< Storia dei Mille
Questo testo è stato riletto e controllato.
A Talamone La formazione del piccolo esercito

I Mille.


Ma cosa si stava a perder tempo in Talamone, mentre in Sicilia la rivoluzione pericolava, e si poteva, giungendovi, trovarla spenta? Questo lo sapeva Garibaldi.

Intanto su quella spiaggia i Mille si vedevano bene tra loro la prima volta, come in una rassegna.

Ora, chi parla di quei tempi e di quelle cose, dice presto: il 1860, la Sicilia insorta, il gran nome di Garibaldi, quello di alcuni suoi illustri, la partenza da Quarto, la traversata maravigliosa, lo sbarco a Marsala, Calatafimi, Palermo e la liberazione finale; due o tre date e un numero d’uomini, pochi più di Mille, e per la storia in grande è quasi tutto.

Ma quei Mille chi erano? Che cosa erano? Non certo una specie di compagnia di ventura all’antica; non una parte di vecchio esercito costituito, staccata a scelta o per caso; nessuna legge li obbligava, non erano soldati di professione, non avevano tutti quella media di età che di solito hanno i soldati; non una cultura comune ed uguale, e nemmeno una divisa uniforme. Vestivano quasi tutti alla borghese e alle diverse fogge, dalle quali, a quei tempi, si riconoscevano ancora a qual regione d’Italia e a qual classe sociale uno appartenesse. E parlavano quasi tutti i dialetti della penisola. Erano, per dir così, parte dell’esercito popolare militante di cuore nel partito rivoluzionario: vecchi, figliuoli di giacobini, di napoleonidi, di Murattisiti; uomini di mezza età, educati dalla Giovane Italia, tra le congiure e le insurrezioni; giovani nei quali la letteratura classica e la romantica s’erano fuse in una bella temperanza a fecondare l’amor di patria. Con essi, degli artigiani che dalle diverse scuole politiche e dai fatti belli dell’ultimo decennio, erano stati destati al concetto della nazione.

Di loro fu subito detto che erano eroi favolosi, pazzi sublimi, ed altre simili iperboli, e anche delle ingiurie. Invece di volenterosi com’essi ve n’erano in Italia a migliaia; ma ad essi intanto era toccata quella fortuna. Uno che vi era e dei migliori, scrivendone poi nella vita di Garibaldi, con quattro pennellate alla brava disse che erano un popolo misto «di tutte le età e di tutti i ceti, di tutte le parti e di tutte le opinioni, di tutte le ombre e di tutti gli splendori, di tutte le miserie e di tutte le virtù» e vi notò «il patriota sfuggito per prodigio alle forche austriache e alle galere borboniche, il siciliano in cerca della patria, il poeta in cerca d’un romanzo, l’innamorato in cerca dell’oblio, il notaio in cerca di un’emozione, il miserabile in cerca d’un pane, l’infelice in cerca della morte: mille teste, mille cuori, mille vite diverse, ma la cui lega purificata dalla santità dell’insegna, animata dalla volontà unica di quel Capitano, formava una legione formidabile e quasi fatata.»

Così li ritrasse il Guerzoni, caro al Generale e vivido ingegno, e fu felice pittore.

Narrar di loro, descriverne gli aspetti, farne rivivere la fisionomia morale, resuscitare coi ricordi i loro sentimenti e quelli dell’epoca ora quasi estinti, è un giusto servigio che vuol essere reso alla storia. La quale si avvia a non più fermarsi solo nelle reggie per trovarvi le dinastie, o nei campi per descriver battaglie e celebrare capitani; ma già accoglie nelle sue pagine il personaggio popolo, che ai fatti col proprio sangue e col proprio danaro dà il cuore. E il cuore governa il mondo, e il sentimento fa i veri miracoli della storia.



A colpo d’occhio, si poteva dire che per un quarto quei Mille erano uomini fra i trenta e i quarant’anni e per un altro bel numero tra i quaranta e i cinquanta; forse dugento stavano tra i venticinque e i trenta. Gli altri, i più, erano tra i diciotto e i venticinque. Di adolescenti ce n’erano una ventina quasi tutti bergamaschi. Alcuni qua e là tra quei gruppi parevano trovarvisi per curiosità, perchè vecchi oltre i sessanta; e invece vi stavano a spendere le ultime forze di una vita tutta vissuta nell’amore della patria. Il vecchissimo passava i sessantanove, aveva guerreggiato sotto Napoleone e si chiamava Tommaso Parodi da Genova; il giovanissimo aveva undici anni, si chiamava Giuseppe Marchetti da Chioggia, fortunato fanciullo cui toccava nella vita un mattino così bello! Seguiva il medico Marchetti padre suo, che se l’era tirato dietro in quell’avventura.

In generale, certo più della metà erano gente colta; anzi si può dire che soldati più colti non mossero mai a nessun’altra impresa. Alcuni di essi, i vecchi, avevano combattuto nelle rivoluzioni del ’20 del ’21 del ’31; molti nelle guerre del ’48 e del ’49 e nelle insurrezioni di poi. Nella guerra del 1859 avevano militato quasi tutti, volontari nei reggimenti piemontesi o tra i Cacciatori delle Alpi sotto Garibaldi. E quasi tutti avevano tenuto il broncio al paese perchè non si era mosso quanto avevano sperato, tanto almeno che il Piemonte non avesse avuto bisogno dell’aiuto francese. Pronti essi sempre a dar la vita, credevano che tutti dovessero esserlo come loro, e che la rivoluzione bastasse a vincere i grandi eserciti e a far cader le fortezze. Per essi a ogni modo, quell’aiuto era stato un gran dolore, perchè lo aveva recato Napoleone, che allora chiamavano con forte rancore: l’Uomo del 2 dicembre.

Ma v’erano pure certuni che ragionando con la storia per guida, sebbene un po’ da romantici, trovavano che anzi l’aiuto francese era stato ammenda giusta d’una colpa antica. Non era stata la Francia di Carlo VIII la causa prima della servitù tre volte secolare d’Italia? I francesi del 1494 avevano, per dir così, gettato il dado, provocando altri a giocarsi con loro il possesso d’Italia: ora, quelli del 1859 erano venuti a riparare il danno fattole dai loro avi. Qualcosa di provvidenziale pareva di vederlo sin nelle date capitali di quella storia. Non era finita la gara antica proprio nel 1559, con quel tal trattato di Castel Cambresis che, esclusi i Francesi, avevano messo l’Italia, direttamente o indirettamente, quasi tutta nelle mani degli spagnuoli? Ed ecco che dopo trecento anni giusti, la Francia era venuta a strappar la Lombardia dalle mani dell’Austria, erede in qualche guisa degli Spagnuoli. E giusto era venuta con alla testa un imperatore di sangue italiano; come era stato un italiano Emanuele Filiberto, colui che trecent’anni avanti aveva finita la gara antica tra Spagnoli e Francesi, vincendo per la Spagna a San Quintino. Non era quasi da dire che gli Italiani d’allora si fossero pigliata la sola vendetta possibile contro i Francesi? Questi per primi li avevano disturbati mentre lavoravano a resuscitare il sapere antico per sè e per l’Europa; ed essi, all’ultimo, avevano dato il genio di un loro guerriero per farla finita a beneficio del loro nemico, dovesse pure essere poi peggiore di essi. Adesso quell’Italiano che imperava in Francia ed era venuto con centocinquantamila soldati pareva un riparatore. Anche l’Europa intera non sembrava fare ammenda di qualche suo vecchio torto? Se essa gridava ma lasciava che in Italia gl’italiani facessero ciò che loro pareva meglio, non si poteva dire che si contenesse a quel modo per un tacito consenso di giustizia verso il popolo che trecent’anni indietro le aveva dato i frutti del proprio studio, l’arte sua, e per essa aveva scoperto la terra e aperte le vie a studiar il cielo, con Colombo e con Galileo?



I giovani dai venti ai venticinque anni quasi tutti sentivano in sè, vivi e presenti i fratelli Bandiera con la loro storia, intesa nella prima adolescenza, tra le pareti domestiche, dai padri e dalle madri angosciate. Quell’Emilio di 25 anni, quell’Attilio di 23, disertati a Corfù di sulle navi austriache; la loro madre corsa invano colà, per supplicarli a smettere il loro disegno d’andar a morire; le loro risposte a Mazzini che li consigliava di serbarsi a tempi migliori; e poi l’imbarco, il tragitto nell’Ionio e lo sbarco sulla spiaggia di Crotone, presso la foce del Neto, — che nomi! — e il primo scontro a San Benedetto coi gendarmi borbonici, e le plebi sollevate a suon di campane a stormo contro di loro gridati Turchi; e il secondo scontro a San Giovani in Fiore, — poesia, poesia di nomi! — e l’inutile eroismo contro il numero, e la cattura e la Corte marziale e le risposte ai giudici vili e la condanna e la fucilazione nel Vallo di Rovito; tutto sapevano, tutto come canti di epopea studiati per puro amore. E suonava nei loro cuori la strofe amara ed eroica del canto di Mameli:

L’inno dei forti ai forti,
Quando sarem risorti
Sol li potrem nomar.

Un po’ più in qua negli anni, quei giovani avevano sentito il grido di Pio IX: «Gran Dio, benedite l’Italia!» andato a suonare fin nei più riposti tugurii. Avevano viste le rivoluzioni nelle quali, troppo fanciulli, non avevano potuto cacciarsi; e le guerre del ’48 e del ’49, e le cadute, e le disperazioni, e le speranze rinate; e nel ’57 la gran tragedia di Carlo Pisacane coi suoi trecento, tra plebi mutatesi anche allora in furie contro di loro andati per redimerle, combattuti, accerchiati, oppressi, morti.

Ma dunque tutte le spiaggie del Regno erano tombe aperte per chiunque tentasse portarvi un po’ di libertà? Crescevano le febbri in quei cuori.

E ve n’erano che avevano concepito il pensiero di andar laggiù per un ricordo di scuola di qualche anno addietro: un luogo dell’Odissea e dell’Eneide; o il racconto letto in Plutarco della libertà data dai Siracusani ai prigionieri ateniesi, solo per averli sentiti cantare i cori di Euripide; o un episodio della guerra servile dei tempi romani. E v’era chi più che delle cose antiche era pieno delle recenti, per aver letto nella storia del Colletta i supplizi del Caracciolo e della Sanfelice, o la fine della repubblica Partenopea nel 1799.

Altri ancora s’era inebriato dei canti popolari siculi, uditi nella melodia viva di qualche volontario siciliano conosciuto l’anno avanti nei Cacciatori delle Alpi. Ve n’era fin uno, e lo narrava, che aveva avuto la spinta a quel passo da un fatto da nulla, ma che sul suo cuore aveva potuto più che la scuola e che i libri. Un giorno di luglio dell’anno avanti, stando egli in Brescia alla porta di uno degli ospedali zeppi ancora dei feriti di Solferino e di San Martino, aveva veduto fermarsi un carro di casse d’aranci e di filacciche e di bende. Venivano dalle donne di Palermo! O santa carità della patria! Dunque in quella terra lontana si pensava a chi pativa per tutti? E aveva anche inteso dire dai medici che quelle cose erano uscite dall’isola trafugate, perchè la polizia di laggiù, guai! Dunque c’era in Italia una tirannide più cruda di quella dell’Austria? Ed egli aveva fatto voto di andare a dar la sua vita laggiù, se mai fosse venuta l’ora di levar quella tirannide dal mondo.

Questa voce è stata pubblicata da Wikisource. Il testo è rilasciato in base alla licenza Creative Commons Attribuzione-Condividi allo stesso modo. Potrebbero essere applicate clausole aggiuntive per i file multimediali.