< Storia d'Italia < Libro XVII
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VI

Arrivo del duca di Borbone con milizie spagnuole in Milano. L’esercito veneto—pontificio sotto Milano; scaramuccie coi nemici. Improvvisa deliberazione del duca d’Urbino di scostarsi da Milano. Meraviglia generale per la ritirata dei collegati.

Ma la notte precedente al dí nel quale doveva farsi innanzi l’esercito, il duca di Borbone, il quale pochi dí innanzi era arrivato a Genova con sei galee e con lettere di mercatanti per centomila ducati, entrò con circa ottocento o... fanti spagnuoli, quali aveva condotti seco, in Milano; sollecitatone molto dal marchese del Guasto e da Antonio de Leva: dalla venuta del quale i soldati pigliorono molto animo. E per la medesima si potette comprendere la negligenza o la fredda disposizione, studiosamente, del re di Francia alla guerra. Perché avendo il pontefice, nel principio quando condusse agli stipendi suoi Andrea Doria, consultato seco con che forze e apparati si dovessino tentare le cose di Genova, propose molta facilitá tentandola in tempo che giá fusse cominciata la guerra nel ducato di Milano, e che con le sue otto galee si congiugnessino le galee le quali il re di Francia aveva nel porto di Marsilia, o che almanco impedissino la venuta, con le galee, del duca di Borbone; perché, restando in tale caso con le sue otto galee signore del mare, non poteva la cittá di Genova stare molti dí col mare serrato per le mercatanzie, per gli esercizi e per le vettovaglie: e benché il re promettesse che impedirebbe la venuta del duca di Borbone furono parole vane, perché l’armata sua non era in ordine, e i capitani delle galee, parte per carestia di danari parte per negligenza e forse per volontá, erano stati espediti tardi de’ pagamenti; come poi anche succedette delle genti d’arme.

Ma essendo incognita di fuori la venuta del duca di Borbone, la deliberazione dello andare innanzi con l’esercito fu pervertita dal duca di Urbino, o per avvisi ricevuti, secondo si credette, da Milano o per relazione di qualche esploratore. Mutata la diffidenza avuta insino a quel dí [in speranza] non minore, affermò al luogotenente del pontefice, presente il proveditore veneto, tenere per certo che il dí seguente sarebbe felicissimo; perché se gli inimici uscivano a combattere (il che non credeva dovessino fare) indubitatamente sarebbono vinti, ma non uscendo, che certamente, o il dí medesimo abbandonerebbono Milano ritirandosi in Pavia o almanco, abbandonata la difesa de’ borghi, si ridurrebbono nella cittá; la quale, perduti i borghi, non potrebbono totalmente difendere: e ciascuna di queste tre cose bastare a conseguire la vittoria della guerra. Però il dí seguente, che fu il settimo di luglio, lasciato lo alloggiamento disegnato il dí dinanzi, con speranza di guadagnare i borghi senza contrasto, e aspirando alla gloria d’avergli presi camminando d’assalto, spinse qualche banda di scoppiettieri a porta Romana e a porta Tosa; dove, non ostante gli avvisi avuti i dí precedenti e il dí medesimo del volersi partire, gli spagnuoli si erano fermi in quella parte de’ borghi, non per fare quivi, secondo si disse, continua resistenza ma per ritirarsi in Milano piú presto come uomini militari, e con avere mostrato il volto agli inimici, che volere che e’ trovassino i borghi vilmente abbandonati. Dalla quale resistenza non solo si conservava piú la riputazione del loro esercito, essendo massime in facoltá sua ritirarsi sempre nella cittá senza disordine, ma eziandio poteva nascere loro occasione da pigliare animo a perseverare nella difesa de’ borghi; il che era di grandissima importanza, perché il ritirarsi nella cittá era partito piú presto necessario che da eleggere spontaneamente, e per l’altre ragioni e perché, riducendosi dentro a circuito sí stretto, era piú facile impedire che vettovaglie non entrassino in Milano; senza le quali non potevano, per non essere ancora condotte le biade nuove, sostenersi lungamente. Appresentatosi adunque [con] gli scoppiettieri alle due porte, dove gli spagnuoli oltre al difendersi non cessavano continuamente di lavorare, il duca, trovata, fuora dell’opinione che aveva avuta, la resistenza, fece accostare a uno tiro di balestro a porta Romana tre cannoni, quali piantati bravamente cominciò a battere la porta e fare pruova di fare levare uno falconetto, il quale fu levato; fece smontare molti de’ suoi per dare l’assalto, e ordinò si accostassino le scale: nondimeno, non continuando nel proposito di dare l’assalto, si ridusse la fazione in scaramuccie leggiere di scoppietti e di archibusi a’ ripari; dove, avendo quelli di dentro vantaggio grande rispetto al sito, furno morti di quegli di fuora circa quaranta fanti e feritine molti. La porta era stata battuta [con] molti colpi ma con poco danno per essere i cannoni lontani: ma dicendo essere l’ora tarda ad alloggiare il campo non dette l’assalto, e alloggiò lo esercito nel luogo medesimo, benché, per la brevitá del tempo, con qualche confusione; lasciò a’ tre cannoni buona guardia, e il resto del campo alloggiò quasi tutto a mano destra della strada; sperando ciascuno molto della vittoria, perché, per avvisi di molti e per relazione di prigioni presi da Giovanni di Naldo soldato de’ viniziani, si aveva nuove gl’imperiali, caricate molte bagaglie, essere piú presto in moto di partirsi che altrimenti; e a tempo arrivorno in campo la sera medesima cannoni de’ viniziani.

Ma si variò poco poi non solo la speranza ma tutto lo stato della cosa. Perché essendo, quasi in su il principio della notte, usciti fuora alcuni fanti spagnuoli ad assaltare l’artiglieria, furno rimessi dentro da’ fanti italiani che erano a guardia di quella: ancora che il duca d’Urbino dicesse che erano stati messi in disordine. Il quale, passate giá poche ore della notte, trovandosi ingannato dalla speranza conceputa che alle porte e a’ ripari de’ borghi gli fusse stata fatta resistenza, e ritornandogli in considerazione il timore che prima aveva della fanteria degli inimici, fece precipitosamente deliberazione di discostarsi con lo esercito; e cominciatala subito a mettere in esecuzione col dare principio a fare partire l’artiglierie e le munizioni, e comandato alle genti viniziane che si ordinassino per partirsi, mandò per il proveditore a significare al luogotenente e ai capitani ecclesiastici la deliberazione che aveva fatta; confortandogli a fare anche essi, senza dilazione, il medesimo. Alla quale voce, come di cosa non solo nuova ma contraria alla espettazione di ciascuno, confusi e quasi attoniti, andorono a trovarlo, per intendere piú particolarmente i suoi pensieri e fare pruova di indurlo a non si partire. Il quale, con parole molto determinate e risolute, si lamentò che contro al parere suo, solamente per sodisfare ad altri, si fusse tanto accostato a Milano, ma che era piú prudenza ricorreggere l’errore fatto che perseverarvi dentro; conoscere che, per non essere stato per la brevitá del tempo alloggiato il dí dinanzi ordinatamente, e per la viltá de’ fanti italiani dimostratasi la sera medesima allo assalto delle artiglierie, che il dimorare l’esercito quivi insino alla luce prossima sarebbe la distruzione non solo della impresa ma di tutto lo stato della lega; perché era sí certo vi sarebbeno rotti che, non ci avendo una minima dubitazione, non voleva disputarla con alcuno; con ciò sia che gl’imperiali avevano la sera medesima piantato uno sagro tra porta Romana e porta Tosa, che batteva per fianco lo alloggiamento pericolosissimo de’ fanti de’ viniziani, e che la notte medesima ne pianterebbono degli altri, e come fusse il giorno, fatto dare all’arme, e necessitato l’esercito a mettersi in ordinanza, lo batterebbeno per fianco, e cosí disordinatolo, usciti fuora ad assaltarlo, lo romperebbeno con grandissima facilitá: dolergli che la brevitá del tempo, e lo essere nell’esercito suo molto maggiori impedimenti di artiglierie e di munizioni che nello esercito ecclesiastico, l’avesse costretto a cominciare prima a levarsi che a comunicarlo con loro; ma ne’ partiti che si pigliano per necessitá essere superfluo il fare escusazione: avere fatto maggiore esperienza che avesse fatto mai capitano alcuno, essendosi messo di cammino a dare lo assalto a Milano; bisognare ora usare la prudenza, né disperare, per la ritirata, della vittoria della impresa: essersi Prospero Colonna, e con forse manco giuste cagioni, levato da Parma giá mezza presa; e nondimeno avere poco poi gloriosamente acquistato tutto il ducato di Milano: confortare gli ecclesiastici a seguitare la sua deliberazione, né differire il levarsi; perché replicava loro di nuovo che, trovandogli il sole in quello alloggiamento, resterebbeno rotti senza rimedio; e che però ciascuno ritornasse allo alloggiamento di San Martino. Rispose il luogotenente che, benché ciascuno pensasse le deliberazioni sue essere fatte con somma prudenza, nondimeno che nessuno di quegli capitani conosceva cagione che necessitasse a levarsi con tanta prestezza; e ridurgli in memoria quel che, veduta la ritirata loro, farebbe il duca di Milano disperato di essere soccorso; quanto animo perderebbeno il pontefice e i viniziani, e le imaginazioni che per la declinazione delle imprese, massime ne’ princípi, sogliono nascere nelle menti de’ príncipi; potersi, se lo alloggiamento fatto disordinatamente era causa di tanto pericolo, rimediarvi facilmente, senza tôrre tanta riputazione a quello esercito, con lo alloggiarlo di nuovo con migliore ordine e con discostarlo tanto che bastasse ad assicurarlo da’ sagri piantati dagli inimici. Confermò il duca di nuovo la prima conclusione; né potersi, secondo la ragione della guerra, pigliare altra deliberazione: volere assumere in sé questo carico, e che e’ si sapesse per tutto il mondo egli esserne stato autore: né essere bene consumare piú il tempo vanamente in parole, perché era necessario essersi levati innanzi alla fine della notte. Con la quale conclusione ciascuno, tornato a’ suoi alloggiamenti, attese a espedirsi e a sollecitare la partita delle genti. Delle quali quelle che erano dinanzi si levorono con tanto spavento che, partendosi quasi con dimostrazione di essere rotti, si sfilorono molti fanti e molti cavalli de’ viniziani, de’ quali alcuni non si fermorono insino fussino condotti a Lodi; e l’artiglierie de’ viniziani passorono di lá da Marignano, ma rivocate si fermorono quivi: il resto della gente, e il retroguardo massime, partí ordinato. Né volle Giovanni de’ Medici, che con la fanteria ecclesiastica era nella ultima parte dello esercito, muoversi insino a tanto non fusse bene chiaro il giorno, non gli parendo conveniente riportarne in cambio della sperata vittoria la infamia del fuggirsi di notte: il che fare non essere stato necessario dimostrò l’esperienza, perché degli imperiali non uscí alcuno fuora de’ ripari ad assaltare la coda dello esercito; anzi, avendo, come fu dí, veduto tanto tumultuosa levata, restorono pieni di somma ammirazione, non sapendo immaginarne la cagione. E accrebbe ancora la infamia di questa ritirata che, benché il duca avesse detto volere che le genti si fermassino a San Martino, nondimeno ordinò tacitamente che i maestri del campo de’ viniziani conducessino le loro a Marignano, mosso dal timore o che gli inimici non andassino ad assaltarlo allora in quello alloggiamento, o almeno, come esso medesimo confessò poi, tenendo per certo che il castello di Milano, veduto discostarsi il soccorso dimostrato (di che niuna cosa spaventa piú gli assediati), s’avesse ad arrendere (nel quale caso non arebbe avuto ardire di stare fermo a San Martino), giudicasse essere manco disonorevole ritirarsi in una sola volta che fare in sí breve spazio di tempo due ritirate: e però, non si fermando le artiglierie e le bagaglie e le prime squadre dello esercito viniziano a San Martino, camminavano verso Marignano. Di che ricercando il luogotenente di intendere dal duca la cagione, rispose che non faceva, in quanto alla sicurtá, differenza dall’uno all’altro, perché giudicava tanto sicuro dagli inimici l’alloggiamento di San Martino quanto quello di Marignano; ma essere per questo da anteporre l’alloggiamento di Marignano, perché le genti stracche dalle fazioni dei dí precedenti, non ricevendo quivi travagli dagli inimici, potrebbeno con piú comoditá riposarsi e riordinarsi. E replicandosi, quanto, nella sicurtá pari dell’uno e dell’altro alloggiamento, togliesse piú la speranza del soccorso agli assediati nel castello di Milano il ritirarsi l’esercito a Marignano che se si fermasse a San Martino, rispose, con parole concitate, non volere, mentre che aveva in mano il bastone de viniziani, lasciare usare ad altri l’autoritá sua; volere andare ad alloggiare a Marignano. In modo che l’uno e l’altro esercito, assai disonoratamente e con grandissimi gridi di tutti i soldati, potendo usare, ma per contrario, le parole di Cesare: — Veni, vidi, fugi — si condusse ad alloggiare a Marignano; con deliberazione del duca di stare fermo quivi insino a tanto che nel campo arrivassino non solo il numero di cinquemila svizzeri, a’ quali si erano ristrette le promesse del castellano di Mus e del vescovo di Lodi (che nell’ora medesima che il campo si levava era arrivato con cinquecento), ma eziandio tanti altri che facessino il numero di dodicimila; perché giudicava non si potere fare piú fondamento nel castello di Milano, non si potere o sforzare o ridurre alla necessitá di arrendersi quella cittá, per mancamento delle cose necessarie, senza due eserciti, e ciascuno da per sé sí potente che fusse bastante a difendersi da tutte le forze unite degli inimici.

Cosí si ritirorno dalle mura di Milano gli eserciti l’ottavo di luglio; commovendo molti non solo l’effetto della cosa ma eziandio la infelicitá dello augurio, perché il dí medesimo, di consentimento comune de’ collegati, si publicava a Roma a Vinegia e in Francia, con le cerimonie e solennitá consuete, la lega. E a giudizio della maggiore parte degli uomini ebbe sí poca necessitá il pigliare uno partito di tanta ignominia che molti dubitassino che il duca non fusse stato mosso da ordinazione occulta del senato viniziano, il quale, a qualche proposito incognito agli altri, desiderasse la lunghezza della guerra; altri dubitassino che il duca, ritenendo alla memoria le ingiurie ricevute da Lione e dal presente pontefice quando era cardinale, e temendo che la grandezza sua non gli mettesse in pericolo lo stato, non gli fusse o per odio o per timore grata la vittoria sí presta della guerra; massime che gli dava giusta cagione di timore dello animo del pontefice il tenere i fiorentini Santo Leo con tutto il Montefeltro, e sapere che la piccola figliuola restata di Lorenzo de’ Medici riteneva continuamente il nome di duchessa d’Urbino. Nondimeno, il luogotenente del pontefice si certificò per mezzi indubitatissimi che a’ viniziani fu molestissima la ritirata, e che non avevano cessato mai di sollecitare lo accostarsi lo esercito a Milano sperando molto nella facilitá della vittoria; e considerato non essere verisimile che il duca, se avesse sperato di ottenere Milano, avesse voluto privarsi di gloria tanto maggiore di quella che molto innanzi avesse avuto alcuno altro capitano, quanto era maggiore la fama e la riputazione dello esercito imperiale di quella che molti anni innanzi avesse avuto alcuno altro esercito in Italia (alla quale gloria seguiva dietro quasi per necessitá la sicurtá del suo stato, perché il pontefice, e per fuggire tanta infamia e per non fare tale offesa a’ viniziani, non arebbe avuto ardire di assaltarlo); e considerato anche diligentemente i progressi di tutti quegli dí, ebbe per piú verisimile (nella quale sentenza concorsono molti altri) che il duca, caduto dalla speranza la quale due giorni innanzi aveva conceputa del dovere gl’imperiali abbandonare almanco i borghi, ritornasse con tanta veemenza alla sua prima opinione (per la quale aveva temuto piú le forze loro e piú diffidatosi della virtú de’ fanti italiani che non facevano gli altri capitani) che, rappresentandosegli maggiore timore che agli altri, cadesse precipitosamente in quella deliberazione.


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