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Capitolo quarto
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IV
Era intratanto arrivato a Milano don Ugo di Moncada; il quale, benché la lega stipulata fusse ancora occulta al viceré e a lui, nondimeno, diffidando per le risposte del re che le cose si potessino piú ridurre alla sodisfazione di Cesare aveva seguitato il suo cammino in Italia: dove, menato seco nel castello il protonotario Caracciolo, fatta al duca ampia fede della benignitá di Cesare, lo tentò che si rimettesse alla volontá sua. Ma rispondendo il duca che, per le ingiurie fattegli dai suoi capitani, era stato necessitato a ricorrere agli aiuti del pontefice e de’ viniziani, senza partecipazione de’ quali non era conveniente disponesse di se medesimo, gli dette don Ugo speranza la intenzione di Cesare essere che le imputazioni che egli erano date si vedessino sommariamente per il protonotario Caracciolo, prelato confidentissimo a lui; accennando farsi questo piú presto per restituirgli lo stato con maggiore conservazione della riputazione di Cesare che per altra cagione, e che parlato che avesse col pontefice darebbe perfezione a queste cose: e nondimeno non consentí che prima si levasse l’assedio, e si promettesse di non innovare cosa alcuna, come il duca faceva instanza. Credettesi, e cosí divulgò poi la fama, che le facoltá date da Cesare a don Ugo fussino molto ampie, non solo di convenire col pontefice con la reintegrazione del duca di Milano ma eziandio di convenire col duca solo, assicurandosi che, restituito nello stato, non nocesse alle cose di Cesare; ma non commesso cosí se non con limitazione di quello che consigliassino i tempi e la necessitá; e che don Ugo, considerando in che estremitá fusse ridotto il castello, e che la concordia col duca non giovava alle cose di Cesare se non quanto fusse mezzo a stabilire la concordia col pontefice e co’ viniziani, giudicasse inutile il comporre con lui solo. Feciono dipoi don Ugo e il protonotario condurre a Moncia il Morone, che era prigione nella rocca di Trezo piú presto perché il protonotario pigliasse informazione da lui, avendo a essere giudice della causa, che per altra cagione.
Da Milano andò da poi don Ugo a Roma, avendo prima scritto a Vinegia che mandassino autoritá sufficiente allo oratore loro di Roma per potere trattare le cose occorrenti: dove arrivato si presentò insieme col duca di Sessa innanzi al pontefice, proponendogli con parole magnifiche essere in potestá sua accettare la pace o la guerra; perché Cesare, ancora che per la sua buona mente avesse inclinazione piú alla pace, era nondimeno e con l’animo e con le forze parato e a l’una e a l’altra. A che avendogli risposto il pontefice generalmente, dolendosi però che i mali termini usati seco dai suoi ministri e la tarditá della venuta sua fussino cagione che, dove prima era libero di se medesimo, si trovasse ora obligato ad altri, ritornati a lui il dí seguente, gli esposeno la intenzione di Cesare essere: lasciare libero il ducato di Milano a Francesco Sforza, deponendosi però il castello in mano del protonotario Caracciolo insino a tanto che, per onore di Cesare, avesse conosciuto la causa, non sostanzialmente, ma per apparenza e cerimonia; terminare con modo onesto le differenze sue co’ viniziani; levare lo esercito di Lombardia co’ pagamenti altre volte ragionati; né, in contracambio di queste cose, ricercare altro da lui se non che non si intromettesse tra Cesare e il re di Francia. A questa proposta rispose il pontefice: credere che e’ fusse noto a tutto il mondo quanto avesse sempre desiderato di conservare l’amicizia con Cesare, né avere mai ricercatolo di maggiori cose di quelle che spontaneamente gli offeriva; le quali, desiderando lui piú il bene comune che lo interesse proprio, non potevano essere piú secondo la sua sodisfazione: continuare e ora nel medesimo proposito, ancora che gli fussino state date molte cagioni di alterarlo; e nondimeno udire al presente con maggiore molestia d’animo che le gli fussino concedute che non aveva udito quando gli erano state denegate, perché non era piú in potestá sua, come era stato prima, di accettarle: il che non essere proceduto per colpa sua ma per l’avere Cesare tardato tanto a risolversene: la quale [tarditá] aveva causato che, non gli essendo mai stata porta speranza alcuna di assicurare le cose comuni d’Italia, e in questo mezzo [vedendo] consumarsi il castello di Milano, era stato necessitato, per la salute sua e degli altri, confederarsi col re di Francia; senza il quale, non volendo mancare alla osservanza della fede, non poteva piú determinare cosa alcuna. Nella quale risposta avendo, non ostante molte replicazioni in contrario, perseverato costantemente, don Ugo, poiché gli ebbe parlato piú volte invano, malcontento, ed egli e i capitani imperiali, che, esclusa la speranza della pace, le cose tendessino a manifesta guerra, la quale, per la potenza della lega e per le condizioni disordinate che avevano, riputavano molto difficile il sostenere, [se ne andò nelle terre dei Colonnesi].
Furono dal luogotenente del pontefice intercette lettere che Antonio de Leva scriveva al duca di Sessa, avvisandolo della mala disposizione del popolo di Milano, e che la cosa non teneva altro rimedio che l’aiuto di Dio; e lettere di lui medesimo e del marchese del Guasto scritte a don Ugo dopo la partita sua da Milano, dove lo sollecitavano della pratica dello accordo, facendo instanza che e’ gli avvisasse subito del seguito, con ricordargli il pericolo loro e dello esercito di Cesare.
Ma non era giá tanta confidenza negli animi di chi aveva a disporre delle forze della lega quanto era il timore de’ capitani imperiali. Perché il duca di Urbino, nel quale aveva in fatto a consistere il governo degli eserciti, per il titolo di capitano generale che aveva delle genti viniziane, e per non vi essere uomo eguale a lui di stato, di autoritá e di reputazione, stimando forse piú che non era giusto la virtú delle genti spagnuole e tedesche e diffidando smisuratamente de’ soldati italiani, aveva fisso nello animo di non passare il fiume della Adda se con l’esercito non erano almanco cinquemila svizzeri; anzi dubitando che, se solamente con le genti de’ viniziani passava il fiume dell’Oglio, gli imperiali passassino Adda e andassino ad assaltarlo, faceva instanza che lo esercito ecclesiastico, che giá era a Piacenza, passato il Po sotto Cremona, si andasse a unire con quello de’ viniziani, per accostarsi poi a Adda e aspettare in su le rive di quel fiume e in alloggiamento forte la venuta de’ svizzeri. La quale, oltre alla natura loro, aveva riscontrato in molte difficoltá, essendo stata data imprudentemente al castellano di Mus e al vescovo di Lodi la cura del condurli: perché la vanitá del vescovo di Lodi era poco efficace a questo maneggio, e il castellano era intento principalmente a fraudare una parte de’ danari mandatigli per pagarne i svizzeri; né avevano, l’uno o l’altro di loro, tanta autoritá appresso a quella nazione che fusse bastante a farne levare, massime con sí piccola quantitá di danari, numero sí grande, cosí presto come sarebbe stato di bisogno; e questa anche si corrompeva per la emulazione nata tra loro, intenti piú ad ambizione e a gli interessi particolari che ad altro. Aggiunsono anche qualche difficoltá gli agenti che erano per il re di Francia nelle leghe di Elvezia, perché non avevano notizia quale fusse sopra questa cosa la mente del re né se era contraria o conforme alla sua intenzione; perché, non per inavvertenza ma studiosamente, per quegli consigli che spesso parendo molto prudenti riescono troppo acuti, si era pretermesso di dare notizia al re di questa espedizione. Perché Alberto Pio, oratore regio appresso al pontefice, aveva dimostrato essere pericolo che se il re intendesse, innanzi alla conclusione della lega, l’ordine dato di soldare i svizzeri non andasse piú tardo a conchiuderla, parendogli giá a ogni modo che senza lui fusse cominciata dal pontefice e da’ viniziani la guerra con Cesare. Cosí ritardandosi la venuta de’ svizzeri si ritardava il piú principale e il piú potente de’ fondamenti disegnati per soccorrere il castello di Milano, non ostante che il vescovo e il castellano della venuta loro prestissima dessino quotidianamente certa e presentissima speranza.
Ma i capitani cesarei, poi che veddeno prepararsi scopertamente la guerra, per non avere in uno tempo medesimo a combattere con gli inimici di dentro e di fuora, [deliberorono] di assicurarsi del popolo di Milano; il quale diventando ogni dí piú insolente non solo negava loro tutte le provisioni dimandavano, ma eziandio se alcuno de’ soldati spagnuoli fusse trovato per la cittá separato dagli altri era ammazzato da i milanesi. Captata adunque occasione dai disordini che si facevano per la terra, dimandorno che alcuni capitani del popolo si uscissino di Milano; donde nata sollevazione furono alcuni spagnuoli che andavano per Milano ammazzati da certi popolari: e però Antonio de Leva e il marchese, fatto tacitamente accostare le genti a Milano, protestato non essere piú obligati agli accordi fatti a’ dí passati, il dí decimosettimo di giugno fatto ammazzare in loro presenza, per dare principio al tumulto, uno della plebe che non aveva fatto loro reverenza, e dopo lui tre altri, e usciti degli alloggiamenti con una squadra di fanti tedeschi, detteno cagione al popolo di dare all’armi. Il quale, se bene nel principio sforzò la corte vecchia e il campanile del vescovado dove era guardia di fanti italiani, combattendo alla fine senza ordine, come fanno i popoli imperiti, piú con le grida che con l’armi, ed essendo offesi molto dagli scoppiettieri, posti ne’ luoghi eminenti che prima avevano occupati, ne erano feriti e ammazzati molti di loro: in modo che, crescendo continuamente i disordini e il terrore, e avendo i fanti tedeschi cominciato a mettere fuoco nelle case vicine, e giá approssimandosi alla cittá le fanterie spagnuole chiamate da capitani, il popolo, temendo degli estremi mali, convenne che i suoi capitani e molti altri de’ popolari, i quali vi consentirono, si partissino di Milano, e che la moltitudine deponesse l’armi sottomettendosi alla obbedienza de’ capitani. I quali accelerorono di fare cessare con queste condizioni il tumulto innanzi che i fanti spagnuoli entrassino dentro, dubitando che, se entravano mentre che l’una e l’altra parte era in su l’armi, non fusse in potestá loro di raffrenare l’impeto militare che la non andasse a sacco: dalla quale cosa aveano l’animo alieno, e per timore che lo esercito arricchito di sí grossa preda non si dissolvesse o diminuisse notabilmente, come perché, considerando la carestia de’ danari e l’altre difficoltá che arebbeno nella guerra, giudicavano essere piú utile conservare quella cittá, per potervi lungamente dentro pascere lo esercito, che consumare in uno giorno tutto il nervo e lo spirito che aveva.