< Storia d'Italia < Libro XVII
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XI

Provvedimenti di Cesare per la guerra. Vani assalti di milizie dei collegati a Cremona. Deliberazione del duca d’Urbino di recarvisi con nuove milizie. Giudizi sfavorevoli intorno al modo con cui è stata condotta l’impresa contro Milano. Le armate veneziana, pontificia e francese dominano il mare intorno a Genova. Resa di Cremona.

Queste erano le pratiche le preparazioni e le opere de’ confederati, differite interrotte e variate, secondo le forze secondo i fini e i consigli de’ príncipi. Ma non era giá in Cesare, le deliberazioni del quale dependevano da se stesso, né negligenza né irresoluzione di quello che comportassino le forze sue. Perché avendo il re di Francia, a instanza degli oratori de’ confederati, denegato licenza al viceré (che la dimandò insino con le lacrime) di passare in Italia, egli, rifiutati doni di valore di ventimila ducati, se ne era ritornato in Spagna, portando seco (publicò lui) cedola di mano del re di Francia di essere parato all’osservanza dell’accordo di Madril, permutando la restituzione della Borgogna in pagamenti di due milioni di ducati: al ritorno del quale, Cesare, perduta ogni speranza che il re di Francia osservasse la capitolazione, deliberò mandarlo in Italia con una armata che portasse i fanti tedeschi, i quali in numero poco manco di tremila si stavano a Perpignano, e tanti altri fanti spagnuoli che in tutto facessino il numero di seimila; provedeva di mandare di nuovo a Milano centomila ducati, sollecitando la espedizione dell’armata, la quale non poteva essere sí presto perché, oltre al tempo che andava a metterla insieme e a preparare i fanti spagnuoli, era necessario pagare a’ tedeschi centomila ducati de’ quali erano creditori per gli stipendi passati; commetteva anche assiduamente in Germania che a Milano si mandasse soccorso di nuovi fanti, ma non vi provedendo a’ denari per pagargli, ed essendo il fratello per la povertá sua impotente a provedergli, procedeva molto tardi questa espedizione.

E nondimeno la tarditá e i successi poco prosperi de’ confederati facevano che si potesse aspettare ogni dilazione. Perché Malatesta, condotto a Cremona, piantò, la notte de’ sette di agosto, l’artiglierie alla porta della Mussa, giudicando quel luogo essere debole perché era male fiancheggiato e senza terrapieno; e volendo nel tempo medesimo dare lo assalto dalla banda del castello, giudicava a proposito battere in luogo lontano, perché fussino necessitati quegli di dentro a dividere tanto piú le genti loro. Nondimeno, battuto che ebbe, parendogli che quel luogo fusse forte e bene riparato, e (credo) la batteria fatta tanto alto che restava troppo eminente da terra l’altezza del muro, si risolvé di non gli dare lo assalto ma cominciare, con consiglio diverso, una batteria nuova vicina al castello, in luogo detto Santa Monica, dove giá aveva battuto Federigo da Bozzole: e nel tempo medesimo faceva due trincee in su la piazza del castello, una che tirava a mano destra verso il Po, dove quegli di dentro avevano fatto due trincee; e sperava, con la sua, tôrre loro uno bastione al quale giá si era avvicinato a sei braccia, il quale bastione quale giá si era avvicinato a sei braccia, il quale bastione era nella prima trincea loro appresso alla muraglia della terra; e pigliandolo, disegnava servirsene per cavaliere a battere a lungo della muraglia dove batterono i franzesi. Però gli imperiali facevano un altro bastione dietro all’ultima trincea loro. L’altra trincea di Malatesta era da mano sinistra verso la muraglia, e giá tanto vicina alla loro che si aggiugnevano co’ sassi. E condotto le trincee al disegno suo, determinava fare la batteria. Né lo impedivano a fare lavorare l’artiglierie degli inimici, perché in Cremona non erano piú che quattro falconetti, poca munizione, e traevano molto poco. Nondimeno i fanti di dentro non restavano, uscendo fuora, di travagliare quegli che lavoravano alle trincee, mettendogli spesso, non ostante avessino grossa guardia, in molte difficoltá: donde Malatesta, quasi incerto di quello che avesse da fare, confondeva, con non molta sua laude, con vari giudíci scritti nelle sue lettere, i capitani dello esercito. I quali, vedendo la oppugnazione riuscire continuamente piú difficile, feciono andare nel campo suo mille dugento fanti tedeschi, condotti di nuovo dai viniziani a spese comuni del pontefice e loro, sotto Michele Gusmuier rebelle di Cesare e del fratello; e pochi dí poi, per provedere alla discordia ed emulazione che era tra Malatesta e Giulio Manfrone, vi andò dallo esercito con tremila fanti il proveditore Pesero, che di somma benivolenza era giá diventato poco accetto al duca di Urbino. Ma la notte venendo i tredici dí di agosto, fece Malatesta piantare quattro pezzi di artiglieria tra la porta di santo Luca e il castello, per pigliare uno bastione; dove, essendosi battuto quasi tutto il dí, fece sboccare la trincea con speranza di pigliare la notte medesima il bastione. Ma alla quarta ora della notte, pochi fanti tedeschi assaltorno la guardia delle trincee che era, tra dentro e fuora, piú di mille fanti, e disordinati gli costrinseno ad abbandonarla (benché il dí seguente furono costretti a partirsene); in modo che la trincea, fatta con tanta fatica restò abbandonata dall’una parte e dall’altra. Ma la fortuna volle mostrarsi favorevole a quegli di fuori, se avessino saputo o conoscere o pigliare l’occasione: perché la notte, venendo i quindici, cascorono da se medesime circa cinquanta braccia di muraglia tra la porta di Santo Luca e il castello, insieme con uno pezzo della loro artiglieria; dove se con prestezza, venuto che fu il dí, si fusse presentata la battaglia erano quegli di dentro, spaventati da accidente sí improviso, senza speranza di resistere, perché il luogo dove arebbeno avuto a stare alla difesa restava scoperto dall’artiglieria del castello. Ma mentre che Malatesta tarda, prima a risolversi poi a mettere in ordine di dare lo assalto, i soldati, lavorando di dentro sollecitamente, e copertisi, la prima cosa, co’ ripari dalla artiglieria del castello, si riparorono anche alla fronte degli inimici; in modo che quando fu presentato lo assalto, che erano giá venti ore del dí, ancora che a quella banda si voltasse la maggiore parte del campo, nondimeno si accostorono, perché andavano troppo scoperti, con gravissimo danno; e accostatisi, erano, oltre all’altre difese, battuti da infiniti sassi gittati da quegli di dentro, in modo vi restò morto Giulio Manfrone il capitano Macone e molti altri soldati di condizione. Dettesi anche nel tempo medesimo un altro assalto per la via del castello, dove furno ributtati, benché con poco danno: ed era anche ordinato che alla batteria fatta da Santa Monica si desse un altro assalto, con ottanta uomini d’arme cento cavalli leggieri e mille fanti; ma, avendo trovato il fosso pieno di acqua e il luogo bene fortificato, si ritirorono senza tentare. Sopravenne poi il proveditore Pesero, con tremila fanti italiani con piú di mille svizzeri e con nuova artiglieria, per potere fare due batterie gagliarde; in modo che, trovandosi piú di ottomila fanti, disegnavano fare due batterie, dando l’assalto a ciascuna con tremila fanti, e assaltare anche dalla parte del castello con dumila fanti: e avendo condotto in campo grandissima quantitá di guastatori, lavoravano sollecitamente alle trincee; delle quali essendo spuntata una a’ ventitré di agosto, ottenneno dopo lunga battaglia di coprire uno fianco degli inimici. La notte dipoi, precedente al dí vigesimo sesto, furno fatte due batterie; una guidata da Malatesta, di lá dal luogo dove aveva battuto Federigo, l’altra alla porta della Mussa, guidata da Cammillo Orsino: l’una e l’altra delle quali ebbe poco successo; perché il terreno dove piantò Malatesta, per essere paludoso, non teneva ferma l’artiglieria, e acconsentendo, ogni volta che la tirava, i colpi battevano troppo alto; quella di Cammillo fu bassa, ma si trovò che vi era la fossa con l’acqua e tanti fianchi di archibusi che non si poteva andare innanzi. Però, ancora che non ostante queste difficoltá si desse la battaglia, si ricevé quivi molto danno; e benché dal canto di Malatesta i fanti si conducessino alla muraglia, passati una fossa dove era l’acqua dentro piú profonda che non si era inteso, furono facilmente ributtati. Fu anche dal canto del castello tirata giú una parte del cavaliere, e vi montorono su i fanti; ma la scesa dal lato di dentro era troppo alta, e avevano fatto gli imperiali da quella parte innanzi al castello tre mani di trincee con due mani di cavalieri e con fianchi, e dopo quegli ancora ripari: però da ogni banda, e da un altro canto ancora sotto uno riparo, furono ributtati gli assaltatori, che per tutto avevano assaltato con poco ordine e con piccolissimo danno degli inimici, morti e feriti molti di loro. Costrinseno questi disordini e il perdersi la speranza di pigliare altrimenti Cremona (perché in quel campo mancava governo e obbedienza) il duca di Urbino a andarvi personalmente. Il quale, levato dello esercito che era intorno a Milano quasi tutti i fanti de’ viniziani, e lasciatavi una parte delle genti d’arme con tutte le genti ecclesiastiche e i svizzeri, che erano giá arrivati in numero di tredicimila, sprezzando (ora che vi restava minore numero di gente, e spogliata di uno capo di tale autoritá) quello pericolo che prima, quando vi era egli con maggiori forze, dimostrava continuamente di temere, e affermando non essere uso di genti di guerra, e degli spagnuoli manco che degli altri, assaltare altre genti di guerra nella fortezza de’ loro alloggiamenti, si condusse intorno a Cremona; disegnando di vincerla non per forza sola di batteria e di assalti, perché i ripari degli inimici erano troppo gagliardi, ma col cercare con numero grandissimo di guastatori accostarsi alle trincee e bastioni loro, e con la forza delle zappe piú che con l’armi insignorirsene.

Fu imputato il governo di questa impresa contro allo stato di Milano dai capitani imperiali in molte cose, e principalmente della ritirata da porta Romana, ma non manco dello avere tentata da principio debolmente e con poche forze la oppugnazione di Cremona, confidandosi vanamente che fusse facile il pigliarla, e che dipoi scoprendosi le difficoltá avessino, continuandola, impegnatovi tale parte dello esercito che avesse impedito loro le occasioni maggiori che nel tempo che si consumò quivi si presentorono. Perché, essendo giá arrivato in campo il numero intero tanto desiderato de’ svizzeri, si poteva facilmente, serrando Milano (secondo che sempre si era disegnato) con due eserciti, impedire la copia grande delle vettovaglie che per la via di Pavia continuamente vi entravano; le quali l’esercito solo che era a Lambrá, per avere a fare circuito grande, non poteva impedire. Ma molto piú importò perdere l’occasione che si aveva, forse, di sforzare Milano; perché nella gente che vi era dentro erano sopravenute tante infermitá che, bastando con difficoltá quegli che erano sani a fare le fazioni e le guardie ordinarie, fu giudicio di molti, e degli imperiali medesimi, che se in quel tempo fussino stati travagliati strettamente portavano pericolo grande di non si perdere.

Ma maggiore e piú certa occasione era anche quella di pigliare Genova. Perché essendo l’armata viniziana congiunta con quella del pontefice a Civitavecchia, e di poi fermatesi nel porto di Livorno per aspettare l’armata franzese, la quale con sedici galee quattro galeoni e quattro altri navili, condotta nella riviera di ponente, aveva, per accordo anzi per volontá della cittá, ottenuta Savona e tutta la riviera di ponente, e presi dipoi piú navili carichi di grano che andavano a Genova, passò a Livorno a unirsi con l’altre. Erasi anche deliberato che, a spese comuni de’ collegati, si armassino nel porto di Marsilia dodici navi grosse, o per assaltare, secondo il consiglio di Pietro Navarra, insieme con le galee franzesi, l’armata la quale si preparava nel porto di Cartagenia, o almeno per rincontrarla nel mare. Dove fatta vela le tre armate, a’ ventinove di agosto, si fermorono l’ecclesiastica e la viniziana a Portofino, la franzese ritornò a Savona; donde senza contrasto, scorrendo tutti i mari, strignevano in modo Genova, dove era mancamento di vettovaglie, che non potendo entrarvi piú per mare cosa alcuna non è dubbio che, se si fusse mandato qualche numero di gente per la via di terra a impedire quello che era solo il loro rifugio, bisognava che Genova s’accordasse: né i capitani delle armate, ora con lettere ora con messi propri, facevano instanza di altro; chiedendo che almanco si mandassino per la via di terra quattromila fanti. Ma né del campo di Cremona si poteva levare gente, e parendo al duca e agli altri pericoloso il diminuire l’esercito che era a Milano, si intrattenevano con la speranza che, spedita Cremona, si manderebbe una banda di gente sufficiente.

La quale impresa (come era gagliarda la virtú de’ difensori, e come le opere grandi che si fanno co’ guastatori ricercano molto tempo) procedeva ogni dí con maggiore lunghezza che non era stato creduto. Perché il duca, avendo voluto avere in campo dumila guastatori, molte artiglierie e munizioni e grandissima copia di instrumenti atti a lavorare, di ogni sorte, faceva assiduamente lavorare nelle trincee del castello e al bastione di verso il Po, per guadagnarlo e servirsene per cavaliere; ancora che gli inimici, avendone dubitato piú dí, si erano tirati addietro con uno riparo gagliardo. E si lavorava ancora alle due teste della trincea che attraversava la piazza del castello, per rovinare i cavalieri che vi avevano; e tra le due trincee del campo si lavorava un’altra trincea larga sei braccia, coprendosi col terreno, innanzi e dal lato, per fare uno cavaliere, come si arrivasse alla fossa della trincea degli inimici. Lavoravasi ancora uno fosso fuora del castello verso il muro della terra, per andare a trovare il bastione di verso la muraglia rovinata; e dalla porta di Santo Luca insino alla muraglia medesima si lavorava un altra trincea, né si cessava di battere con l’artiglierie piantate nel castello i ripari degli inimici; i quali per la malignitá del terreno, che era terra molto trita, erano passati facilmente da quelle: non stando anco oziosi quegli di dentro, perché, per diffidenza di potere tenere lungamente le loro trincee e cavalieri, lavoravano uno fosso verso le case della cittá; e nondimeno uscivano spesso fuora con molto vigore, assaltando i lavori. E la notte venendo i sette, assaltorno le trincee che si lavoravano dalla banda del castello, da tre parti: dove trovato i fanti che le guardavano quasi tutti a dormire ne ammazzorono piú di cento e parecchi capitani, e si condussero insino al rivellino del castello. E nondimeno le cose loro continuamente si strignevano. Perché fattosi il duca d’Urbino la via con le trincee insino a’ ripari loro, che separavano il castello dalla cittá, assaltandogli dipoi con qualche scoppiettiere e con qualche buono soldato coperto con gli scudi, faceva loro grande danno; e l’artiglieria anche, dalle torri del castello, faceva il medesimo. Però gli imperiali abbruciorono il loro riparo che si faceva di contro al cavaliere, perché non fusse parapetto a quelli di fuora; ed essendosi, a’ diciannove, sboccate due trincee nelle fosse loro, si ritiravano con altre trincee: delle quali il duca d’Urbino teneva poco conto, perché per la brevitá del tempo non potevano essere bene fortificate e perché, ritirandosi piú al largo, era necessaria a difenderle maggiore guardia; e nondimeno dalla banda del campo, se bene le opere fussino finite, si procedeva con qualche lentezza, essendo necessario riordinare e rinnovare i fanti de’ viniziani, stati molto tempo senza danari e però diminuiti molto di numero, sopravenendo sempre nelle cose de’ collegati disordine sopra disordine. A che mentre si attendeva uscivano spesso la notte a tentare le trincee, ma indarno, perché l’esperienza della percossa ricevuta aveva insegnato agli altri. Ma ricondotti i fanti a bastanza, cominciò il duca di Urbino, a’ ventidue, a battere a una torre a canto alla batteria di Federigo; dove avendo battuto pochissimi colpi, conoscendo gli inimici essere ridotti in termine che non potevano ricusare di accordarsi, mandò dentro uno trombetto a ricercare la cittá, col quale usciti fuora uno capitano tedesco uno capitano spagnuolo e Guido Vaina, il dí seguente fu fatta capitolazione: che, non avendo soccorso per tutto il mese, avessino a lasciare Cremona, e che a’ tedeschi fusse permesso andarsene in Germania, agli spagnuoli nel regno di Napoli, promettendo non andare fra quattro mesi alla difesa dello stato di Milano; lasciassino tutte le artiglierie e munizioni, e partissinsi con le bandiere serrate senza sonare tamburi o trombe, eccetto che nel levarsi.

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