Questo testo è stato riletto e controllato. |
◄ | La marcia ad Alcamo | Al Passo di Renda | ► |
A Partinico.
Fu dunque un giorno lieto quello d’Alcamo; ma l’altro appresso, quando la colonna partì acclamata e marciò a Partinico, qual diverso mondo le si apprestava a così breve distanza! Per Alcamo la milizia borbonica battuta a Calatafimi era passata senza che nessuno le si fosse fatto contro per impedirla; ma Partinico la aveva affrontata, e per le vie e per le case era stato un combattimento da selvaggi. A entrare in quella città, parve di affacciarsi a uno degli orrendi spettacoli di strage fra Greci e Turchi della rivoluzione ellenica di quarant’anni avanti.
Proprio sulle soglie della cittadetta, stavano mucchi di morti bruciacchiati, enfiati, in cento modi straziati. E tenendosi per mano a catena e cantando, vi danzavano attorno fanciulle scapigliate come furie, cui faceva da quadro e da sfondo la via maestra nera d’incendi non ancor ben spenti. Le campane sonavano a stormo; preti, frati, popolo d’ogni ceto, urlavano gloria ai militi correnti dietro a Garibaldi, che traversò rapido la città col cappello calato sugli occhi, e andò a posarsi all’altro capo, in un bosco d’olivi, mesto come non era ancor parso in quei giorni. E là gli furono condotti alcuni soldatucci borbonici, rimasti prigionieri in mano dei Partinicotti e salvati a stento da qualche buono; poveri giovani disfatti dal terrore di due giorni passati con la morte alla gola. Consegnati a lui si sentirono sicuri, e piansero e risero come fanciulli.
Sprazzo di sereno nella tempesta, chi si potrebbe tenere dal narrarlo! Garibaldi sedeva in quel momento a pie’ d’un olivo. Aveva appena finito di confortare quei poveri soldati, che gli fu presentato dal capitano Cenni suo carissimo uno dei giovani della spedizione, il quale portava una manata di fragole in un canestrino fatto di foglie. «Generale,» disse il Cenni, «questo cacciatore delle Alpi vi offre le fragole.» Garibaldi guardò Cenni, guardò il giovane, poi sorrise un poco, crollò la sua bella testa e gli domandò: «Di dove siete?» — «Genovese» rispose il giovane quasi tremando. E allora il Generale in dialetto genovese. «E avete ancora la madre?» «Generale sì;» e gli occhi del giovane videro allora molto lontano. «Cosa direbbe — continuò Garibaldi — se fosse qui a vedere che mi piglio le vostre fragole?» Ma intanto tese la mano e ne levò due o tre per gradire, soggiungendo: «Andate, andate, godetevele voi, che vi parranno più buone che a me.»
Dopo non lungo riposo, le Compagnie si rimisero in marcia, allontanandosi quasi con gioia da quel luogo di sangue. Alcuni Partinicotti le seguirono armati di doppiette e di pugnali. Ve n’era uno che pareva di bronzo, tutto vestito di velluto biancastro, con a cintola due pistole. Il Sampieri dell’artiglieria diceva che erano dell’aria di colui i Palicari e i Clefti dei quali egli, nell’esilio suo in Grecia, ne aveva conosciuti alcuni, vecchi ancora di quei di Bozzaris. Si sarebbe detto che quell’uomo non fosse fatto che ad uccidere, e invece a parlargli era buono e anche grazioso. Raccontava quasi scusandosi l’eccidio cui aveva partecipato; e diceva con poesia di Palermo, bella, grande: «Vedrete, vedrete! Il Palazzo reale!» E forse tutto il suo patriottismo era per l’isola sua, pel regno, pel piccolo regno di Sicilia, indipendente da tutto il mondo. Seguì la marcia di Garibaldi senza più staccarsi, divenne amico di qualcuno in tutte le Compagnie, portava la letizia in tutti i crocchi e le buone promesse. Nove giorni di poi, il mattino del 27, nell’assalto di Palermo, fu visto l’ultima volta, sotto il Ponte dell’Ammiraglio, disteso morto presso un Cacciatore borbonico, che moribondo egli stesso lo guardava. Forse lo aveva ucciso lui.