< Storia d'Italia < Libro XVI
Questo testo è completo.
Libro XVI - Capitolo VIII Libro XVI - Capitolo X

IX

Infermitá del re di Francia; visita e promessa di Cesare. Difficoltá di trattative fra Cesare e madama d’Alanson. Trattative fra il pontefice e Cesare.

Ma nel tempo medesimo, per nuovo accidente succeduto in Spagna, si variorono quasi tutte le cose. Perché il re di Francia, pieno di gravissimi dispiaceri, poiché invano aveva desiderata la presenza di Cesare, si ridusse, per infermitá sopravenutagli nella rocca di Madril, in tale estremitá della vita che i medici deputati alla sua curazione feciono intendere a Cesare diffidarsi totalmente della salute, se giá non veniva egli in persona a confortarlo e dargli speranza della liberazione. Dove preparandosi di andare, il gran cancelliere suo lo dissuase, dicendo che lo onore suo ricercava di non vi andare se non con disposizione di liberarlo subito e senza alcuna convenzione, altrimenti essere una umanitá non regia ma mercenaria, e uno desiderio di farlo guarire non per caritá della salute sua ma mosso solamente da interesse proprio, per non perdere per la sua morte la occasione de’ guadagni sperati dalla vittoria; consiglio certamente memorabile e degno di essere accettato da tanto principe: nondimeno, consigliato diversamente da altri, andò in poste a visitarlo. La visitazione fu breve, perché il cristianissimo era giá quasi allo estremo, ma piena di parole grate, e di speranza certissima, come e’ fusse sanato, di liberarlo; e, quel che ne fusse cagione, o questo conforto o che la gioventú fusse per se stessa superiore alla natura della infermitá, cominciò dopo questa visitazione ad alleggierirsi in modo che in pochi dí restò liberato dal pericolo, ancora che non ritornasse se non con tarditá alla prima valitudine.

Ma né le difficoltá che apparivano dell’animo di Cesare né le speranze date dagli italiani avevano impedita la andata di madama di Alanson in Spagna; perché niuna cosa era piú difficile a’ franzesi che abbandonare le pratiche della concordia con quegli che potevano restituirgli il suo re, niuna piú facile a Cesare che, col dare speranza a’ franzesi, divertirgli dai pensieri del pigliare l’armi e con questa arte tenere sospesi gli italiani in modo che non ardissino di fare nuove deliberazioni; e cosí, ora allentando ora strignendo, tenere confusi e implicati gli animi di tutti. Fu madama di Alanson ricevuta da Cesare con grate dimostrazioni e speranze, ma gli effetti riuscirono duri e difficili. Perché gli parlò, il quarto dí di ottobre, ricercandolo del matrimonio della sorella vedova col re; alla quale dimanda rispose Cesare non potere farlo senza consentimento del duca di Borbone. L’altre particolaritá si trattavano da’ deputati dell’una parte e dell’altra, facendo Cesare ostinatamente instanza che, come proprio, gli fusse restituito il ducato di Borgogna, i franzesi non consentendo se non o di accettarla per dote o che giuridicamente si vedesse a quale de’ due príncipi apparteneva. Nelle altre condizioni si sarebbono facilmente concordati; ma restando tanta discrepanza nelle cose della Borgogna, madama di Alanson alla fine se ne ritornò in Francia, senza avere riportato altro che facoltá di vedere il fratello. Il quale, alla partita di lei, diffidando giá ogni dí piú della sua liberazione, si dice avergli commesso che per sua parte ricordasse alla madre e agli uomini del consiglio che pensassino bene al beneficio della corona di Francia, non avendo considerazione alcuna della persona sua come se piú non vivesse. Né si troncorono perciò per la partita sua al tutto le pratiche, perché vi rimasono il presidente di Parigi i vescovi di Ambrone e di Tarba, i quali insino ad allora l’avevano trattate, ma con leggiera speranza, non si inclinando Cesare a condizione alcuna senza la restituzione della Borgogna, né consentendo il re di concederla se non per ultima necessitá.

Arrivò adunque il cardinale alla corte, dove, ricevuto da Cesare con grandissimo onore, trattava le sue commissioni, le quali principalmente contenevano la ratificazione degli articoli promessi dal viceré; confortando anche che al duca di Milano fusse conceduta la investitura per la sicurtá comune. Ma il viceré medesimo dissuadeva la restituzione di Reggio e di Rubiera; per i conforti e sotto la speranza del quale, il duca di Ferrara, desideroso di trattare per se medesimo appresso a Cesare la causa sua, ottenuta dal pontefice promessa che per sei mesi non sarebbe molestato da lui lo stato suo, si condusse insino a’ confini del regno di Francia, con determinazione di passare piú innanzi; ma negandogli madama il salvocondotto, se ne ritornò finalmente a Ferrara. Trattavasi ancora tra il pontefice e Cesare la causa della dispensazione, per potere fare matrimonio con la sorella del re di Portogallo; il quale Cesare, non ostante che al re di Inghilterra avesse giá promesso con giuramento di non ricevere per moglie altri che la figliuola, era determinato di contrarre. Alla quale dispensazione concedere il pontefice procedeva lentamente, essendogli persuaso da molti che il desiderio di ottenere questa grazia renderebbe Cesare piú facile a’ desideri suoi nelle cose che si trattavano; o almeno essere cosa imprudente, in caso s’avesse a fare guerra seco, dargli facoltá di accumulare tanti danari quanti accumulerebbe per mezzo di questo matrimonio: perché il re di Portogallo gli offeriva in dote novecentomila ducati, de’ quali, detratta quella parte che s’aveva d’accordo a compensare in debiti contratti con lui, si pensava gliene perverebbono in mano almanco cinquecentomila ducati; e oltre a quattrocentomila ducati consentivano di dargli i popoli di Castiglia, per quello che essi chiamavano servizio, quale, cominciato anticamente dalla volontá propria de’ popoli per soccorrere alle necessitá de’ suoi re, era ridotto in ordinaria prestazione, offerivano di donargli quattrocentomila altri ducati in caso desse perfezione a questo matrimonio. Da altra parte il pontefice non sapeva resistere alla importunitá del duca di Sessa oratore cesareo, perché in lui era quasi sempre repugnanza grande dalla disposizione alla esecuzione; conciossiaché, alienissimo per sua natura dal concedere qualunque grazia dimandatagli, non sapeva anche difficultarle, o negarle costantemente; ma lasciando spesso vincere la volontá sua dalla importunitá di quegli che dimandavano, e in modo che e’ pareva che il piú delle volte concedesse piú per paura che per grazia, non procedeva in questo con quella costanza né con quella maestá che ricercava la grandezza della sua degnitá né la importanza delle faccende che si trattavano. Cosí accadde nella dispensa dimandata; che combattendo in lui da uno canto la utilitá propria dall’altro la sua mollizie, scaricò, come spesso era usato di fare, addosso ad altri quello che a lui non bastava non so se la fronte o l’animo di sostenere. Spedí per uno breve la dispensa nella forma dimandata da Cesare, e la mandò al cardinale de’ Salviati, con commissione che, se le cose sue si risolvevano con Cesare secondo la speranza che aveva data di volere fare, subito che il cardinale arrivasse alla corte, gli desse il breve, altrimenti lo ritenesse: commissione nella quale il ministro, come in suo luogo si dirá, non fu né piú nervoso né piú costante che fusse stato il padrone.


Questa voce è stata pubblicata da Wikisource. Il testo è rilasciato in base alla licenza Creative Commons Attribuzione-Condividi allo stesso modo. Potrebbero essere applicate clausole aggiuntive per i file multimediali.