< Storia d'Italia < Libro XVI
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VII

Il pontefice pubblica l’accordo concluso col viceré; sue ragioni di malcontento verso il viceré. Cesare ratifica solo in parte l’accordo col pontefice, il quale ricusa perciò le lettere di ratifica. Atteggiamento di attesa dei veneziani. Il re di Francia condotto in Ispagna; contegno di Cesare verso di lui. Tregua fra Cesare ed il governo di Francia; disposizioni riguardanti le cose d’Italia e le milizie cesaree.

Non aveva adunque il pontefice capitolato appena col viceré che sopravennono le offerte grandi di Francia per incitarlo alla guerra; e se bene non gli mancassino allo effetto medesimo i conforti di molti, né gli fusse diminuita la diffidenza che prima aveva degli imperiali, deliberò di procedere in tutte le cose talmente che dalle azioni sue non avessino cagione di prendere sospetto alcuno. Perciò, subito che intese il viceré avere accettato e publicato lo appuntamento fatto in Roma, lo fece ancora egli publicare in San Giovanni Laterano, senza aspettare che prima fusse venuta la ratificazione promessa di Cesare, onorando, per piú efficace dimostrazione dell’animo suo, la publicazione, che fu fatta il primo dí di maggio, con la presenza sua e con la solennitá della sua incoronazione; sollecitò che i fiorentini pagassino i danari promessi, e si interpose quanto potette perché i viniziani appuntassino ancora loro co’ cesarei. Ma da altra parte, gli furono date da loro molte giuste cause di querelarsi: perché nel pagamento de’ danari promessi non vollono accettare i venticinquemila ducati pagati per ordine suo da’ fiorentini mentre si trattava l’accordo, allegando il viceré, impudentemente, se altrimenti fusse stato promesso essere stato fatto senza sua commissione; non rimossono i soldati del dominio della Chiesa, anzi empierono il piacentino di guarnigioni. Alle quali cose, che si potevano forse in qualche parte scusare per la carestia che avevano di danari e di alloggiamenti, aggiunsono che non solo, nella mutazione dello stato di Siena, dettono sospetto di avere l’animo alieno dal pontefice, ma ancora dipoi comportorono che i cittadini del Monte de’ nove fussino male trattati e spogliati de’ beni loro da i libertini, non ostante che molte volte, lamentandosene lui, gli dessino speranza di provedervi. Ma quello che sopra ogni cosa gli fu molestissimo fu l’avere subito prestato il viceré orecchi al duca di Ferrara, e datagli speranza di non lo sforzare a lasciare Reggio e Rubiera e di operare che Cesare piglierebbe in protezione lo stato suo; e ancora che ogni dí promettesse al pontefice che finito il pagamento de’ fiorentini lo farebbe reintegrare di quelle terre, e che il pontefice, per sollecitare lo effetto e per ottenere che le genti si levassino dello stato della Chiesa, mandasse a lui il cardinale Salviati, legato suo in Lombardia e deputato legato a Cesare, al quale il viceré dette intenzione di fargli restituire Reggio con le armi se il duca ricusasse di farlo volontariamente, nondimeno gli effetti non corrispondevano alle parole: cosa che, non si potendo scusare con la necessitá de’ danari, perché maggiore quantitá perveniva loro per la restituzione di quelle, dava materia di interpretare, probabilmente procedere dal desiderio che avessino della bassezza sua o di guadagnarsi il duca di Ferrara, o perché e’ s’andassino continuamente preparando alla oppressione d’Italia. Davano queste cose sospezione e molestia di animo quasi incredibile al pontefice, ma molto maggiore il parergli non essere da queste operazioni diversa la mente di Cesare. Il quale, avendo mandato al pontefice le lettere della ratificazione della confederazione fatta in suo nome dal viceré, differiva di ratificare i tre articoli stipulati separatamente dalla capitolazione, allegando che quanto alla restituzione delle terre tenute dal duca di Ferrara non aveva facoltá di pregiudicare alle ragioni dello imperio, né sforzare quel duca che asseriva tenerle in feudo dallo imperio; e però offeriva che questa differenza si trattasse per via di giustizia o di amicabile composizione: e si intendeva che il desiderio suo sarebbe stato che le restassino al duca sotto la investitura sua, per la quale gli pagasse centomila ducati, pagandone anche al pontefice centomila altri per la investitura di Ferrara e per la pena apposta nel contratto che aveva fatto con Adriano. Allegava essere stato impertinente convenire co’ ministri suoi sopra il dare i sali al ducato di Milano, perché il dominio utile di quel ducato, per la investitura concessa benché non ancora consegnata, apparteneva a Francesco Sforza; e però, che il viceré non si era obligato semplicemente, nello articolo, a farlo obligare a pigliargli ma a curare che e’ consentisse; la quale promessa, per contenere il fatto del terzo, era notoriamente, quanto allo effetto dello obligare o sé o altri, invalida; e nondimeno, che per desiderio di gratificare al pontefice arebbe procurato di farvi consentire il duca, se non fusse fatto e interesse non piú suo ma alieno, perché giá il duca di Milano, in ricompenso degli aiuti avuti dallo arciduca, aveva convenuto di pigliare i sali da lui: e pure che si interporrebbe perché il fratello, ricevendo ricompenso onesto di danari, consentisse, non in perpetuo, come diceva l’articolo, ma durante la vita del pontefice. Né ammetteva anche l’articolo delle cose beneficiali, se con quello che si esprimeva nelle investiture non si congiugneva quel che fusse stato osservato dai re suoi antecessori. Per queste difficoltá recusò il pontefice di accettare le lettere della ratificazione e di mandare a Cesare le sue; dimandando che poi che Cesare non aveva ratificato nel termine de’ quattro mesi secondo la promessa del viceré, fussino restituiti a’ fiorentini i centomila ducati: alla quale dimanda si rispondeva (piú presto cavillosamente che con solidi fondamenti) la condizione della restituzione de’ centomila ducati non essere stata apposta nello instrumento ma promessa per uno articolo da parte dagli agenti del viceré con giuramento, né referirsi alla ratificazione de’ tre articoli stipulati separatamente dalla confederazione ma alla ratificazione della confederazione, la quale Cesare aveva nel termine de’ quattro mesi ratificata e mandatone le lettere nella forma debita. Perveniva anche alla notizia del pontefice che le parole di tutta la corte di Cesare erano piene di mala disposizione contro alle cose d’Italia; e seppe anche che i capitani dello esercito suo cercavano di persuadergli che, per assicurarsi totalmente d’Italia, era bene fare restituire Modena al duca di Ferrara, rimettere i Bentivogli in Bologna, pigliare il dominio di Firenze di Siena e di Lucca come di terre appartenenti allo imperio. Però, trovandosi pieno di ansietá e di sospetto ma non avendo dove potersi appoggiare, e sapendo che i franzesi [si] offerivano a dargli Italia in preda, andava per necessitá temporeggiando e simulando.

Trattavasi in questo tempo continuamente l’accordo tra i viniziani e il viceré; il quale, oltre al riobligargli alla difesa in futuro del ducato di Milano, dimandava, per sodisfazione della inosservanza della confederazione passata, grossissima somma di danari. Molte erano le ragioni che inclinavano i viniziani a cedere alla necessitá, molte che incontrario gli confortavano a stare sospesi; in modo che i consigli loro erano pieni di varietá e di irresoluzione: pure, alla fine, dopo molte dispute, attoniti come gli altri per tanta vittoria di Cesare e vedendosi restare soli da ogni banda, commessono all’oratore suo Pietro da Pesero, che era appresso al viceré, che riconfermasse la lega nel modo che era stata fatta prima ma pagando a Cesare, per sodisfazione del passato, ottantamila ducati. Ma instando determinatamente il viceré di non rinnovare la confederazione se non ne pagavano centomila, accadde, come interviene spesso nelle cose che si deliberano male volontieri, che in disputare questa piccola somma si interpose tanto tempo che a’ viniziani pervenne la notizia che il re d’Inghilterra non era piú contro a’ franzesi in quella caldezza di che da principio si era temuto; e giá, per avere ricevuto i pagamenti, erano stati licenziati tanti fanti tedeschi dell’esercito imperiale che il senato viniziano, assicurato di non avere per allora a essere molestato, deliberò di stare ancora sospeso, e riservare in sé, piú che poteva, la facoltá di pigliare quelle deliberazioni che per il progresso delle cose universali potessino conoscere essere migliori.

Queste cagioni, oltre al desiderio che n’avevano avuto continuamente, stimolavano tanto piú l’animo del viceré e degli altri capitani di trasferire la persona del re di Francia in luogo sicuro; giudicando che, per la mala disposizione di tutti gli altri, non si custodisse senza pericolo nel ducato di Milano: però deliberorono di condurlo a Genova e da Genova per mare a Napoli, per guardarlo nel Castelnuovo, nel quale giá si preparavano l’abitazioni per lui. La qual cosa era sommamente molestissima al re, perché insino dal principio aveva ardentemente desiderato di essere condotto in Spagna; persuadendosi (non so se per misurare altri dalla natura sua medesima, o pure per gli inganni che facilmente si fanno gli uomini da se stessi in quello che e’ desiderano) che, se una volta era condotto al cospetto di Cesare, d’avere, o per la benignitá sua o per le condizioni che egli pensava di proporre, a essere facilmente liberato. Desiderava e il medesimo, per amplificare la gloria sua, ardentemente il viceré; ma ritenendosene per timore della armata de’ franzesi, andò, di comune consentimento, Memoransí a madama la reggente, e avute da lei sei galee sottili, di quelle che erano nel porto di Marsilia, con promissione che, subito che e’ fusse arrivato in Spagna, sarebbono restituite, ritornò con esse a Portofino, dove era giá condotta la persona del re: le quali aggiunte a sedici galee di Cesare, con le quali avevano prima deliberato di condurlo a Napoli, e armatele tutte di fanti spagnuoli, preso a’ sette dí di giugno il cammino di Spagna, in tempo che non solo i príncipi d’Italia ma tutti gli altri capitani cesarei e Borbone tenevano per certo che il re si conducesse a Napoli, si condussono con prospera navigazione, l’ottavo giorno, a Roses porto della Catalogna, con grandissima letizia di Cesare, ignaro insino a quel dí di questa deliberazione. Il quale, subito che n’ebbe notizia, comandato che per tutto donde passava fusse ricevuto con grandissimi onori, commesse nondimeno, insino a tanto che altro se ne determinasse, che fusse custodito nella rocca di Sciativa appresso a Valenza, rocca usata anticamente da i re di Aragona per custodia degli uomini grandi, e nella quale era stato tenuto ultimamente piú anni il duca di Calavria. Ma parendo questa deliberazione inumana al viceré e molto aliena dalle promesse che in Italia gli aveva fatte, ottenne per lettere da Cesare che insino a nuova deliberazione fusse fermato in una villa vicina a Valenza, dove erano comoditá di caccie e di piaceri. Nella quale poi che l’ebbe con sufficiente guardia collocato, lasciato con lui il capitano Alarcone, il quale continuamente aveva avuta la sua custodia, andò insieme con Memoransí a Cesare, a referirgli lo stato di Italia e le cose trattate col re insino a quel dí, confortandolo con molte ragioni a voltare l’animo alla concordia con lui, perché con gli italiani non poteva avere fedele amicizia e congiunzione. Donde Cesare, udito che ebbe il viceré e Memoransí, determinò che il re di Francia fusse condotto in Castiglia nella fortezza di Madril, luogo molto lontano dal mare e da’ confini di Francia; dove, onorato con la cerimonia e con le riverenze convenienti a tanto principe, fusse nondimeno tenuto con diligente e stretta guardia, avendo facoltá di uscire qualche volta il dí fuora della fortezza cavalcando in su una mula. Né consentiva Cesare di ammettere il re al cospetto suo se prima la concordia non fusse o stabilita o ridotta in speranza certa di stabilirsi: la quale perché si trattasse per persona onorata e che quasi fusse la medesima che il re, fu espedito in Francia con grandissima celeritá Memoransí, per fare venire la duchessa di Alanson sorella vedova del re, con mandato sufficiente a convenire; e perché non avessino a ostare nuove difficoltá si fece, poco poi, tra Cesare e il governo di Francia tregua per tutto dicembre prossimo. Ordinò ancora Cesare che una parte delle galee venute col viceré ritornassino in Italia, per condurre il duca di Borbone in Spagna, senza la presenza del quale affermava non volere fare alcuna convenzione (benché per mancamento di danari si spedivano lentamente); e dimostrandosi molto disposto alla pace universale de’ cristiani, e volere in uno tempo medesimo dare forma alle cose d’Italia, sollecitava con molta instanza il pontefice che accelerasse l’andata del cardinale de’ Salviati o di altri con sufficiente mandato: al quale anche, essendo giá deliberato di pigliare per moglie la infante di Portogallo, cugina sua carnale e cosí congiunta seco in secondo grado, espedí Lopes Urtado a dimandare al pontefice la dispensa; essendosi prima scusato col re di Inghilterra di non potere resistere alla volontá de’ popoli suoi. Per il medesimo Lopes, il quale partí alla fine di luglio, mandò i privilegi della investitura del ducato di Milano a Francesco Sforza, con condizione che di presente pagasse centomila ducati e si obligasse a pagarne cinquecentomila altri in vari tempi, e a pigliare i sali dall’arciduca suo fratello: e il medesimo portò commissione che, dai fanti spagnuoli in fuora, i quali alloggiassino nel marchesato di Saluzzo, si licenziassino tutti gli altri; e che secento uomini d’arme ritornassino nel reame di Napoli, gli altri rimanessino nel ducato di Milano; e che del suo esercito fusse capitano generale il marchese di Pescara. Aggiunse Cesare a questa commissione che certi danari, quali aveva mandati a Genova per armare quattro caracche con intenzione di passare subito in Italia personalmente, si convertissino ne’ bisogni dello esercito, perché deliberava di non partire per allora di Spagna; e che il protonotario Caracciolo andasse da Milano a Vinegia in nome di Cesare, per indurre quel senato a nuova confederazione, o almeno perché ciascuno restasse certificato tutte le azioni sue tendere alla pace universale de’ cristiani.

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