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Capitolo quattordicesimo
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XIV
Ma nel tempo medesimo che queste cose succedevano con vari eventi in Italia, gli oratori del pontefice del re di Francia e de’ viniziani intimorono il quarto dí di settembre (tanta dilazione era stata interposta a fare questo atto), a Cesare la lega fatta, e la facoltá che gli era data di entrarvi con le condizioni espresse ne’ capitoli; al quale atto essendo stato presente l’oratore del re di Inghilterra, gli dette una lettera del suo re che lo confortava modestamente a entrare nella lega. Il quale, udita la intimazione, rispose agli imbasciadori, non comportare la degnitá sua che entrasse in una confederazione fatta principalmente contro allo stato e onore suo; ma che, essendo stato sempre dispostissimo alla pace universale, di che aveva fatto dimostrazione sí evidente, si offeriva a farla di presente se essi avevano i mandati sufficienti: da che si credeva avesse l’animo alieno, ma che proponesse questa pratica per maggiore sua giustificazione, e per dare causa al re di Inghilterra di soprasedere l’entrare nella lega; raffreddare con questa speranza le provisioni de’ collegati; e indurre poi, co’ mezzi del trattarla, qualche gelosia e diffidenza tra loro. E nondimeno sollecitava da altro canto le provisioni dell’armata, che si diceva essere di quaranta navi e di seimila fanti pagati. Per sollecitare la partita della quale, che si metteva insieme nel porto tanto memorabile di Cartagenia, partí a’ ventiquattro dí di settembre dalla corte il viceré; dimostrandosi Cesare molto piú pronto e piú sollecito alle faccende che non faceva il re di Francia: il quale, ancora che stretto da interessi sí gravi, consumava la maggiore parte del tempo in piaceri di caccie di balli e di intrattenimenti di donne. I figliuoli del quale, disperata la osservanza dell’accordo, erano stati condotti a Vagliadulit. Costrinse la venuta di questa armata il pontefice, sospettoso della fede del viceré e degli spagnuoli, ad armarsi. Però non solo chiamò a Roma Vitello con la compagnia sua e de’ nipoti, ma eziandio cento uomini d’arme del marchese di Mantova e cento cavalli leggieri di Pieromaria Rosso, e dallo esercito gli furono mandati dumila svizzeri a spese sue e tremila fanti italiani; e nondimeno continuava in affermare di volere andare in Spagna ad abboccarsi con Cesare: da che lo dissuadevano quasi tutti i cardinali, massime non andando a cosa certa, e confortandolo a mandare prima legati.
Ritornato il duca d’Urbino all’esercito, e senza speranza alcuna di ottenere o con la forza dell’armi o con la fame Milano, e facendo i capitani dell’armate grandissima instanza che si mandassino genti a molestare per terra Genova, deliberò, per potere fare questo effetto, discostarsi con l’esercito dalle mura di Milano; ma disposte le cose in modo che continuamente fussino impedite le vettovaglie che andassino a quella cittá. Però dette principio alla fortificazione di Moncia, per potervi lasciare genti le quali attendessino a molestare le vettovaglie che si conducevano del monte di Brianza e di altri luoghi circostanti; e fortificata l’avesse, trasferire l’esercito in uno alloggiamento donde si impedissino le vettovaglie che continuamente vi andavano da Biagrassa e da Pavia: il quale alloggiamento come fusse fortificato, andasse verso Genova il marchese di Saluzzo co’ fanti suoi e con una banda di svizzeri. Ma essendo, o per arte o per natura del duca, tali queste deliberazioni che non si potevano mettere a esecuzione se non con lunghezza molto maggiore che non conveniva allo stato delle cose e alla necessitá nella quale era Genova, ridotta in tanta estremitá di vettovaglie che con difficoltá si poteva piú sostenere, né mancando a ottenerla altro che il dare impedimento alle vettovaglie che vi si conducevano per terra, non si conducevano le cose disegnate a effetto; non ostante che nello esercito si trovassino quattromila svizzeri, dumila grigioni, quattromila fanti del marchese di Saluzzo, quattromila pagati dal pontefice sotto Giovanni de’ Medici, e i fanti de’ viniziani; i quali secondo gli oblighi e secondo l’affermazione loro erano diecimila, ma secondo la veritá numero molto minore. Levossi finalmente lo esercito, l’ultimo dí di ottobre, dallo alloggiamento nel quale era stato lungamente, e si ridusse a Pioltello, lontano cinque miglia dal primo alloggiamento; essendosi nel levare fatto una grossa scaramuccia con quegli di Milano, co’ quali uscí Borbone in persona. Ed era la intenzione del duca soprastare a Pioltello tanto che fusse dato fine alla fortificazione di Moncia, nella quale pensava lasciare dumila fanti con alcuni cavalli, e dipoi condursi a Marignano; dove deliberato l’altro alloggiamento, e presolo e fortificato, e forse prima, secondo diceva, preso Biagrassa, mandare dipoi le genti a Genova: cose di tanta lunghezza che davano giustissima cagione o di accusarlo di timiditá o di avere sospetto di qualche fine piú importante, non ostante che egli allegasse per parte di sua scusa le male provisioni de’ viniziani; i quali non pagando i fanti a’ tempi debiti non avevano mai se non molto difettivo il numero promettevano, e partendosene, di quegli che avevano, sempre, per il soprastare delle paghe, molti, erano necessitati rimetterne di nuovo molti quando davano la paga: in modo che, come verissimamente diceva, aveva sempre una nuova milizia e uno nuovo esercito.
Ma quella dilazione, che insino a qui pareva stata volontaria, cominciò ad avere cagione e colore di necessitá. Perché, dopo molte pratiche tenute in Germania di mandare soccorso di fanti in Italia, le quali per la impotenza dello arciduca e per non avere Cesare mandatovi provisione di danari erano state vane, Giorgio Fronspergh, affezionato alle cose di Cesare e alla gloria della sua nazione, e che due volte capitano di grosse bande di fanti era stato con somma laude in Italia per Cesare contro a’ franzesi, deliberato con le facoltá private sostenere quello in che mancavano i príncipi, concitò con l’autoritá sua molti fanti e col mostrare la occasione grande di predare e di arricchirsi in Italia, che, con ricevere da lui uno scudo per uno, lo seguitassino al soccorso di Cesare; e ottenuto dallo arciduca sussidio di artiglierie e di cavalli si preparava a passare, facendo la massa di tutte le genti tra Bolzano e Marano. In Lomellina erano stati qualche mese cavalli e fanti della lega. La fama del quale apparato, penetrata in Italia, dette cagione al duca di Urbino di levare il pensiero da molestare Genova, ridotta quasi in ultima estremitá; non ostante che Andrea Doria, diminuite le dimande [fatte] prima, non facesse instanza di avere piú di mille cinquecento fanti, disegnando di farne egli altrettanti: i quali anche il duca gli negò, allegando per scusa la necessitá che aveva avuto di fare andare dallo esercito mille cinquecento fanti de’ viniziani in vicentino, per timore che i viniziani avevano che il soccorso tedesco non si dirizzasse a quel cammino; la quale opinione il duca confutava, persuadendosi farebbeno la via di Lecco. Per la quale cagione stava fermo a Pioltello, per essere piú propinquo a Adda; publicando volere andare a incontrargli e combattere con loro di lá da Adda, all’uscita di Valle di Sarsina.