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Capitolo nono
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IX
Andavansi in questo tempo consumando tanto le vettovaglie del castello che giá gli assediati si appropinquavano alla necessitá della dedizione; la quale desiderando di allungare quanto potevano, perché erano da alcuni capi dello esercito de’ collegati nutriti con speranza di soccorso, la notte venendo il decimo settimo dí di luglio, messeno fuora per la porta del castello, di verso le trincee che lo serravano di fuora, piú di trecento tra fanti donne e fanciulli e bocche disutili: allo strepito delle quali benché dalla guardia degli inimici fusse dato all’arme, nondimeno, non essendo fatta loro altra opposizione, ed essendo le trincee sí strette che con l’aiuto delle picche si potevano passare, le passorono tutte salve. Erano due trincee lontane due tiri di mano dal castello, e tra l’una e l’altra uno riparo di altezza circa quattro braccia: il quale riparo, cosí come faceva guardia contro al castello, dava sicurtá a chi dal canto di fuora avesse assaltato le trincee. I quali usciti del castello, andati a Marignano dove era l’esercito, e fatto fede della estremitá grande in che si trovavano gli assediati e della debolezza delle trincee, poiché insino alle donne e fanciulli le avevano passate, costrinseno i capitani a ritornare per fare pruova di soccorrerlo; consentendo il duca di Urbino, per non ricevere in sé solo questa infamia, di escusazione non tanto facile quanto prima, perché, essendo nello esercito piú di cinquemila svizzeri, non militava piú la causa principale che aveva allegata, di essere pericoloso l’accostarsi senza altri fanti [che] italiani a Milano. Perciò fu determinato nel consiglio, unitamente, che lo esercito non piú da altra parte ma dirittamente si accostasse al castello e che, preso, le chiese di San Gregorio e di Santo Angelo vicine a’ rifossi, alloggiasse sotto Milano. Con la quale deliberazione partiti da Marignano si condusseno in quattro dí, per cammino difficile a camminare per la fortezza delle fosse e degli argini, il vigesimo secondo dí di luglio tra la badia di Casaretto e il fiume del Lambro, in luogo detto volgarmente l’Ambra; nel quale luogo il duca, variando quel che prima era stato deliberato nel consiglio, volle che si facesse l’alloggiamento, ponendo la fronte dello esercito alla badia a Casaretto vicina manco di due miglia a Milano, col fiume del Lambro alle spalle, e distendendosi da mano destra insino al navilio, dalla sinistra insino al ponte: in modo che si poteva dire alloggiato tra porta Renza e porta Tosa, perché teneva poco di porta Nuova e, per questi rispetti e per la natura del paese, alloggiamento molto forte. E allegava il duca d’avere fatto mutazione da questo alloggiamento a quello de’ monasteri per la vicinitá del castello, per non essere tanto sotto le mura che fusse necessitato a mettersi in pericolo e privato della facoltá di voltarsi dove gli paresse, e perché il minacciargli da piú parti gli necessitava a fare in piú luoghi guardie grandi; donde, rispetto al numero delle genti che avevano, si augumentavano le loro difficoltá.
Condotto in questo alloggiamento l’esercito (del quale una piccola parte, mandata il dí medesimo alla terra di Moncia, la ottenne per accordo, e il dí seguente espugnò con l’artiglierie la fortezza nella quale erano cento fanti napoletani), si ristrinseno i consigli di quello fusse da fare per metter vettovaglie nel castello di Milano, ridotto come si intendeva in estrema necessitá; con intenzione di farne uscire Francesco Sforza. E benché molti de’ capitani, o perché veramente cosí sentissino o per dimostrarsi animosi e feroci in quelle cose che si avevano a determinare con piú pericolo dello onore e della estimazione di altri che sua, consigliassino che si assaltassino le trincee, nondimeno il duca di Urbino il quale giudicava fusse cosa pericolosissima, non contradicendo apertamente ma proponendo difficoltá e mettendo tempo in mezzo, impediva il farne conclusione: donde essendo rimessa la deliberazione al dí prossimo, i capitani svizzeri dimandorono di essere introdotti nel consiglio, nel quale ordinariamente non intervenivano. Le parole fece per loro il castellano di Mus, che avendone condotto la maggiore parte riteneva titolo di capitano generale tra loro. Il quale, avendo esposto che i capitani svizzeri si maravigliavano che, essendosi cominciata questa guerra per soccorrere il castello di Milano e trovandosi le cose in tanta necessitá, si stesse, dove era bisogno di animo e di esecuzione, a consumare il tempo vanamente in disputare se era da soccorrere o no, [disse] non potere credere non si facesse deliberazione opportuna alla salute comune e all’onore di tanti capitani e di tanto esercito; nel quale caso essi fare intendere che riceverebbeno per grandissima vergogna e ingiuria se, nello accostarsi al castello, non fusse dato loro quello luogo della fatica e del pericolo che meritava la fede e l’onore della nazione degli elvezi; né volere mancare di ricordare che, nel pigliare questa deliberazione, non avessino tanto memoria di quegli che avevano perduto con ignominia le imprese cominciate, che si dimenticassino la gloria e la fortuna di coloro che avevano vinto.
Nelle quali consulte mentre che il tempo si consuma, conoscendosi chiaramente per tutti la intenzione del duca aliena dal soccorrere, sopravenneno nuove, benché non ancora in tutto certe, che il castello era o accordato o in procinto di accordarsi: al quale avviso il duca prestando fede, disse, presente tutto il consiglio, questa cosa, se bene perniciosa per il duca di Milano, essere desiderabile e utile per la lega; perché la liberava dal pericolo che la cupiditá o la necessitá di soccorrere il castello non inducesse quello esercito a fare qualche precipitazione, essendo stata imprudenza grande di quegli che si erano mai persuasi che e’ si potesse soccorrere; che ora, essendo liberati da questo pericolo, si aveva di nuovo a consultare, e ordinare la guerra nel medesimo modo che se fusse il primo dí del principio di essa. Ebbesi poco poi la certezza dello accordo: perché il duca di Milano, essendo ridotto il castello in tanta estremitá di vivere che appena poteva sostenersi uno giorno, e disperato totalmente del soccorso, poi che dallo esercito della lega, arrivato due dí innanzi in alloggiamento sí vicino, non vedeva farsi movimento alcuno, continuate le pratiche che giá piú dí, per trovarsi preparato a questo caso, aveva tenute col duca di Borbone (il quale, ritirato che fu l’esercito, aveva mandato in castello a visitarlo), conchiuse lo accordo il vigesimoquarto dí di luglio. Nel quale si contenne: che senza pregiudizio delle sue ragioni desse il castello di Milano a’ capitani, riceventilo in nome di Cesare, avuta facoltá da loro di uscirne salvo insieme con tutti quegli che erano nel castello; e gli fusse lecito fermarsi a Como, deputatogli per stanza, col suo governo ed entrate, insino a tanto che si intendesse sopra le cose sue la deliberazione di Cesare; aggiugnendogli tante altre entrate che a ragione di anno ascendessino in tutto a trentamila ducati: dessigli salvocondotto per potere personalmente andare a Cesare; e si obligorono pagare i soldati che erano nel castello di quel che si doveva loro per gli stipendi corsi insino a quel dí, che si dicevano ascendere a ventimila ducati: dessinsi in mano del protonotario Caracciolo, Giannangiolo Riccio e il Poliziano, perché gli potesse esaminare; avuta la fede da lui di rilasciargli poi e fargli condurre in luogo sicuro: liberasse il duca di Milano il vescovo di Alessandria, che era prigione nel castello di Cremona; e a Sforzino fusse dato Castelnuovo di Tortonese. Non si parlò in questa convenzione cosa alcuna del castello di Cremona; il quale il duca, non potendo piú resistere alla fame, aveva commesso a Iacopo Filippo Sacco mandato da lui al duca di Borbone che, non potendo ottenere l’accordo altrimenti, lo promettesse loro. Ma egli accorgendosi, per le parole e modi del loro maneggio, del desiderio grande che avevano di convenire, mostrando il duca non essere mai per cedere questo, ottenne non se ne parlasse: perché i capitani imperiali, ancora che per molte congetture comprendessino non essere nel castello molte vettovaglie, e che la necessitá presto era per fargli ottenere lo intento loro, nondimeno, desiderosi di assicurarsene, avevano deliberato di accettarlo con ogni condizione, non essendo certi che lo esercito della lega appropinquatosi non tentasse di soccorrerlo; nel quale caso, non confidando del potersi bene difendere le trincee, erano risoluti di uscire in su la campagna a combattere: il quale evento dubbio della fortuna fuggirono volentieri con accettare dal duca quello che potessino avere. Il quale, uscito il dí seguente del castello e accompagnato da molti di loro insino alle sbarre dello esercito, poiché vi fu dimorato uno dí, si indirizzò al cammino di Como; ma allegando, gli imperiali avergli promesso di dargli la stanza sicura in Como ma non giá di levarne le genti che vi avevano a guardia, non volendo piú fidarsi di loro, se bene prima avesse deliberato non fare cosa che potesse irritare piú l’animo di Cesare, se ne andò a Lodi: la quale cittá fu dai confederati liberamente rimessa in sua mano. Né gli essendo stato de’ capitoli fatti osservata cosa alcuna, eccetto che lo avere lasciato partire salvi egli con tutti i suoi e con le robe loro, ratificò per instrumento publico la lega fatta dal pontefice e dai viniziani in nome suo.
Ma in questo tempo medesimo il pontefice, benché per i movimenti de’ Colonnesi avesse publicato il monitorio contro al cardinale e contro agli altri della famiglia della Colonna, nondimeno, vedendo molto diminuita la speranza di mutare il governo di Siena, ed essendogli molesto avere travagli nel territorio di Roma, prestò cupidamente orecchi a don Ugo di Moncada; il quale, non con animo di convenire ma per renderlo piú negligente alle provisioni, proponeva che sotto certe condizioni si rimovessino le offese contro a’ sanesi e tra i Colonnesi e lui: a trattare le quali cose essendo venuto a Roma Vespasiano Colonna, uomo confidente al pontefice, fu cagione che il pontefice, il quale perduta in tutto la speranza di felice successo intorno a Siena trattava di fare levare dalle mura l’esercito, differí l’esecuzione di questo consiglio salutifero, aspettando, per minore ignominia, di farlo partire subito che fusse conchiuso questo accordo; e nondimeno moltiplicando continuamente i disordini e le confusioni di quello esercito, fu deliberato in Firenze di farlo ritirare. Accadde che il dí precedente a quello che era destinato a partirsi, essendo usciti della cittá quattrocento fanti verso l’artiglieria alla quale era a guardia Iacopo Corso, egli, subito, con la sua compagnia voltò le spalle; e levato il romore e cominciata la fuga, tutto il resto dello esercito nel quale non era né ubbidienza né ordine, non avendo chi gli seguitasse né chi gli assaltasse, si messe da se medesimo in fuga, facendo a gara i capitani i commissari i soldati a cavallo e i fanti, ciascuno, di levarsi piú presto dal pericolo, lasciate agli inimici le vettovaglie i carriaggi e l’artiglierie; delle quali dieci pezzi, tra grossi e piccoli, de’ fiorentini e sette de’ perugini furono condotti con grandissima esultazione e quasi trionfando in Siena: rinnovandosi con clamori grandi di quello popolo la ignominia delle artiglierie le quali, grandissimo tempo innanzi perdute da i fiorentini pure alle mura di Siena, si conservavano ancora in sulla piazza publica di quella cittá. Ricevettesi questa rotta il dí seguente nel quale in potestá de’ capitani cesarei pervenne il castello di Milano. E ne’ medesimi dí il pontefice, acciò che alle afflizioni particolari si aggiugnessino le calamitá della republica cristiana, ebbe avvisi di Ungheria, Solimanno ottomanno, il quale si era mosso di Costantinopoli con potentissimo esercito per andare ad assaltare quel reame, poiché aveva passato il fiume del Savo senza contrasto (perché pochi anni innanzi aveva espugnato Belgrado), avere ora espugnato il castello, credo, di Pietro Varadino passato il fiume della Drava: donde, non gli ostando né monti né impedimenti de’ fiumi, si conosceva tutta l’Ungheria essere in manifestissimo pericolo.