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Capitolo settimo
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VII
Partí adunque Cesare da Bologna, il dí da poi che fu stipulata la confederazione, giá assai certo in se medesimo che andrebbe innanzi il parentado e lo abboccamento col re di Francia, e dubbio ancora di maggiore congiunzione; e imbarcatosi a Genova passò in Spagna, con intenzione assai ferma (secondo si disse) che se si contraeva il parentado col re, che quello della figliuola con Alessandro de’ Medici non avesse luogo.
Partí pochi dí poi il papa per Roma, accompagnato da’ due cardinali franzesi, non turbati niente della nuova confederazione; perché il pontefice, come era eccellente nelle simulazioni e nelle pratiche nelle quali non fusse soprafatto dal timore, aveva dimostrato loro che il conchiudere la lega partoriva la dissoluzione dello esercito spagnuolo, il che faceva maggiore benefizio al re di Francia che non faceva nocumento il contrarsi la confederazione, massime che tra le obligazioni e la osservanza ed esecuzioni di esse potevano nascere molte difficoltá e diversi impedimenti. Continuoronsi adunque tra loro le pratiche cominciate; e desiderando il re, per onorarsene e per ambizione piú che per altro, l’andata sua a Nizza, prometteva, per tirarvelo, non lo ricercare di confederazione, non di tirarlo alla guerra, non di deviare da’ termini della giustizia nella causa del re di Inghilterra, non di ricercarlo di nuova creazione di cardinali. E lo spigneva anche a questo assai il re di Inghilterra. Il quale, avendo occultamente ingravidato la innamorata, aveva, per celare la infamia innanzi si publicasse, contratto con essa il matrimonio solennemente; e avendo poco poi avutane una figliuola, l’aveva, in pregiudizio della figliuola ricevuta della prima moglie, dichiarata principessa del regno di Inghilterra, titolo che hanno quegli che sono nella prima causa della successione; per il che, non avendo potuto il papa dissimulare tanto disprezzo della sedia apostolica, né negare giustizia a Cesare, aveva co’ voti del concistorio dichiarato quel re essere caduto nelle pene degli attentati: donde egli desiderava il parentado e lo abboccamento col re di Francia, sperando che il re fusse mezzo a medicare la causa sua, e che inducendosi il pontefice a trattare cose nuove, come sperava, contro a Cesare, avesse a desiderare di reintegrarlo e tirarlo nella congiunzione loro; e, quasi per dare legge alle cose di Italia, costituire uno triumvirato.
Conchiusesi finalmente l’andata, non a Nizza, perché il duca di Savoia, per non dispiacere a Cesare, fece difficoltá di concedere al pontefice la rocca, ma a Marsilia; cosa molto desiderata dal re, per essergli molto piú onore tirarlo ad abboccarsi seco nel suo regno, ma non molesta anche al pontefice, che desiderava sodisfarlo piú con le dimostrazioni e col compiacere alla sua ambizione che con gli effetti. E sforzavasi il pontefice di persuadere a ciascuno di andare lá principalmente per praticare la pace e trattare la impresa contro agli infedeli, ridurre a buona via il re di Inghilterra, e finalmente solo per gli interessi comuni; ma non potendo dissimulare la vera cagione, mandò, innanzi che andasse egli, a Nizza la nipote, in su le galee che il re di Francia mandò col duca di Albania, zio della fanciulla, a levare lui. Le quali, poi che ebbeno condotto la fanciulla a Nizza, ritornate in porto Pisano, levorono, il quarto dí di ottobre, il pontefice con molti cardinali, e con navigazione assai felice lo condusseno in pochi dí a Marsilia; dove poiché ebbe fatto l’entrata solennemente, vi entrò poi il re di Francia, che prima l’aveva visitato, di notte; e alloggiati in uno medesimo palazzo, feciono dimostrazioni grandissime di amore. Ed essendo il re tutto intento a guadagnare l’animo suo, lo ricercò che facesse venire la nipote a Marsilia; il che fatto dal papa cupidissimamente (che non lo ricercava per mostrare di volere prima trattare delle cose comuni), come la fanciulla fu condotta, si fece lo sposalizio e quasi immediate la consumazione del matrimonio, con allegrezza incredibile del pontefice. Il quale, negoziando le cose sue col re medesimo e con somma arte, gli venne in somma confidenza e affezione; ancora che, contro a quello che hanno creduto molti e che credette Cesare, non si stabilisse tra loro capitolazione alcuna. Vero è che il papa se gli dimostrò sempre propenso nel desiderio che si acquistasse lo stato di Milano per il duca di Orliens, cosa molto desiderata dal re per l’odio e per lo sdegno contro a Cesare, ma molto piú perché, mettendo Orliens in quello stato, gli pareva spegnere le cause della contenzione tra’ figliuoli dopo la morte sua; le quali, altrimenti, era pericolo che non nascessino per causa del ducato di Brettagna, il quale il re, l’anno precedente, aveva, contra alle convenzioni fatte dal re Luigi con quei popoli, unito alla corona di Francia, indottigli a consentire piú con l’autoritá regia che con spontanea volontá. Né solo il re non ottenne da lui cosa alcuna nella causa del re di Inghilterra; ma per le inurbanitá usate da’ ministri di quel re, e perché gli trovò nella camera del papa che gli protestavano e appellavano da lui al concilio, mostratane indignazione, disse al papa che a lui non sarebbe offesa se proseguitasse quel che era di giustizia contro al re. Né offese in cosa alcuna l’animo del pontefice, eccetto che, per sodisfare piú a’ suoi che a se medesimo, lo ricercò che gli creasse tre cardinali; cosa molto molesta al pontefice, non solo per la reclamazione che facea l’oratore cesareo ma perché gli pareva cosa di molto momento (e per la elezione de’ futuri pontefici e per le inobbedienze che potessino nascere, in vita sua e poi) aggiugnere tanti cardinali alla nazione franzese che allora n’aveva sei: nondimeno, per minore male, acconsentí a questa dimanda; e oltre a questi creò uno fratello del duca di Albania, al quale prima l’aveva promesso. Per ogni altra cosa restati tra loro in grandissima fede e sodisfazione, e avendogli comunicato il re di Francia molti de’ suoi consigli, e specialmente il disegno che aveva di concitare contro a Cesare alcuni de’ príncipi di Germania, massime il langravio d’Alsia e il duca di Vertimbergh (i quali poi la state seguente si sollevorono), poi che furono dimorati a Marsilia circa uno mese, partí il pontefice in sulle galee medesime: con le quali, e con travaglio grande del mare, arrivato a Savona, non confidando né nelle provisioni delle galee né nella perizia degli uomini che le reggevano, rimandatele indietro, fu condotto da quelle di Andrea Doria a Civitavecchia. E ritornato a Roma con grandissima riputazione e con maravigliosa felicitá, a quegli massime che l’avevano veduto prigione in Castel Sant’Angelo, godé molti pochi mesi il favore della fortuna; avendo giá l’animo presago di quello che aveva a succedere. Perché è manifesto che, quasi incontinente dopo il ritorno di Marsilia, come certo della morte imminente, fece fare l’anello e tutti gli abiti consueti a’ pontefici nel seppellirsi; e a’ suoi famigliari affermava con l’animo sedatissimo dovere in breve spazio di tempo succedere la sua morte. E nondimeno, non deponendo per questo i pensieri e gli studi consueti, sollecitò che per maggiore sicurtá, come pareva a lui, della sua casa, si fabricasse una cittadella munitissima in Firenze; incerto quanto presto avesse a terminare la felicitá de’ nipoti; de’ quali, inimicissimi l’uno dell’altro, Ippolito cardinale morí non senza sospetto di veleno, non finito ancora uno anno dalla sua morte e Alessandro, l’altro nipote il quale dominava a Firenze, fu, con grandissima nota di imprudenza, ammazzato in Firenze, occultamente di notte, da Lorenzo della medesima famiglia de’ Medici. Ammalò adunque, nel principio della state, di dolori di stomaco; a’ quali sopravenendo febbre, conquassato da quella e da altri accidenti lungamente, ora pareva quasi ridotto al punto della morte ora sollevato in modo che dava agli altri, ma non a sé, speranza di salute.
La quale infermitá pendente, il duca di Vertimbergh, con l’aiuto del langravio di Alsia e di altri príncipi, e aiutato con danari dal re di Francia, recuperò il ducato di Vertimbergh posseduto dal re de’ romani. E temendosi di maggiore incendio, convennono col re de’ romani contro alla volontá del re di Francia, il quale aveva sperato che Cesare per questo moto si implicasse in lunga e difficile guerra, o forse che con l’armi vittoriose passassino a turbare il ducato di Milano. Passò anche in questo tempo Barbarossa, diventato basciá e capitano generale dell’armata di Solimanno, allo acquisto del reame di Tunisi; ma nel cammino scorse i liti di Calavria e passò sopra a Gaeta; donde alcuni de’ suoi, posti in terra, saccheggiorono Fondi: con tanto timore della corte e de’ romani che si crede che se fussino andati innanzi sarebbe stata abbandonata quella cittá; non sapendo di questo accidente cosa alcuna il pontefice.
Il quale finalmente, non potendo piú resistere alla infermitá, si partí il vigesimo quinto dí di settembre della vita presente; lasciate in Castello Santo Angelo molte gioie e nella camera pontificale moltissimi offici ma, contro alla opinione universale, quantitá piccolissima di danari. Pontefice, esaltato di grado basso con ammirabile felicitá al pontificato, ma in quello provata fortuna molto varia; ma se si pesa l’una e l’altra, molto maggiore la sinistra che la prospera. Perché, quale felicitá si può comparare alla infelicitá della sua incarcerazione? all’avere veduto con sí grave eccidio il sacco di Roma? allo essere stato cagione di tanto esterminio della sua patria? Morí odioso alla corte, sospetto a’ príncipi, e con fama piú presto grave e odiosa che piacevole; essendo riputato avaro, di poca fede e alieno di natura da beneficare gli uomini. Però, benché nel suo pontificato creasse trentuno cardinali, non ne creò alcuno per sodisfazione di se medesimo, anzi sempre quasi necessitato, eccetto il cardinale de’ Medici; il quale, oppresso allora da pericolosa infermitá, e in tempo che morendo lasciava i suoi mendichi e destituti di ogni presidio, creò piú tosto stimolato da altri che per propria e spontanea elezione. E nondimeno nelle sue azioni molto grave molto circospetto e molto vincitore di se medesimo, e di grandissima capacitá se la timiditá non gli avesse spesso corrotto il giudicio.
Morto lui, i cardinali, la notte medesima che si serrorono nel conclave, elessono tutti concordi in sommo pontefice Alessandro della famiglia da Farnese, di nazione romano, cardinale piú antico della corte; conformandosi i voti loro col giudicio e quasi instanza che n’aveva fatto Clemente, come di persona degna di essere a tanto grado preposta a tutti gli altri. Uomo ornato di lettere e di apparenza di costumi, e che aveva esercitato il cardinalato con migliore arte che non l’aveva acquistato; perché è certo che il pontefice Alessandro sesto aveva conceduta quella degnitá non a lui ma a madonna Giulia sua sorella, giovane di forma eccellentissima. E concorsono i cardinali piú volentieri a eleggerlo perché, essendo giá quasi settuagenario e riputato di complessione debole e non bene sano (la quale opinione fu aiutata da lui con qualche arte), sperorono avesse a essere breve pontificato. Le azioni e opere del quale se saranno degne della espettazione conceputa di lui, e della letizia immensa ricevuta dal popolo romano di avere, dopo [centotré] anni e dopo tredici pontefici, riavuto uno pontefice del sangue romano, ne faranno testimonio quegli che scriveranno le cose succedute in Italia dopo la sua assunzione. Perché è verissimo e degno di somma laude quel proverbio, che il magistrato fa manifesto il valore di chi lo esercita.