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Capitolo diciassettesimo
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XVII
Ma nel tempo che Lautrech andava innanzi, e che era destinato che l’armate facessino il medesimo, si opponevano a questo molte difficoltá. Perché le dodici galee viniziane che prima si erano ridotte a Livorno, avendo patito molto nella impresa di Sardigna, e per i travagli del mare e per la carestia delle vettovaglie, partirono il decimo dí di febbraio da Livorno per andare a Corfú a rifornirsi: benché i viniziani promettevano mandarne in luogo loro dodici altre, per unirsi con l’armata franzese. La quale anche aveva delle difficoltá, per quello che aveva patito e per le differenze nate tra Andrea Doria e Renzo da Ceri; per le quali, benché Renzo si fusse fermato in Pisa ammalato, si trattava che il Doria, il quale con tutte le galee aveva toccato a Livorno, andasse con le sue galee a Napoli, Renzo con l’altre franzesi, con quattro di fra Bernardino e con le quattro de’ viniziani, che tutte erano insieme, assaltasse la Sicilia: ma il Doria, con le otto sue galee e otto altre dell’armata del re di Francia, si ritirò a Genova, allegando essere necessario e alle galee e a lui concedere riposo; o perché questa fusse veramente la cagione, o perché gli interessi delle cose di Genova gli inclinassino giá l’animo a nuovi pensieri. Con ciò sia che, avendosi a Genova dimandato al re che concedesse loro che si governassino liberamente da se stessi, offerendogli per il dono della libertá dugentomila ducati, e avendolo il re recusato, si credeva che al Doria, autore o almeno confortatore che facessino queste dimande, non fusse grato che il re acquistasse la Sicilia se la libertá non si concedeva a’ genovesi. E pullulava anche un’altra causa importante di controversia: perché, avendo il re smembrato la cittá di Savona da’ genovesi, si dubitava che, voltandosi infra non molto tempo, per il favore del re e per la opportunitá del sito, a Savona la maggiore parte del commercio delle mercatanzie, e quivi facendo scala l’armate regie, quivi fabricandosi i legni per lui, Genova non si spogliasse di frequenza d’abitatori e di ricchezze: però il Doria si affaticava molto col re che Savona fusse rimessa nella antica subiezione de’ genovesi.
Ma con maggiore felicitá che le espedizioni marittime procedevano le cose di Lautrech: il quale, come fu arrivato ad Ascoli, inviò Pietro Navarra co’ suoi fanti alla volta dell’Aquila; essendosi giá, alla fama della sua venuta, arrenduti Teramo e Giulianuova. Seguitavalo, per la via della Lionessa, il marchese di Saluzzo con le sue genti; e piú addietro cento cinquanta cavalli leggieri e quattromila fanti delle bande nere de’ fiorentini, con Orazio Baglione. Avevono anche i viniziani promesso mandargli, senza la persona del duca d’Urbino, quattrocento cavalli leggieri e quattromila fanti, delle genti le quali avevano in terra di Roma; e, in supplemento delle altre con le quali erano obligati di aiutare la guerra del regno di Napoli, si erano convenuti di pagargli ciascuno mese ventitremila ducati; e affermavano che, con l’armata disegnata per la impresa della Sicilia, arebbono in mare trentasei legni; e nondimeno apparendo manifestamente che erano stracchi, procedevano molto lentamente allo spendere. Come similmente era il re di Francia; perché a Lautrech, in questo tempo, vennono avvisi che l’assegnamento fattogli dal re, quando partí di Francia, di cento trentamila scudi il mese per le spese della guerra, e del quale aveva ancora a riscuoterne circa dugentomila, era stato ridotto, né per piú che per tre mesi futuri, solamente a ragione di sessantamila scudi il mese: di che era in grandissima disperazione, lamentandosi che il re non si commovesse né dalla ragione né dalla fede né dalla memoria ed esempio del danno proprio; perché diceva che l’avere voltato il re i denari e le forze che avevano a servire a lui, per la difesa del ducato di Milano, alla impresa di Fonterabia, era stato cagione di fargli perdere quello stato. Succedette la cosa dell’Aquila felicemente: perché, come Pietro Navarra, il quale Lautrech vi aveva mandato insino da Fermo, vi si accostò, il principe di Melfi se ne partí, e vi entrò in nome del re di Francia il vescovo della cittá, figliuolo del conte di Montorio. Occuporono per accordo e i fanti tedeschi de’ viniziani Civitella, piccola terra ma forte, posta di lá dal Tronto sette miglia; prevenuti dugento archibusieri spagnuoli i quali camminavano per entrarvi dentro. Seguitò l’esempio della Aquila tutto lo Abruzzi; e arebbe fatto il simigliante, in brevissimo tempo, tutto il reame di Napoli se l’esercito imperiale non fusse uscito di Roma.
Il quale, dopo molte difficoltá e molti tumulti, nati perché i soldati dimandavano di essere pagati del tempo corso dopo la liberazione del pontefice, uscí di Roma il decimosettimo dí di febbraio; dí di grandissimo respiramento alle miserie tanto lunghe del popolo romano se, subito dopo la partita loro, non vi fussino entrati l’abate di Farfa e altri Orsini co’ villani delle terre loro, i quali vi feciono per molti dí gravissimi danni. Restò Roma spogliata, dall’esercito, non solo di una parte grande degli abitatori, con tante case desolate e distrutte, ma eziandio spogliata di statue di colonne di pietre singolari e di molti ornamenti della antichitá; e nondimeno, non volendo partire i tedeschi senza i danari di due paghe, perché gli spagnuoli consentirono di uscirne senza altro pagamento, fu necessitato il pontefice, desideroso che Roma restasse vacua, pagare prima ventimila ducati, i quali pagò sotto colore di liberare i due cardinali statichi, e poi ventimila altri ne riceverono sotto nome del popolo romano; dubitandosi che anche questi non fussino pagati dal pontefice, ma sotto questo nome per dare minore causa di querelarsi a Lautrech: il quale nondimeno si querelò gravissimamente che, co’ danari suoi, fusse stato cagione della partita da Roma dell’esercito, per la quale la vittoria manifestissima si riduceva agli eventi dubbi della guerra. Uscirono, secondo che è fama, di Roma mille cinquecento cavalli quattromila fanti spagnuoli dumila in tremila fanti italiani e cinquemila fanti tedeschi, tanti di questi aveva diminuiti la pestilenza.
La partita dell’esercito imperiale da Roma costrinse Lautrech, il quale altrimenti sarebbe andato per il cammino piú diritto verso Napoli, a pigliare il cammino piú lungo di Puglia a canto alla marina, per la difficoltá di condurre l’artiglierie, se avesse avuto in quegli luoghi l’opposizione degli inimici, per la montagna; e molto piú per fare provisione di vettovaglie, acciò che non gli mancassino se fusse necessitato fermare il corso della vittoria alle mura di Napoli. Però venne a Civita di Chieta, capo dello Abruzzi citra (perché il fiume di Pescara divide lo Abruzzi citra dallo Abruzzi ultra), dove se gli erano date Sermona e molte altre terre del paese, e con tanta inclinazione, o per l’affezione al nome de’ franzesi o per l’odio a quello degli spagnuoli, che quasi tutte le terre anticipavano a darsi venticinque o trenta miglia innanzi alla giunta dello esercito. Procedeva nondimeno piú lentamente di quello arebbe potuto, per andare innanzi con maggiore stabilitá e sicurezza; e si credeva che, per assicurarsi di riscuotere per tutto marzo l’entrata della dogana di Puglia, entrata di ottantamila ducati la quale consisteva in cinque terre, v’avesse a mandare Pietro Navarra co’ suoi fanti, per la stranezza del quale, essendo Lautrech necessitato a comportarla, non era nello esercito molto ordine. Ma essendo partito dal Guasto, e inteso che una parte dell’esercito inimico, col quale si era unito il principe di Melfi con mille fanti tedeschi, di quegli che aveva menati di Spagna don Carlo viceré, e con dumila fanti italiani usciti della Aquila, era venuta a Nocera, lontana quaranta miglia da Termini verso la marina, e un’altra a Campobasso, lontana trenta miglia da Termini in sul cammino proprio di Napoli, mandato innanzi Pietro Navarra co’ suoi fanti, egli l’ultimo dí di febbraio andò alla Serra, lontana diciotto miglia da Termini, donde il quarto dí di marzo arrivò a San Severo. Ma Pietro Navarra, procedendo innanzi, entrò l’uno dí in Nocera e l’altro dí in Foggia, entrando per una porta quando gli spagnuoli, che si erano ritirati a Troia, Barletta e Manfredonia, volevano entrarvi per l’altra: che giovò assai per le vettovaglie dell’esercito. Erano con Lautrech in tutto quattrocento lancie e dodicimila fanti, né di gente molto eletta; ma dovevansi unire seco il marchese di Saluzzo, il quale camminava innanzi a tutti, le genti de’ viniziani e le bande nere de’ fiorentini, desiderate molto da Lautrech perché, avendo fama di essere fanteria destra e ardita agli assalti quanto fanteria che allora fusse in Italia, facevano come uno condimento [al suo esercito], nel quale erano genti ferme e stabili a combattere. Ma inteso, per relazione di Pietro Navarra mandato da lui a speculare il sito, che in Troia e all’intorno erano cinquemila alamanni cinquemila spagnuoli e tremila cinquecento italiani, e tra Manfredonia e Barletta mille cinquecento italiani, né potendosi per i freddi grandissimi stare in campagna, Lautrech, agli otto dí di marzo, andò a Nocera con tutti i fanti e cavalli leggieri, e il marchese di Saluzzo nuovamente arrivato messe con le genti d’arme e con mille fanti in Foggia; affermando di volere fare, se la occasione si presentava, la giornata, e per altre ragioni e perché, essendogli stati diminuiti dal re gli assegnamenti, non poteva sostentare molto tempo le spese della guerra: e in San Severo lasciò gl’imbasciadori e le genti non atte alla guerra, con poca guardia. Cosí gli pareva stare sicuro né essere necessitato a fare giornata se non con vantaggio. Né gli mancavano vettovaglie, benché si pativa di macinato. Uscí dipoi, a dodici dí di marzo, in campagna, tre miglia di lá da Nocera e cinque miglia presso a Troia, perché Nocera e Barletta distanti intra sé dodici miglia distano non piú che otto miglia da Troia; e gli imperiali, i quali avevano raccolte quasi tutte le genti che erano in Manfredonia e in Barletta, ma non pagate eccetto i fanti tedeschi, e che in Troia aveano copia di vettovaglie, uscirono a scaramucciare: dipoi il dí seguente si messeno in campagna, senza artiglieria, in uno alloggiamento forte in su il colle di Troia. Lautrech, a quattordici dí, girò quello colle dalla banda di sopra che risguarda mezzodí verso la montagna, e voltando il viso a Troia cominciò a salire, e guadagnato il poggio con grossa scaramuccia fece uno alloggiamento cavaliere a loro, e gli costrinse a colpi di artiglierie a ritirarsi, guadagnando per sé lo alloggiamento loro, parte in Troia parte a ridosso: in modo che Troia e lo esercito imperiale restorono tra l’esercito franzese e San Severo, il che difficultava i soccorsi che e’ potessino avere da Napoli, e anche in grande parte impediva le vettovaglie che potessino condursi a loro; benché, per essere scarichi di bagaglie e di gente inutile, non consumassino molto. E da altra parte erano impedite da essi le vettovaglie che andavano da San Severo al campo franzese; e anche tenevano in pericolo San Severo, il quale potevano assaltare con una parte delle loro genti senza che i franzesi se ne accorgessino. Cosí stando alloggiati gli eserciti, i franzesi di lá da Troia di verso la montagna, gl’imperiali dalla banda di qua verso Nocera a ridosso della terra, in su la spiaggia molto fortificata, ed essendo la piú parte de’ luoghi circostanti in mano de’ franzesi, dimororono cosí insino a’ diciannove dí, dandosi tutta notte all’arme e ogni dí facendo scaramuccie, in una delle quali fu preso Marzio Colonna; e interrompendo spesso le vettovaglie che andavano da San Severo e da Foggia allo esercito franzese (che per questo ebbe qualche stretta), né si potevano condurre senza grossa scorta. Nel quale tempo (secondo scrive il Borgia), il marchese del Guasto consigliò che si facesse la giornata, perché l’esercito franzese cresceva ogni giorno e il loro diminuiva; ma ebbe piú autoritá il consiglio di Alarcone, che mostrava essere piú speranza nella vittoria nel stare alla difesa, consumando tempo, che nel rimettersi allo arbitrio della fortuna. A’ diciannove dí, gli imperiali, per essere danneggiati dall’artiglieria inimica, si ritirorono in Troia; ma riparato poi il loro alloggiamento dalla artiglieria, al tempo buono vi ritornavano, al sinistro si ritornavano in Troia. Ma a’ ventuno, in su il fare del dí, si levorono, e andorono verso la montagna ad Ariano con non piccola giornata, ed essendosi, contro a quello che prima credevano i franzesi, trovate in Troia vettovaglie assai, da che, per avere serrato i passi da condurle, s’erano promessi vanamente la vittoria, si interpretavano fussino levati o per volergli tirare in luogo dove patissino di vettovaglie o per avere inteso che il dí seguente si aspettavano nel campo franzese le bande nere: le quali, nel venire innanzi, essendo alloggiate per transito nell’Aquila, aveano, senza essere stati o ingiuriati o provocati ma meramente per cupiditá di rubare, saccheggiata sceleratamente quella cittá. A’ ventidue, Lautrech alloggiò alla Lionessa in su il fiume dello Ofanto, detto da’ latini Aufido, lontano sei miglia da Ascoli, mandate le bande nere, e Pietro Navarra co’ fanti suoi e con due cannoni, alla oppugnazione di Melfi; dove, avendo fatto piccola rottura, i guasconi s’appresentorono alle mura, e le bande nere con maggiore impeto, contro all’ordine de’ capitani, feciono il medesimo: e facendo l’una nazione a gara con l’altra, battendogli gli archibusi de’ fianchi, furono ributtati, con morte di molti guasconi e di circa sessanta delle bande nere. Ed ebbeno la sera medesima un altra battitura quasi eguale, essendo tornati al tardi, poiché era stata continuata la batteria, a dare un altro assalto. Ma la notte venneno in campo nuove artiglierie da Lautrech, con le quali avendo la mattina seguente fatte due batterie grandi, i villani, che ne erano dentro molti, cominciorono per paura a tumultuare. Per timore del quale tumulto occupati i soldati, che erano circa seicento, abbandonorono la difesa; donde quegli del campo entrati dentro ammazzorono tutti i villani e gli uomini della terra. Ritiroronsi i soldati nel castello, col principe; e poco poi si arrenderono, secondo disseno quegli del campo, a discrezione, benché essi pretendessino esserne eccettuata la vita. Fu salvato il principe con pochi de’ suoi, gli altri tutti ammazzati, saccheggiata la terra e morti in tutto tremila uomini. Nella quale si trovò vettovaglie assai, con grandissimo comodo de’ franzesi che avevano, per le loro male provisioni, somma necessitá in Puglia di quello di che vi è somma abbondanza. A’ ventiquattro, gli spagnuoli partirono da Ariano e si fermorono alla Tripalda, lontana venticinque miglia da Napoli in su il cammino diritto, e quaranta miglia da l’Ofanto: co’ quali si uní il viceré il principe di Salerno e Fabbrizio Maramaus, con tremila fanti e con dodici pezzi di artiglieria; e si diceva che Alarcone usciva di Napoli con dumila fanti, per soccorrere la dogana. Soprastava nondimeno Lautrech in su l’Ofanto, per fare prima grossa provisione di vettovaglie; e tutta la gente sua era alloggiata tra Ascoli e Melfi: e dopo il caso di Melfi se gli erano date Barletta, Trani e tutte le terre circostanti, eccetto Manfredonia, dove erano mille fanti: donde mandato Pietro Navarra con quattromila fanti a combattere la rocca di Venosa, guardata da dugento cinquanta fanti spagnuoli che la difendevano gagliardamente, l’ottenne a discrezione; e ritenuti prigioni i capitani, licenziò gli altri senza armi. E aveva dato ordine tale che per lui si riscoteva l’entrata della dogana di Puglia, ma per gli impedimenti che dá la guerra non ascendeva alla metá di quello che era consueto riscuotersi. In questo alloggiamento arrivò il proveditore Pisani con le genti de’ viniziani, che furno in tutto circa dumila fanti (ma non so se i lanzi loro, che erano circa mille, si computino in questo numero o se pure erano prima con Lautrech, come credo). Cosí attendeva ad assicurarsi delle vettovaglie: di che ebbe piú facilitá poi che, per opera delle genti viniziane, ebbe Ascoli in suo potere.
Nel quale tempo, preso animo dalla prosperitá de’ successi, strigneva con parole alte il papa a dichiararsi. Il quale, se bene prima i viterbesi, per opera di Ottaviano degli Spiriti, non avevano voluto ricevere il suo governatore, nondimeno, avendo poi per timore ceduto, aveva trasferita la corte a Viterbo. Ed essendo nel tempo medesimo morto Vespasiano Colonna, e disposto nella sua ultima volontá che Isabella, sua unica figliuola, si maritasse a Ippolito de’ Medici, il pontefice occupò tutte le castella che possedeva in terra di Roma: benché Ascanio pretendesse che, mancata la linea mascolina di Prospero Colonna, appartenessino a lui.