< Storia d'Italia < Libro XVII
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XV

Nuovi inviati del pontefice al re di Francia; trattative con lui e col re d’Inghilterra. Milizie pontificie contro le terre dei Colonna. Vani tentativi di trattative del pontefice col duca di Ferrara. L’esercito del Frondspergh nel mantovano; deliberazioni del duca d’Urbino.

Cosí, cominciando a tornare in nuove e maggiori difficoltá le cose di Lombardia, era anche acceso nuovo fuoco in terra di Roma. Perché il pontefice, costernato di animo per lo accidente de’ Colonnesi, inclinato con l’animo alla pace, e allo andare con l’armata a Nerbona per trattarla personalmente con Cesare, aveva, subito partiti che furono gli inimici di Roma, mandato Paolo da Arezzo suo cameriere al re di Francia perché, con consentimento suo, passasse a Cesare, per la pratica della pace e per fare anche intendere al re le sue necessitá e i suoi pericoli e dimandargli centomila ducati per sua difesa. Nelle quali cose era tanto discordante da se medesimo che, volendo dal re denari e maggiore prontezza alla guerra, non solo gli negava le decime, instando di volerne per sé la metá (il che il re recusava, dicendo non si essere mai costumato nel reame di Francia), ma ancora non si risolveva a creare cardinale il gran cancelliere; il quale, per l’autoritá che aveva ne’ consigli del re, e perché per sua mano passavano tutte le espedizioni di denari, poteva essergli in tutti i suoi disegni di grandissimo momento. Non mancò il re condolersi con Paolo e con gli altri nunzi del caso di Roma, offerire le forze sue alla sua difesa, mostrargli che non poteva piú fidarsi di Cesare, dargli animo e confortarlo a non perseverare nella tregua; nel quale caso, e non altrimenti, diceva volere pagare i ventimila ducati promessi per ciascuno mese: a che anche, e a non andare a Nerbona, lo confortò il re di Inghilterra; il quale, inteso lo accidente seguito, gli mandò venticinquemila ducati. Sconfortava il re di Francia l’andata del pontefice a’ príncipi, come cosa che per la importanza sua meritava molta considerazione; e dinegò da principio che Paolo andasse a Cesare, o perché avesse sospetto che il pontefice non cominciasse con lui pratiche separate o perché, come diceva, fusse piú onorevole trattare la pace per mezzo del re di Inghilterra che parere di mendicarla da Cesare: benché, non molto poi, essendo fatta da Roma di nuovo instanza della sua andata, la consentí, o perché pure desiderava la pace o perché cominciasse a dispiacergli che la fusse trattata dal re di Inghilterra. I progressi del quale erano tali che meritamente dubitava di non essere, per gli interessi suoi propri, tirato a condizioni non convenienti: con ciò sia che quel re, anzi sotto il suo nome il cardinale eboracense, pieno di ambizione e desideroso di essere giudice del tutto, proponesse condizioni estravaganti; e avendo anche fini diversi da’ fini degli altri, si lasciasse dare parole da Cesare, [e] non avesse l’animo alieno che il ducato di Milano fusse, per mezzo della pace, del duca di Borbone, pure che a lui si congiugnesse la sorella di Cesare, acciò che a sé restasse facoltá libera di maritare la figliuola al re di Francia. I conforti adunque fatti al pontefice dall’uno e l’altro re, il dubbio di non perdere la fede co’ collegati, e privato degli appoggi loro restare in preda di Cesare e de’ suoi ministri, gli stimoli de’ consultori suoi medesimi, lo sdegno conceputo contro a’ Colonnesi e il desiderio, col farne giusta vendetta, di ricuperare in qualche parte l’onore perduto, lo indusseno a volgere contro alle terre, de’ Colonnesi quelle forze che prima solamente per sua sicurtá aveva chiamate a Roma; giudicando nessuna ragione costrignerlo a osservare quello accordo il quale aveva fatto non volontariamente ma ingannato dalle loro fraudi e sforzato, sotto la fede ricevuta, dalle loro armi.

Mandò adunque il pontefice Vitello con le genti sue a’ danni de’ Colonnesi, disegnando di abbruciare e fare spianare tutte le terre loro, perché, per l’affezione inveterata de’ popoli e della parte, il pigliarle solamente era di piccolo pregiudizio; e nel medesimo tempo publicò uno monitorio contro al cardinale e agli altri della casa, per virtú del quale privò poi (che fu il vigesimo primo dí di...) il cardinale della dignitá del cardinalato: il quale prima, volendosi difendere con la bolla della simonia, aveva in Napoli fatto publiche appellazioni e appellato al futuro concilio. Contro agli altri Colonnesi, i quali nel reame di Napoli soldavano cavalli e fanti, soprasedette la pronunziazione della sentenza. Le genti entrate nelle terre loro abbruciorono Marino e Montefortino, la fortezza del quale si teneva ancora per i Colonnesi, spianorono Gallicano e Zagarolo; non pensando i Colonnesi a difendere altro che i luoghi piú forti e specialmente la terra di Paliano, la quale terra [è] di sito forte e da potere con difficoltá condurvi l’artiglieria; né vi si poteva andare per altro che per tre vie che l’una non poteva soccorrere l’altra; e ha la muraglia grossissima, e gli uomini della terra bene disposti a difenderla: e nondimeno si credette che se Vitello con prestezza fusse andato ad assaltarla, non ostante vi fussino rifuggiti molti delle terre prese, l’arebbe ottenuta, perché non vi erano dentro soldati. Ma mentre differisce lo andarvi, secondando la natura sua, piena, nello eseguire, di difficoltá e di pericoli, entratovi dentro cinquecento fanti tra tedeschi e spagnuoli mandativi del reame di Napoli (i quali vi entrorono di notte), e dugento cavalli, la renderono in modo difficile che Vitello, che nel tempo medesimo aveva gente intorno a Grottaferrata, non ardito di tentare piú la impresa di Paliano, né anche quella di Rocca di Papa, ma mandate alcune genti a battere con l’artiglierie la rocca di Montefortino guardata da’ Colonnesi, deliberò di unire tutte le genti a Valmontone, piú per attendere alla difesa del paese, se del reame si movesse cosa alcuna, che con speranza di potere fare effetto importante: di che appresso al pontefice acquistò imputazione assai. Il quale, ne’ tempi che aveva disegno assaltare il regno di Napoli, e poi quando chiamò le genti a Roma per sua difesa, aveva desiderato che vi andassino Vitello e Giovanni de’ Medici, capitani congiunti di benivolenza e di parentado, e dell’uno de’ quali la timiditá pareva bastante a temperare e a essere temperata dalla ferocia dell’altro: ma tirando i fati Giovanni a presta morte in Lombardia, aveva, per consiglio del luogotenente, servendosi intratanto nelle cose minori di Vitello, differito a chiamarlo insino a tanto avesse cagione o di maggiore necessitá o di maggiore impresa, per non privare in questo mezzo lo esercito di Lombardia di lui, che per lo animo e virtú sua era di molto terrore agli inimici e di presidio agli amici; e tanto piú, riscaldando la venuta de’ fanti tedeschi.

La quale, congiunta agli avvisi che si avevano dello essere in procinto di partirsi del porto di Cartagenia l’armata di Spagna, costrinseno il pontefice, stimolatone molto da’ collegati e dai consiglieri suoi medesimi, a pensare a fare qualche composizione (da che sempre era stato alienissimo) col duca di Ferrara; non tanto per assicurarsi de’ movimenti suoi quanto per trarne somma grande di denari, e per indurlo a cavalcare nello esercito come capitano generale di tutta la lega. Sopra che avendo praticato molte volte con Matteo Casella faventino, oratore del duca appresso a lui, e parendogli trovarne desiderio nel duca, commesse al luogotenente suo che era a Parma che andasse a Ferrara, dandogli, in dimostrazione uno breve di mandato amplissimo ma ristrignendo la commissione, a consentire di reintegrare il duca di Modena e di Reggio, col ricevere da lui in brevi tempi dugentomila ducati, obligarlo a scoprirsi e cavalcare come capitano della lega, e che il figliuolo suo primogenito pigliasse per moglie Caterina figliuola di Lorenzo de’ Medici; trattandosi anche se vi fusse modo di dare con dote equivalente una figliuola del duca per moglie a Ippolito de’ Medici, figliuolo giá di Giuliano; e con molte altre condizioni: le quali non solo erano per se stesse quasi inestricabili, per la brevitá del tempo, ma ancora il pontefice, che non ci conscendeva se non per ultima necessitá, aveva commesso che non si facesse, senza suo nuovo avviso e commissione, la intera conclusione. La quale commissione allargò pochi dí poi, cosí nelle condizioni come nella facoltá del conchiudere, perché ebbe avviso che il viceré di Napoli era con trentadue navi arrivato nel golfo di San Firenze in Corsica, con trecento cavalli dumila cinquecento fanti tedeschi e tre in quattromila fanti spagnuoli. Ma era giá diventata vana la volontá del pontefice, perché in su l’armata medesima era uno uomo del duca di Ferrara il quale, spedito dal luogo predetto con grande diligenza, non solo significò al duca la venuta della armata ma gli portò ancora da Cesare la investitura di Modena e di Reggio, e la promissione, sotto parole del futuro, del matrimonio di Margherita di Austria, figliuola naturale di Cesare, in Ercole primogenito del duca. Per le quali cose Alfonso, che prima con grandissimo desiderio aspettava la venuta del luogotenente, mutato consiglio, parendogli anche che per l’approssimarsi i fanti tedeschi e l’armata le cose di Cesare cominciassino molto a esaltarsi, significò, per Iacopo Alvarotto padovano suo consigliere, al luogotenente (che partito il vigesimo quarto dí da Parma era giá condotto a Cento) la espedizione ricevuta di Spagna; per la quale se bene non fusse obligato a offendere né il pontefice né la lega, nondimeno, avendo ricevuto tanto beneficio da Cesare, non era conveniente trattasse piú di operargli contro; e che, essendo interrotta per quella la negoziazione per la quale andava a Ferrara, aveva voluto significargliene perché la taciturnitá sua non desse giusta cagione di sdegno al pontefice: non gli negando però ma rimettendo in lui lo andare o non andare a Ferrara. Dalla quale proposta compreso il luogotenente essere vana l’andata sua, non volendo mettervi piú senza speranza di frutto della riputazione del pontefice, richiamato anche dalla necessitá delle cose di Lombardia, si ritornò, interposti però nuovi ragionamenti di concordia in altra forma, subito a Modena: riducendosi ogni dí piú tutto lo stato della Chiesa da quella banda in maggiore pericolo. Conciossiaché Giorgio Fronspergh co’ fanti tedeschi, in numero di tredici in quattordicimila, preso il cammino per Valdisabbio e per la Rocca di Anfo, condotti verso Salò, erano giá arrivati a Castiglione dello Strivieri in mantovano. Contro a’ quali il duca d’Urbino, che pochi dí innanzi per essere spedito a andargli a incontrare aveva condotto l’esercito a Vauri sopra Adda, tra Trezzo e Cassano, e gittato quivi il ponte e fortificato lo alloggiamento, lasciatovi il marchese di Saluzzo con le genti franzesi e co’ svizzeri, grigioni e co’ suoi fanti, partí il decimonono di novembre da Vauri, conducendo seco Giovanni de’ Medici, seicento uomini d’arme molti cavalli leggieri e otto in novemila fanti; con disegno non di assaltargli direttamente alla campagna ma, infestandogli e incomodandogli delle vettovaglie (il quale modo solo diceva essere a vincere gente di tale ordinanza), condurgli in qualche disordine. Condussesi a’ ventiuno a Sonzino, donde spinse Mercurio con tutti i cavalli leggieri e una banda di uomini d’arme per infestargli, e dare tempo allo esercito di raggiugnergli; dubitando giá, per essere quel dí medesimo alloggiati alla Cavriana, di non arrivare tardi: di che, scusando la tarditá della partita sua da Vauri, trasferiva la colpa nella negligenza e avarizia del proveditore Pisani, per la quale era stato necessitato soprastare uno dí o due piú, per aspettare che in campo fussino i buoi per levare l’artiglierie; dal quale difetto diceva poi essere proceduto grandissimo disordine e quasi la rovina di tutta la impresa.


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