenze principali, avesse accompagnato l’armarsi potentemente e spignere le genti a Parma e Piacenza, non solo arebbe conservato sé in maggiore riputazione, e con piú sicurtá per tutti i casi che potessino succedere, ma eziandio arebbe maneggiato con piú autoritá la concordia: trattandola in modo che ciascuna delle parti avesse causa di dubitare che egli pigliasse l’arme in favore di coloro che fussino manco alieni dalla concordia. Ma mentre che, rinvolto nelle sue irresoluzioni e nella cupiditá di non spendere, differisce di dí in dí l’armarsi, e però con piccola autoritá si interpone alla concordia, avendo la giornata posto fine alla guerra, e in tempo che stimolato dai viniziani e confortato da molti altri e ammonito dal pericolo che gli era imminente da chi restasse vincitore si risolveva a soldare in compagnia de’ viniziani diecimila svizzeri...2.



  1. [Non possiamo far a meno di riportare il lungo passo delle edizioni precedenti che è tanto diverso da quello dell’edizione Gherardi, e, quindi, dalla nostra: «sessanta braccia di muro; e entrati nel barco, la prima squadra andò alla volta di Mirabello, il resto dell’esercito alla volta del campo. Ma il re, intesa l’entrata nel barco, pensando andassino a Mirabello, uscí degli alloggiamenti per combattere in su la campagna aperta e spianata, desideroso si combattesse piú presto quivi che altrove, per la superioritá dei cavalli; ordinando nel medesimo tempo che l’artiglierie si volgessino verso gli inimici: le quali, battendoli per fianco, feciono qualche danno al retroguardo. Urtossi in questo mezzo ferocemente la battaglia imperiale con lo squadrone del re, che ordinariamente era la battaglia (ma, secondo camminavano gli spagnuoli, fu l’avanguardia); dove egli combattendo egregiamente sosteneva l’impeto degli inimici, da’ quali i suoi furono costretti, per il furore degli scoppietti, a piegare, insino a tanto che, sopravvenendo i svizzeri, gli spagnuoli furono ributtati da loro e dalla cavalleria, che gli assaltò per fianco. Ma chiamato dal marchese di Pescara il viceré, e sopragiugnendo coi fanti tedeschi, roppero facilmente e con molta uccisione i svizzeri: i quali non corrisposono quel giorno in parte alcuna al valore solito a dimostrarsi da loro nell’altre battaglie. Ed essendo il re con grande numero di genti d’arme nel mezzo della battaglia, e sforzandosi fermare i suoi, dopo avere combattuto molto, ammazzatogli il cavallo, ed egli benché leggiermente ferito nel volto e nella mano caduto in terra, fu preso da cinque soldati che non lo conoscevano; ma sopravvenendo il viceré, dandosi a conoscere, ed egli baciatoli con molta reverenza la mano, lo ricevé prigione in nome dell’imperadore.
     Nel qual tempo, il Guasto con la prima squadra aveva rotto i cavalli che erano a Mirabello: e il Leva, il quale, secondo dicono alcuni, aveva a questo effetto gittato in terra tanto spazio di muro che potevano uscirne in un tempo medesimo cento cinquanta cavalli, uscito di Pavia aveva assaltato i franzesi alle spalle; in modo che tutti si messono in fuga e quasi tutti svaligiati, eccetto il retroguardo de’ cavalli, il quale sotto Alanson nel principio della battaglia si ritirò intero. Fu constante opinione che in questa giornata morissino, tra di ferro e d’essere affogati, fuggendo, nel Tesino, piú di ottomila del campo franzese e circa venti de’ primi signori di Francia, tra’ quali l’Ammiraglio, Iacopo Cabaneo, la Palissa, la Tramoglia, il grande scudiere, Obigni, Boisi e lo Scudo, il quale pervenuto ferito in potestá degli inimici espirò presto. Furono fatti prigioni il re di Navarra, il bastardo di Savoia, Memoransi, San Polo, Brione, La Valle, Ciandé, Ambricort, Galeazzo Visconte, Federigo da Bozzole, Bernabò Visconte, Guidanes e infiniti gentiluomini, e quasi tutti i capitani che non furono ammazzati. Fu preso anche Ieronimo Leandro vescovo di Brindisi, nunzio del pontefice; ma per comandamento del viceré fu liberato. De’ quali prigioni, San Polo e Federigo da Bozzole, condotti nel castello di Pavia, non molto dipoi, corrotti gli spagnuoli che gli guardavano, si liberarono con la fuga. Degli imperiali morirono circa settecento, ma nessuno capitano eccetto Ferrando Castriota marchese di Santo Angelo; e la preda fu sí grande che mai furono in Italia soldati più ricchi. Il marchese di Pescara ebbe due ferite, e una di scoppio, e Antonio de Leva fu ferito leggiermente in una gamba» — Il Rostagno (Giunte e Correzioni; vol. I, cxc) fa seguire una nota in cui dice che il testo dell’edizione Gherardi «è stato ricostituito... su quello originale di VI, IV, 360— 364: riproduce i passi arbitrariamente cassativi dal Revisore o dai Revisori, e ne trascura i non meno arbitrarti rifacimenti marginali e interlineari, non lievi e non pochi». Questo passo della descrizione della battaglia di Pavia ò d’un’importanza decisiva, perché ci mostra come il Guicciardini ricostruisse la narrazione sua usando larghissima copia di materiali, e valendosi di fonti che andava acutamente vagliando. Ma per quanto il cod. VI sia stato fatto trascrivere dallo stesso autore, del quale ebbe qua e lá correzioni ed aggiunte, non possiamo credere che questo passo sarebbe stalo lasciato cosí come redazione definitiva; c l’autore avrebbe anche qui fuso il materiale e ricostruito l’avvenimento senza le frequenti e ripetute citazioni delle fonti, senza parole latine ed in una forma meno spezzettata e piú artistica.]
  2. [Quest'ultimo passo, da «E fu...» alla fine, non figura nelle edizioni precedenti quella del Gherardi, perché fu cassato in VI, IV, 365; e non per altra ragione (credo)» dice il Gherardi e se non perché il senso, in fine, riman sospeso».]
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