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Capitolo secondo
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II
Erano in questi termini le cose d’Italia quando sopravenneno gli avvisi di Francia della pronta disposizione e offerte del re, e della richiesta fatta da lui che e’ si mandassino i mandati; e nel tempo medesimo gli imbasciadori del re d’Inghilterra che erano appresso al pontefice lo confortorono assai a pensare che si moderasse la grandezza di Cesare, e a dare animo al re di Francia di non osservare la capitolazione. Per le quali cose non solo i viniziani, che in ogni tempo e in occasioni molto minori avevano confortato a pigliare l’armi, ma il pontefice ancora, che molto difficilmente si disponeva a entrare in questo travaglio, gli parve essere necessitato a raccorre la somma de’ discorsi suoi e non differire piú di fare qualche deliberazione. Le ragioni, che a’ mesi passati l’avevano inclinato alla guerra, non solo erano le medesime ma ancora piú considerabili e piú potenti: perché e quanto tempo piú si erano allungate le pratiche Cesare aveva potuto scoprire meglio l’animo del pontefice essere alieno dalla grandezza sua; e il pontefice, per lo accordo che egli aveva fatto col re di Francia, era entrato in giusto sospetto di non potere ottenere condizioni eque da lui, e che gli avesse in animo di opprimere il resto d’Italia; e il pericolo ogni dí piú era presente, approssimandosi il castello di Milano alla dedizione. Incitavano l’animo suo le ingiurie che si rinnovavano dai capitani imperiali; i quali, dopo la capitolazione fatta a Madril, avevano mandato ad alloggiare nel piacentino e nel parmigiano uno colonnello di fanti italiani, dove facevano infiniti danni; e querelandosene il pontefice, rispondevano che per non essere pagati vi erano venuti di propria autoritá. Commovevanlo eziandio le cose forse piú leggiere ma interpretate, come si fa nelle sospizioni e nelle querele, nella parte peggiore: perché Cesare aveva publicato in Spagna certi editti pragmatici contro alla autoritá della sedia apostolica, per virtú de’ quali essendo proibito a’ sudditi suoi trattare cause beneficiali di quegli regni nella corte romana, ebbe ardire uno notaio spagnuolo, entrato nella ruota di Roma il dí deputato alla udienza, intimare in nome di Cesare ad alcuni che desistessino di litigare in quello auditorio. Né solo pareva che per la liberazione del cristianissimo fusse sciolto quel nodo che aveva tenuto implicati gli animi di ciascuno, che i franzesi per riavere il suo re fussino per abbandonare la lega, e la compagnia del re di Francia si conosceva di molto piú importanza alla impresa che non sarebbe stata quella della madre e del governo, ma ancora si vedevano maggiori l’altre occasioni. Perché la sollevazione del popolo di Milano pareva di non piccolo momento e, per la carestia che era di vettovaglie in quello stato, si giudicava fusse vantaggio grande assaltare gl’imperiali innanzi che per la ricolta avessino comoditá di vettovagliare le terre forti, innanzi si perdesse il castello di Milano e che Cesare avesse piú tempo di mandare in Italia nuove genti o provisione di danari. E veniva in considerazione che il re di Francia, il quale per la memoria delle cose passate verisimilmente si diffidava del pontefice, non vedendo in lui ardore alla guerra, non si risolvesse a osservare la concordia fatta a Madril o a rifermarla di nuovo; né si dubitava che, congiunte insieme tante forze terrestri e marittime e la facoltá di continuare nelle spese, benché gravi, lungamente, che le condizioni di Cesare, abbandonato da tutti gli altri ed esausto di danari, sarebbeno molto inferiori nella guerra. Solamente faceva scrupolo in contrario il timore che il re, per il rispetto de’ figliuoli non abbandonasse gli altri collegati, come si era dubitato non facesse il governo di Francia quando il re era prigione. Pure il caso si riputava diverso: perché, pigliando l’armi contro a Cesare con tante occasioni, pareva che sí grande fusse la speranza di ricuperargli con le forze, e con questo avesse a succedere con tanta sua riputazione, che e’ non avesse causa di prestare orecchi a concordia particolare, la quale succederebbe non solo con ignominia sua ma eziandio con pregiudicio proprio, se non presente almeno futuro; perché il permettere che Cesare riducesse Italia ad arbitrio suo non poteva, alla fine, essere se non molto pericoloso al reame di Francia. Dalla quale ragione si inferiva similmente che avesse a esercitare ardentissimamente la guerra: perché pareva inutilissimo consiglio, confederandosi contro a Cesare, privarsi della recuperazione de’ figliuoli con l’osservanza della concordia; e nondimeno, da altra parte, pretermettere quelle cose per le quali poteva sperare di conseguirgli gloriosamente con l’armi.
Considerorno forse, quegli che discorsono in questo modo, piú quello che ragionevolmente si doveva fare che non considerorno quale sia la natura e la prudenza de’ franzesi: errore, nel quale certamente spesso si cade nelle consulte e ne’ giudizi che si fanno della disposizione e volontá di altri. Anzi forse non considerorono perfettamente quanto i príncipi, consci il piú delle volte della inclinazione propria ad anteporre l’utilitá alla fede, siano facili a persuadersi il medesimo degli altri príncipi; e che però il re di Francia, sospettando che il pontefice e i viniziani, come per l’acquisto del ducato di Milano fussino assicurati della potenza di Cesare, diventassino negligenti o alieni dagli interessi suoi, giudicasse essergli piú utile la lunghezza della guerra che la vittoria, come mezzo piú facile a indurre Cesare, stracco dai travagli e dalle spese, a restituirgli con nuova concordia i figliuoli. Ma movendo il pontefice le ragioni precedenti, e molto piú la penitenza di avere aspettato oziosamente il successo della giornata di Pavia, e lo essere statone morso e ripreso di timiditá da ciascuno, le voci di tutti i suoi ministri, di tutta la corte, di tutta Italia, che lo increpavano che la sedia apostolica e Italia tutta fussino ridotte in tanti pericoli per colpa sua, deliberò finalmente non solo di confederarsi col re di Francia e con gli altri contro a Cesare ma di accelerarne la conclusione, e per gli altri rispetti e per questo massime, che le provisioni potessino essere a tempo a soccorrere il castello di Milano innanzi che per la fame si arrendesse agli inimici. La quale necessitá fu cagione di tutti i mali che seguitorono: perché altrimenti, procedendo piú lentamente, il pontefice, dalla autoritá del quale dependevano in questa agitazione non poco i viniziani, arebbe aspettato se Cesare, commosso dalla inosservanza del re di Francia, proponesse per sicurtá comune quelle condizioni che prima aveva denegate. E quando pure fusse stato necessitato a pigliare le armi, non essendo costretto a dimostrarne al re di Francia tanta necessitá, arebbe facilmente ottenute da lui per sé e per i viniziani migliori condizioni; ma senza dubbio sarebbono stati meglio distinti gli articoli della confederazione, stabilita maggiore sicurtá della osservanza, e ultimatamente non cominciata la guerra se prima non si fussino mossi i svizzeri e ridotte in essere tutte le provisioni necessarie, e forse entrato nella confederazione il re di Inghilterra: col quale, per la distanza del cammino, non s’ebbe tempo a trattare. Ma parendo al pontefice e al senato viniziano, per il pericolo del castello, di somma importanza la celeritá, espedirono subito ma secretissimamente i mandati di fare la confederazione agli uomini loro; con condizione che, per minore dilazione, si riferissino quasi a quegli medesimi capitoli che prima erano stati trattati con madama la reggente.
Ma sopravenendo pure tuttavia avvisi nuovi della necessitá del castello, entrò il pontefice in considerazione che, essendo necessario che, per essere impedito il cammino diritto da Roma alla corte di Francia, gli spacci andassino con lungo circuito per il cammino de’ svizzeri, e che essendo facil cosa che nel capitolare nascesse qualche difficoltá per la quale di necessitá si interponesse tempo, che potrebbe accadere che e’ si tardasse tanto a conchiudere la confederazione che, se si differisse a cominciare dopo la conclusione a fare le provisioni per soccorrere il castello, era da dubitare non fussino fuora di tempo: e però, consultato questo pericolo co’ viniziani, stimolati ancora dagli agenti del duca di Milano che erano a Roma e a Vinegia e da molti partigiani suoi che proponevano vari partiti, si risolverono preparare tante forze che paressino bastanti a soccorrere il castello, per usarle subito che di Francia si fusse avuta la conclusione della lega; e intratanto dare speranza al popolo di Milano, e fomentare varie pratiche proposte loro nelle terre di quello stato. Però unitamente conchiuseno che i viniziani spignessino a’ confini loro, verso il fiume dell’Adda, il duca d’Urbino con le loro genti d’arme e seimila fanti italiani; e il pontefice mandasse a Piacenza il conte Guido Rangone con seimila fanti. E perché e’ pareva necessario avere uno grosso numero di svizzeri (anzi il duca di Urbino faceva intendere a’ viniziani essere necessario a conseguire totalmente la vittoria avere dodicimila svizzeri), e il pontefice e i viniziani, per non si scoprire tanto contro a Cesare insino non avessino certezza che la lega fusse fatta, non volevano mandare in Elvezia uomini loro a levargli, fu udito Gianiacopo de’ Medici milanese; il quale, mandato dal duca di Milano (per essere intervenuto allo omicidio di Monsignorino Visconte) castellano della rocca di Mus, conosciuta l’occasione de’ tempi e la fortezza del luogo, se ne era fatto padrone. Il quale, facendo intendere che molti mesi innanzi aveva tenute pratiche con vari capitani svizzeri per questo effetto, offerse di fare muovere, subito che gli fussino mandati seimila ducati, seimila svizzeri, non soldati per decreto de’ cantoni ma particolarmente; a’ quali come fussino scesi nel ducato di Milano s’avesse a dare il compimento della paga. E, come accade nelle imprese che da uno canto sono reputate facili dall’altro sono sollecitate dalla strettezza del tempo, non solo l’offerta di costui, essendo massime approvata dai ministri del duca di Milano e da Ennio vescovo di Veroli, al quale il pontefice prestava fede nelle cose de’ svizzeri per averle in nome della Chiesa trattate lungamente, e però era stato per suo ordine molti mesi a Brescia, e allora stava appresso al proveditore viniziano, donde continuamente trattava con molti di quella nazione, fu senza pensare piú innanzi accettata dal papa e da’ viniziani; ma ancora fu udito in Vinegia Ottaviano Sforza vescovo di Lodi che offeriva di levarne facilmente numero grande, e da loro, subito, senza consultarne altrimenti col pontefice, spedito in Elvezia per soldarne altri seimila, nel modo medesimo e co’ medesimi pagamenti. Dalle quali cose male intese nacque, come di sotto si dirá, principio grande di mettere in disordine la impresa che con tanta speranza si cominciava.