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Capitolo quattordicesimo
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XIV
Consumato con queste azioni, disposte piú alla guerra che alla pace, l’anno della nativitá del Figliuolo del sommo Dio mille cinquecento venticinque, cominciò l’anno mille cinquecento ventisei, pieno di grandi accidenti e di maravigliose perturbazioni. Nel principio del quale anno ritornando Errera a Cesare, il pontefice gli scrisse una lunga lettera di propria mano, nella quale, non negando totalmente né confessando le cose trattate contro a lui ma trasferendone la colpa nel marchese di Pescara, si sforzò di escusare Francesco Sforza, sedotto, se aveva fatto errore alcuno, dai consigli di Ieronimo Morone; e supplicandolo efficacissimamente che, per quiete e beneficio di tutta la cristianitá, fusse contento di perdonargli. Nel quale tempo Cesare, aspettando la risposta del pontefice, teneva sospese tutte le pratiche degli altri; e ancora che Borbone, che era carezzato assai e confermatagli la speranza del parentado, instesse di consumare il matrimonio, gli era interposta dilazione, allegando che Cesare voleva prima consumare il matrimonio suo con la sposa di Portogallo, la quale di giorno in giorno aspettava: ma si faceva per lasciarsi libera la facoltá di fare l’accordo col re di Francia, nel quale si trattava dargli per moglie la medesima promessa a Borbone; prevalendo, come è l’uso di tutti i príncipi, l’utilitá alla onestá. Sopravenne dipoi, avendo giá Cesare consumato il matrimonio in Sibilia, Errera da Roma, con la minuta del capitolo amplissimo disteso dal pontefice in benefizio di Francesco Sforza: in modo che Cesare, certificato anche che il legato non aveva commissione da parte, diversa da quel capitolo, e concorrendo tutto il consiglio in questa sentenza, che e’ fusse necessario interrompere la lega che si trattava e pericoloso l’avere a sostenere in uno tempo medesimo tanti inimici, si ridusse in necessitá o di sodisfare al pontefice e a’ viniziani della restituzione di Francesco Sforza o di concordarsi col re di Francia. Il quale finalmente, dopo molte contenzioni avute sopra la Borgogna, non potendo altrimenti sperare da Cesare la liberazione, offeriva di restituirla con i contadi e pertinenze sue, e cedere alle ragioni che aveva sopra il regno di Napoli e sopra il ducato di Milano; e dare statichi, per l’osservanza delle promesse, due suoi figliuoli.
Grandissime dispute erano in su la elezione dell’una o dell’altra deliberazione. Il viceré, che aveva condotto in Spagna il re cristianissimo, e dategli tante speranze e procurato sí ardentemente la sua liberazione, faceva piú efficace instanza che mai; e l’autoritá sua, almanco per fede e per benivolenza, era grande appresso a Cesare. Ma in contrario piú presto esclamava che disputava Mercurio da Gattinara, gran cancelliere; uomo, benché nato di vile condizione nel Piamonte, di molto credito ed esperienza, e il quale giá piú anni sosteneva tutte le faccende importanti di quella corte. I quali essendo uno giorno ridotti in consiglio, presente Cesare, per determinare finalmente tutte le cose che si erano trattate tanti mesi, il gran cancelliere parlò cosí:
— Io ho bene sempre dubitato, invittissimo Cesare, che la nostra troppa cupiditá, e lo averci proposto noi fini male misurati, non fusse causa che di vittoria tanto preclara e tanto grande noi non riportassimo alla fine né gloria né utilitá; ma non credetti perciò giá mai che l’avere vinto avesse a condurre in pericolo la reputazione e lo stato vostro, come io veggo che manifestamente si conduce: poi che si tratta di fare un accordo per il quale Italia tutta si disperi e il re di Francia si liberi, ma con sígravi condizioni che, se non per volontá almanco per necessitá, ci resti maggiore inimico che prima. Desidererei e io, con ardore pari a quello degli altri, che in uno tempo medesimo si recuperasse la Borgogna e si stabilissino i fondamenti di dominare Italia, ma conosco che chi cosí presto vuole tanto abbracciare va a pericolo di non stringere cosa alcuna, e che nessuna ragione comporta che il re di Francia, liberato, vi attenda tanto importanti capitoli. Non sa egli, che se e’ vi restituisce la Borgogna, che vi apre una porta di Francia? e che in potestá vostra sará sempre di correre insino a Parigi? e, che avendo voi facoltá di travagliare la Francia da tante parti, che sará impossibile che e’ vi resista? Non sa egli, e ognuno, che il consentirvi che voi andiate armato a Roma, che voi mettiate il freno a Italia, che voi riduciate in arbitrio vostro lo stato spirituale e temporale della Chiesa, è cagione di raddoppiare la vostra potenza, che mai piú vi possino mancare né danari né armi da offenderlo, e che egli sia necessitato ad accettare tutte le leggi che a voi parrá d’imporgli? Adunque, ci è chi crede che vi abbia a osservare uno accordo per il quale egli diventi vostro schiavo e voi diventiate suo signore? Gli mancheranno i lamenti e le esclamazioni di tutto il reame di Francia, le persuasioni del re d’Inghilterra, gli stimoli di tutta Italia? l’amore forse che è tra voi due sará cagione che e’ si fidi di voi, o vegga volentieri la vostra potenza? O dove furono mai due príncipi tra i quali fussino piú cause di odio e di contenzione? Ci è non solo la emulazione della grandezza, che suole mettere l’armi in mano a’ fratelli, ma antiche e gravissime inimicizie cominciate insino dai padri e dagli avoli degli avoli vostri, tante guerre state lungamente tra queste due case, tante paci e accordi non osservati, tante ingiurie e offese fatte e ricevute. Non crediamo noi che gli arda di sdegno quando e’ si ricorda di essere stato tanti mesi vostro prigione? tenuto sempre con guardie sí strette, non avere mai avuto grazia di essere stato condotto al cospetto vostro? che in questa carcere, per i dispiaceri e incomoditá, è stato vicino alla morte? e che ora non si libera per magnanimitá o per amore ma per paura di tanta unione che si tratta contro a voi? Crediamo noi che sia piú potente di tanti stimoli il parentado fatto per necessitá? E chi non sa quanto i príncipi stimano questi legami? e chi è migliore testimonio del conto che si tiene de’ parentadi che noi? Parrá forse a qualcuno che assai ci assicuri la fede che e’ dará di ritornare in prigione! e che fondamenti inconsiderati, che speranze imprudenti sarebbeno queste? Cosí mi sforza, Cesare, a parlare il dolore estremo che io ho che e’ si pensi di prendere uno partito tanto dannoso e pericoloso. Sappiamo pure tutti quanto sia stimata la fede negli interessi degli stati, che vagliano le promesse de’ franzesi, i quali, aperti in tutto il resto, sono maestri perfettissimi di ingannare; che questo re è per natura tanto piú scarso di fatti quanto è piú abbondante di parole. Però conchiudiamo pure che, non benivolenza tra due príncipi che hanno per antichissima ereditá le ingiurie e le inimicizie, non memoria de’ benefizi de’ quali non ci è nissuno, non fede o promesse (che nelle importanze dello stato sono appresso di molti di poco peso, appresso a’ franzesi di niuno) lo indurranno a eseguire un accordo che metta in cielo lo inimico suo, e sé e il suo reame in manifesta suggezione. Risponderassi, sento, che per timore di queste cose se gli dimanda la sicurtá di due figliuoli e tra loro il primogenito, l’amore de’ quali bisognerá che gli stimi piú che la Borgogna; e io temo che l’amore de’ figliuoli opererá piú presto il contrario, quando se gli presenterá nell’animo la memoria loro e la considerazione che l’osservare lo accordo sarebbe il principio di fargli vostri schiavi. Non so se questo pegno bastasse quando e’ fusse al tutto disperato di recuperargli in altro modo, perché troppo importa il mettere in pericolo il regno suo, il quale perduto una volta è difficillimo il recuperare; ma si può bene sperare di recuperare col tempo i figliuoli o con accordo o con altra occasione, e per l’etá loro tenera sará manco molesta la dilazione. Ma potendo egli avere uniti seco contro a voi quasi tutti i príncipi cristiani, chi dubita che si ristringerá con loro e cercherá di moderare questo accordo con la via dell’armi? e che il guadagno che noi aremo conseguito di questa vittoria sará una guerra gagliardissima e pericolosissima? concitata dall’odio, dalla necessitá e dalla disperazione del re d’Inghilterra, del re di Francia e di tutta Italia. Da’ quali tutti ci difenderemo, se Dio non si straccherá di fare ogni dí per noi di quegli miracoli che tante volte ha fatti insino al presente, se la fortuna muterá natura per noi, e la sua incostanza e mutazione diventeranno in noi, contro a tutti gli esempli delle cose passate, uno esempio di costanza e di stabilitá. Abbiamo conchiuso, giá tanti mesi, in tutti i consigli nostri, che si faccia ogni opera perché gl’italiani non si unischino col governo di Francia, e ora ci precipitiamo a una deliberazione che leva tutte le difficoltá che insino a ora gli hanno tenuti sospesi, che moltiplica i pericoli nostri che moltiplica le forze degli inimici. Perché chi non sa quanto piú potente sará la lega che abbia per capo il re di Francia, libero e nel regno suo, che quella che si facesse col governo di Francia restando il re vostro prigione? Chi non sa che nissuna ragione ha tenuto insino a ora il papa ambiguo a confederarsi contro a voi se non il timore che voi non separiate i franzesi da loro con offerirgli il suo re? di che temeranno manco quando aremo i figliuoli e non lui. Cosí la medicina che noi prepariamo usare per fuggire il pericolo sará quella che senza comparazione lo accrescerá, e in cambio di interrompere questa unione saremo il mezzo noi che la si faccia, e piú stabile e piú potente. Sarammi detto: che parere è adunque il tuo? consigli tu che di tanta vittoria non si tragga alcuno profitto? abbiamo noi a stare continuamente in queste perplessitá? Io confermo quel che ho detto molte volte: che è troppo nocivo il prendere in una volta tanto cibo che lo stomaco non sia potente a comportarlo, e che è necessario o, reintegrandosi con Italia (che non dimanda altro da noi che di essere assicurata), cercare di avere dal re di Francia la Borgogna e quel piú che noi possiamo, o fare uno accordo con lui per il quale ci resti Italia a discrezione, ma sí dolce, in quanto agli interessi suoi, che gli abbi causa di osservarlo; e nella elezione tra queste due vie bisogna, Cesare, che la prudenza e la bontá vostra preponga quello che è stabile e piú giusto a quello che al primo aspetto paresse forse piú utile e maggiore. Confesso che piú ricco stato e piú opportuno a molte cose è quel di Milano che la Borgogna, e che non si può fare amicizia con Italia che non si lasci Milano o a Francesco Sforza o a uno altro del quale il papa si contenti; e nondimeno lodo molto piú il fare questo che lo accordare co’ franzesi: perché di giustizia piú è vostra la Borgogna che non è Milano, piú facile a mantenere che quella, dove non è alcuno che vi voglia. Cercare la Borgogna, vostra antica ereditá, è somma laude; volere Milano, o per voi o per uno che dependa in tutto da voi, non è senza nota di ambizione: il primo ricerca da voi la memoria di tanti gloriosi vostri progenitori, l’ossa de’ quali sepolte in cattivitá non gridano altro che essere da voi liberate e ricuperate: e sí giusti sí pietosi sí santi prieghi sono forse cagione di farvi Dio piú propizio. Piú prudente e piú facile consiglio è cercare di stabilire una amicizia con chi malvolentieri vi diventa inimico che con chi in tempo alcuno non vi può essere amico. Perché nel re di Francia non sará mai se non odio e desiderio di opporsi a disegni vostri; ma il papa e gli altri d’Italia, come si leva l’esercito di Lombardia, assicurati dal sospetto, non aranno da contendere con voi né per emulazione né per timore, e restandovi amici ne arete, ora e sempre, comoditá e profitto. Vi inclina dunque piú a questa amicizia l’onore l’utilitá la sicurtá, ma, se io non mi inganno, non meno la necessitá: perché, quando bene voi facciate accordo col re senza obligarlo ad altro che ad aiutarvi alle imprese d’Italia, a me non è verisimile che e’ ve lo abbia a osservare; perché gli parrá che il lasciarvi Italia in preda metta in troppo pericolo il suo reame, e da altro canto grandissime saranno le opportunitá e le speranze che, per mezzo di sí potente unione, gli parrá avere di travagliarvi e ridurvi a uno accordo di manco gravi condizioni. Cosí di uno re prigione lo faremo libero e inimico nostro, e daremo capo al regno di Francia acciò che, congiunto a tanti altri, vi faccia con piú forze e con maggiore autoritá la guerra. Quanto è meglio accordare con gl’italiani! fare una buona e vera congiunzione col pontefice, che l’ha continuamente desiderata, e levare a franzesi ogni speranza della compagnia degli italiani! perché allora non la necessitá o il timore di nuove leghe, ma la volontá vostra e la qualitá delle condizioni, vi ará a tirare ad accordo co’ franzesi; allora vedrete che il bisogno e la disperazione gli sforzerá non solo a rendervi la Borgogna e farvi patti maggiori ma ancora a mettervi in mano tale sicurtá che non abbiate a temere dell’osservanza. Perché non bastano i figliuoli mentre che e’ possono sperare tanta congiunzione, né basterebbe, appena, se vi mettessino in mano Baiona, Nerbona e l’armata. A questo modo caverete frutto grande, onorevole, giusto e sicuro, di questa vittoria; altrimenti, o io non ho intelligenza di cosa alcuna o questo accordo metterá lo stato vostro in sí grave pericolo che io non so conoscere che cosa ve ne possa liberare, se giá la imprudenza del re di Francia non sará maggiore che la nostra. —
Aveva il gran cancelliere, con questo parlare accurato e veemente e con la riputazione della prudenza sua, commosso gli animi di una grande parte del consiglio, quando il viceré, autore della contraria opinione, parlò, secondo si dice, cosí:
— Non è giá da lodare, gloriosissimo Cesare, chi, per appetito di avere troppo, abbraccia piú che non può tenere, ma non merita di essere manco biasimato chi, per superchio sospetto e diffidenza, si priva da se stesso delle occasioni grandi acquistate con tante difficoltá e pericoli; anzi, essendo l’uno e l’altro errore gravissimo, è piú dannabile, in uno tanto principe, quello che procede da timiditá e abiezione di animo che quello che nasce da generositá e grandezza, e piú laudabile è cercare, con pericolo, di acquistare troppo che, per fuggire pericolo, annichilare le occasioni rarissime che l’uomo ha: e questo è proprio il consiglio del cancelliere, che dubitando non si possa conseguire con questo accordo la Borgogna e Milano (perché di lui non è giá da sospettare che lo muova o l’amore di Italia sua patria o la benivolenza che ha al duca di Milano) si risolve a una via che, secondo lui, si guadagna la Borgogna e si perde Milano, stato senza comparazione di maggiore importanza, ma, secondo me, si perde Milano e non si guadagna la Borgogna; e dove questa vittoria vi ha aperta gloriosissimamente la strada al principato de’ cristiani, non ci resterá, se seguiteremo il consiglio suo, altro che danno e infamia. E certo io non veggo nel consiglio suo sicurtá alcuna, anzi pericolo grandissimo, piccolissima utilitá, e quella facile a uscirci di mano, veggola piena di indegnitá e di vergogna; e, per contrario, nell’accordo col re di Francia mi pare che sia grandissima gloria, grandissima utilitá, e sicurtá bastante. Perché io vi dimando, cancelliere: che ragione avete voi, che sicurtá che fede, che gl’italiani, poi che aremo lasciata la ducea di Milano, abbino a osservare l’accordo nostro né si intromettere tra il re di Francia e noi? e non piú presto, poiché aranno abbassato la nostra riputazione, poiché aranno dissoluto quello esercito che è il freno della loro malignitá, poiché saranno sicuri che in Italia non possino venire nuovi tedeschi (perché non sará in Lombardia luogo che gli riceva né dove si possino raccorre), che sicurtá, dico, avete voi che gl’italiani, allora, continuando le sue pratiche, non abbino, col minacciarci il regno di Napoli, che resterá quasi alla loro discrezione, a sforzarci a liberare il re di Francia? Fidatevi voi, cancelliere, nella gratitudine di Francesco Sforza? che dopo tanti benefici vi ha rimeritato, Cesare, con sí scellerato tradimento! che fará ora che vi ha conosciuto desideroso di punire con la giustizia tanta iniquitá, ora che da voi teme la pena, dagli inimici vostri aspetta la salute? Fidatevi voi, cancelliere, della amicizia de’ viniziani, che nascono inimici dello imperio e della casa d’Austria; e tremano ricordandosi che, quasi ieri, Massimiliano vostro avolo tolse loro tante terre di quelle che ora posseggono? Fidatevi voi della bontá di Clemente o della inclinazione sua allo imperadore, col quale il principio della congiunzione di Lione fu, dopo avere tentato contro a noi molte cose, per desiderio di vendicarsi e di assicurarsi de’ franzesi, e per ambizione di occupare Ferrara? Morto Lione, costui, cardinale, inimicato da mezzo il mondo, continuò per necessitá la nostra amicizia; ma fatto papa, ritornato subito al naturale de’ pontefici, che è di temere e di odiare gli imperadori, non ha cosa alcuna piú in orrore che il nome di Cesare. Scusansi tutti questi che le macchinazioni loro non sono procedute da odio o da altra cupiditá ma solamente dal sospetto della vostra grandezza, e che cessato questo, cesseranno tutte le pratiche: il che o non è vero o, se pure da principio fu vero, è necessario che abbia fatto poi altre radici e sia diventato altro umore; perché è naturale che dietro al sospetto viene l’odio, dietro all’odio l’offese, con l’offese la congiunzione e intrinsichezza con gli inimici di chi si offende, i disegni non solo di assicurarsi ma ancora di guadagnare della ruina dello offeso, la memoria delle ingiurie, maggiore senza dubbio e piú implacabile in chi le fa che in chi le riceve. Però, quando bene da principio si fussino mossi solo dal sospetto, sarebbe questo stato causa diventassino inimici vostri, volgessino gli animi e le speranze alle cose franzesi, cominciassino poi, in tutte le convenzioni che hanno trattate, a dividersi il reame di Napoli. Ora, séguiti quale si voglia sicurtá e accordo con noi, resterá sempre acceso ne’ petti loro l’odio e il timore; né confidando di quello che parrá loro fatto per necessitá, e parendogli avere maggiore facilitá di strignerci alle voglie loro, timidi che alla fine non si faccia tra il re di Francia e noi uno nuovo appuntamento simile a quello che fu fatto a Cambrai, cupidi di liberare (per usare i loro vocaboli) Italia da’ barbari, ardiranno di volere porvi le leggi, di dimandare la liberazione del re di Francia: se la negherete, Cesare, come difenderete da loro il regno di Napoli? se la concederete, perduti tutti i frutti della vittoria, resterete il piú disonorato il piú sbattuto principe che fusse mai. Ma pogniamo che Italia fusse per osservarvi l’accordo, e che voi strignesse la necessitá o di lasciare Milano o di non riavere la Borgogna, che comparazione è tra l’uno partito e l’altro? La Borgogna è piccola provincia, di poca entrata, né anche tanto opportuna quanto molti si persuadono; il ducato di Milano, per la ricchezza e bellezza di tante cittá, per il numero e nobiltá de’ sudditi, per l’entrate grandi, per la capacitá di notrire tutti gli eserciti del mondo, è superiore a molti reami: ma, ancora che e’ sia sí ampio e sí potente, sono da stimare piú le opportunitá che nascono da acquistarlo che quello che e’ vale per se medesimo; perché, essendo a vostra divozione Milano e Napoli, bisognerá che i pontefici dependino, come giá solevano, dagli imperadori, la Toscana tutta il duca di Ferrara e il marchese di Mantova vi sieno sudditi; i viniziani, circondati dalla Lombardia e dalla Germania, saranno necessitati ad accettare le leggi vostre. Cosí, non dico con l’armi o con gli eserciti ma con la riputazione del vostro nome, con uno araldo solo, con le insegne imperiali comanderete Italia tutta. E chi non sa che cosa sia Italia? provincia regina di tutte l’altre, per l’opportunitá del sito per la temperie dell’aria per la moltitudine e ingegni degli uomini, attissimi a tutte le imprese onorevoli, per la fertilitá di tutte le cose convenienti al vivere umano, per la grandezza e bellezza di tante nobilissime cittá, per le ricchezze per la sedia della religione per l’antica gloria dello imperio, per infiniti altri rispetti; la quale se voi dominerete tremeranno sempre di voi tutti gli altri príncipi. Cercare questo si appartiene piú alla grandezza, piú alla gloria vostra, piú è grato all’ossa degli avoli vostri: poi che questi anche hanno a venire in consiglio; i quali, e per la bontá e per la pietá loro, non è da credere desiderino altro che quello che è piú comodo a voi e piú glorioso al vostro nome. Seguitando adunque il consiglio del cancelliere perderemmo uno acquisto grandissimo per uno acquisto piccolo, e questo piccolo è incertissimo: di che ci doverebbe pure ammonire quel che fu per accadere a’ mesi passati. Non ci ricorda egli, quando il re di Francia fu in tanto pericolo di morte, in quanto dispiacere noi stemmo? per conoscere che con la morte sua si perdeva tutto il frutto sperato per la vittoria: chi ci assicura che ora non possa intervenire il medesimo? e piú facilmente, perché gli restano le reliquie del male di allora, perché, mancandogli la speranza che insino al presente l’ha sostentato, gli torneranno maggiori i dispiaceri da’ quali la infermitá sua ebbe cagione; e massime che, avendosi a trattare di condizioni e di sicurtá inestricabili, le pratiche nuove bisognerá che abbino lunghezza, che sará sottoposta a questo accidente e forse ad altri non minori né manco facili. Non sappiamo noi che nessuna cosa ha tanto tenuto fermo il governo di Francia quanto opinione della sua presta liberazione? per la quale i grandi di quel regno sono stati quieti e ubbidienti alla madre: come questa speranza mancasse, sarebbe facile cosa che il regno si risenta, e alteri il governo; e quando i grandi ne avessino la briglia in mano non sará in loro cura alcuna di liberare il re, anzi, per mantenersi sciolti e padroni, aranno piacere della sua cattivitá. Cosí, in cambio della Borgogna e di tanti acquisti, non potremmo piú sperare né della sua prigione né della sua liberazione. Ma io dimando piú oltre, cancelliere: ha Cesare, in questa deliberazione, a tenere conto alcuno della dignitá e maestá sua? e che maggiore infamia può egli avere, che piú diminuzione di onore, che essere costretto a perdonare a Francesco Sforza? che uno uomo mezzo morto, rebelle vostro, esempio singolare di ingratitudine, non con l’umiliarsi e fuggire alla vostra misericordia ma col gettarsi in braccio agli inimici vostri, vi sforzi a cedergli a restituirgli lo stato, sí giustamente toltogli, a pigliare le leggi da lui? Meglio è, Cesare, e piú conviene alla dignitá dello imperio, alla vostra grandezza, sottoporsi di nuovo alla fortuna, mettere di nuovo ogni cosa in pericolo, che, dimenticatovi il grado vostro, l’autoritá di principe supremo di tutti i príncipi e il nome cesareo, e vincitore tante volte d’un potentissimo re, accettare da preti e da mercatanti quelle condizioni che, se voi fussi stato vinto, né piú gravi né piú indegne vi sarebbono state poste. Però, considerando io tutte queste ragioni, e quanto sia piccola l’utilitá che ci può risultare dello accordo con gl’italiani e per quanti accidenti ci possa facilmente uscire di mano, e quanto sia poco sicuro il fidarsi di loro, e di quanta indignitá sia pieno il lasciare lo stato di Milano, e che a noi è necessario risolversi e avere una volta considerazione del fine, e che la carcere del re non ci dá utilitá se non per i frutti che si possono trarre della liberazione, ho confortato e conforto l’accordare prima con lui che con gli italiani; che nessuno può negare non essere piú glorioso piú ragionevole piú utile: pure che ci assicuriamo della osservanza (in che io fo qualche fondamento) e della gratitudine sua, per il beneficio che egli riceverá da voi, e del vincolo del parentado e della virtú della sorella vostra, instrumento abile a mantenere questa amicizia, ma molto piú del pegno de’ due figliuoli, e tra questi il primogenito; del quale non so che maggiore pegno, né piú importante a lui, si possa ricevere. E, poi che la necessitá ci strigne a deliberarci, si debbe pure fidarsi piú di uno re di Francia con tanto pegno che degli italiani senza alcuno pegno, piú della fede e parola di uno tanto re che della cupiditá immoderata de’ preti e della sospettosa viltá de’ mercatanti; e piú facilmente possiamo avere, come molte volte hanno avuto i passati nostri, congiunzione per qualche tempo co’ franzesi che con gli italiani, inimici nostri naturali ed eterni. Né solo in questa via veggo maggiore speranza che ci abbia a essere atteso, ma ancora minore pericolo in caso vi fusse mancato. Perché quando bene il re non vi desse la Borgogna non ardirá, restando per ostaggio i suoi figliuoli, di farvi nuove offese, ma cercherá, con pratiche e con prieghi, di moderare l’accordo: senza che, vinto da voi ieri, e oggi uscito di prigione, temerá ancora dell’armi vostre né ará piú ardire di tentare la vostra fortuna; e se egli non piglia l’armi contro a voi, Cesare, certo e che tutti gli altri staranno fermi, tanto che acquisterete il castello di Milano e vi confermerete in modo in quello stato che non arete piú da temere di malignitá di alcuno. Ma agl’italiani, se accordate ora seco e vi voglino mancare, non resta freno alcuno che gli ritenga; e cresciuta la facoltá dello offendervi, sará libera e crescerá la volontá. Però, a giudicio mio, sarebbe somma e timiditá e imprudenza perdere, per troppo sospetto, uno accordo pieno di tanta gloria di tanta grandezza e con sicurtá bastante, pigliando in cambio di quello di una deliberazione pericolosissima, se io non mi inganno, e dannosissima. —