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Garibaldi e Cavour.
Francesco Crispi nel 1860. |
Par quasi certo che Egli n’abbia parlato con Vittorio Emanuele e che n’abbia avuto incoraggiamenti. Però il Re, il 15 aprile, volle ancora scrivere al Cugino di Napoli che era «giunto il tempo in cui l’Italia poteva esser divisa in due stati potenti, l’uno del Settentrione l’altro del Mezzogiorno: che Egli pel bene suo lo consigliava di abbandonare la via fino allora tenuta: e che se ripudiasse il consiglio, presto egli, Vittorio Emanuele, sarebbe posto nella terribile alternativa o di mettere a pericolo gli interessi più urgenti della stessa sua propria dinastia, o di essere il principale strumento della rovina di lui. Qualche mese che passasse ancora senza che egli si attenesse all’amichevole suggerimento, egli, il Re di Napoli, sperimenterebbe l’amarezza delle terribili parole: Troppo tardi.»1
E scritto così, Vittorio Emanuele partì lo stesso giorno 15 aprile pel suo viaggio trionfale in Toscana e nell’Emilia, dove andava per la prima volta da Re.
La sera di quel 15 aprile Garibaldi si presentò improvviso alla Villa Spinola nel territorio di Quarto, allora ignoto borgo poco discosto da Genova, sulla riviera orientale. In quella villa se ne stava Augusto Vecchi esule Ascolano, suo antico ufficiale di dieci anni avanti, alla difesa di Roma.
— Buona sera, Vecchi; vengo come Cristo a trovare i miei apostoli, ed ho scelto il più ricco, questa volta. Mi volete?
— Per Dio, Generale, e con piacere immenso! —
Pare una pagina romanzesca, ma allora appunto cominciava il periodo in cui le cose più vere ebbero l’aria di fantasie.
In quella villa il Generale si stabilì, e vi chiamò i suoi.
Per andare in Sicilia occorrevano armi, ed egli senz’altro mandò in Milano a prenderne di quelle già comprate col fondo del milione di fucili, fatto raccogliere da lui per sottoscrizione nazionale. Senonchè là, Massimo d’Azeglio, governatore, non solo rifiutò di concedere che se ne portasse via una parte, ma le fece mettere tutte sotto sequestro. Scrisse poi d’aver temuto che quelle armi finissero in tutte altre mani che quelle di Garibaldi, certo temeva di Mazzini, ma in quel momento l’atto suo diede grandemente da sospettare che il Governo fosse avverso a ogni impresa garibaldina.
Veramente il Conte di Cavour desiderava proprio più che mai che la spedizione non si facesse. Temeva che Garibaldi, una volta mosso si lasciasse trasportare dal suo vecchio pensiero di Roma, e invece che in Sicilia andasse a sbarcare su qualche parte della costa pontificia, senza riguardo al pericolo di tirar addosso a sè e al Regno una guerra dalla Francia. Sperava, anzi, che ogni cosa sfumasse. Il 24 aprile mandò apposta il colonnello Frapolli da Garibaldi, per indurlo ad abbandonare ogni disegno; e il Frapolli, amico del Generale, gli parlò delle difficoltà che si opponevano a una discesa nell’isola o nel continente. Gli ricordò persino le tragedie di Murat, dei Bandiera, di Pisacane. Non si sa che viso facesse il Generale a tali moniti del Frapolli, ma certo è che questi tornò a Torino da Cavour, persuaso che Garibaldi non partirebbe. E, in verità, il Generale era già inclinato a rompere ogni preparativo, perchè dalla Sicilia aveva notizie non buone. Ondeggiò tutti quei giorni pensando alla tremenda responsabilità di una catastrofe. Il 27 gli giunse un telegramma da Fabrizi da Malta, quasi lugubre: «Completo insuccesso nelle provincie e in Palermo; molti profughi raccolti dalle navi inglesi giunti in Malta.» Così diceva il telegramma. E la parola del Fabrizi valeva quella che Garibaldi stesso avrebbe detto. Era un vecchio patriotta di quelli sfuggiti nel 1831 alle forche di Modena; e sempre poi aveva vissuto in esilio a onorare l’Italia e a farla stimare dagli stranieri. Egli non poteva che dire la verità. E perciò Garibaldi deliberò di lasciar andar tutto, e di tornarsene nella sua solitudine di Caprera: anzi, diede ordine di tenergli un posto sul vapore che doveva partire il 2 maggio per la Sardegna. Cavour lo seppe, e scrisse a Napoleone che ormai di una impresa di Garibaldi non c’era più da temere.
Ma allora si erano fatti attorno al Generale tutti i più ostinati a voler andare in Sicilia: Bertani, Bixio, Crispi e tanti altri minori, che nella Villa Spinola tennero con lui una specie di gran Consiglio, il 30 aprile, anniversario della sua bella vittoria del ’49, contro i francesi, sotto Roma. In mezzo a quel consesso, tra i discorsi roventi di quei patriotti, come uomo ispirato da una luce improvvisa, Garibaldi balzò su d’un tratto a dire: «Partiamo. Ma subito, domani!» Domani era troppo presto: bisognava pensare ad avere i legni da navigare! Ma insomma un po’ di giorni, tre o quattro, sarebbero bastati. Intanto quegli operosi avrebbero raccolta la gente da fuori. Dacchè egli aveva detto «Partiamo,» lasciasse fare, che ad eseguire c’era chi ci pensava.
Il Conte di Cavour, ignorando quella nuova deliberazione, era partito il 1° maggio per Bologna, a raggiungervi nel giro trionfale il Re, cui sperava di strappare l’ultima parola che impedisse a Garibaldi ogni tentativo d’allora e di poi. Narrano gli intimi del Conte e del Re che si trovavano con essi in Bologna, avere il Cavour manifestato fin l’intenzione di fare arrestar Garibaldi, se si fosse ostinato a tentar qualche cosa, e d’andar egli stesso a porgli addosso le mani, se non si trovasse chi avesse l’ardimento di farlo. E sarà vero, perchè allora egli temeva troppo che l’Imperatore dei Francesi, credendosi canzonato da lui, pigliasse qualche violenta deliberazione contro l’Italia. Ma ormai alla forza delle cose neppur egli poteva più resistere. E saputo ciò che a Genova si faceva, stette col Re a Bologna, per non tornare a Torino in quei giorni a farsi tormentare dalla diplomazia. Però prese le sue precauzioni. E temendo sempre che Garibaldi volesse fare un colpo contro Roma, ordinò alla divisione navale del contrammiraglio Persano d’andare in crociera tra Capo Carbonara e Capo dello Sperone a Sant’Antioco, o, in altre parole, dinanzi al Golfo di Cagliari. Gli ingiungeva però di non adoperar le macchine; e che cosa intendesse di voler dire con ciò non si sa bene ora, nè lo seppe allora forse neppure il Persano. Poi non tornò a Torino se non la sera del 5 maggio, e là, da Genova, gli piovvero le notizie. Che fare? Adesso non c’era altro che lasciar fare; e giacchè la spedizione non si poteva più impedirla senza che sorgessero chi sa quali guai nel paese, pensò subito di mettersi sul gioco di dominarla, e di rispondere alle proteste che lo avrebbero tempestato.