< Storia dei Mille
Questo testo è stato riletto e controllato.
Il combattimento
La bandiera Dopo la vittoria

Il combattimento.


Dal 1814 quando i napolitani di Murat salirono fino al Po, senza saper bene se si sarebbero incontrati amici o nemici coi loro vecchi commilitoni dell’esercito italico del Vicerè Eugenio; e poi si offesero scambiando con essi delle cannonate: da allora non si erano più trovati di fronte italiani delle due parti estreme, armati per darsi battaglia. L’ora dunque era solenne.

I due piccoli eserciti stettero ancora un pezzo a guardarsi. Garibaldi su di una sporgenza del colle, tra certe rocce che gli facevano riparo dinanzi a mezzo la persona, stava con Türr, Sirtori, Tuköry, osservando il nemico. Aveva dato l’ordine di tener chete le Compagnie che non sparassero, e queste stavano chete, anzi a terra sdraiate.

I Carabinieri genovesi erano stati messi avanti a tutti, già un po’ giù nel pendìo verso il nemico: dietro di loro la 8ª e la 7ª Compagnia giacevano stese in cacciatori a quadriglie, e così era formata da loro la prima linea. La 6ª e la 5ª Compagnia sul ciglio del colle, sdraiate anch’esse in ordine aperto formavano la seconda linea; tutto il battaglione di Bixio, e cioè la 4ª, la 3ª e la 2ª Compagnia, stavano in riserva sul versante dalla parte di Vita, ma solo pochi passi dal ciglio; più in giù, quasi alla falda, era rimasta la 1ª Compagnia, quella di Bixio, il quale la aveva lasciata al suo luogotenente Dezza. Egli si era portato avanti forse per trovarsi sempre vicino al Generale, per non perderlo di vista mai, quasi che in caso di sconfitta si sentisse di salvarlo, o, non lo potendo, volesse morirgli al lato.

Passavano le ore, e Garibaldi, che di solito preferiva assalire, non si risolveva all’attacco.

Sperava forse che nelle file nemiche si destasse qualche sentimento italiano? Chi lo sa! Ma si può crederlo perchè aveva ordinato di portar nel punto più alto la bandiera tricolore, e di farla sventolare. Ad ogni modo sembrava che avesse risolto cavallerescamente di lasciar ai Napolitani il vanto d’assalir primi.

E verso il tocco squillò una tromba napolitana. Uno dei garibaldini, certo Natale Imperatori della 6ª Compagnia Carini, che conosceva quella sonata, disse subito: «Vengono i Cacciatori!»

E difatti, contro il grigio e il verde del suolo, furono viste prima come un formicolio, poi più nette, spiccate le divise cilestrine discendere alla sfilata, agili, giù pei terrazzi del loro colle, serpeggiando tra i ciuffi di fichi d’India. Erano addirittura due Compagnie. Giunti all’ultima falda del colle, s’avanzarono pel po’ di spazio che faceva la valletta, e cominciarono i loro fuochi di sotto in su contro i garibaldini della prima fronte. Questi erano i Genovesi. Chi li poteva tenere che non rispondessero al fuoco delle quadriglie? Pure durarono un pezzo senza sparare e peritissimi al tiro giudicavano impediti i nemici le cui palle passavano miagolando molto in alto: ma alla fine cominciarono anch’essi con le loro carabine di pochissimo scoppio, ma secco, acuto, e le palle andavano al segno. Allora quei Cacciatori si arrestarono a scambiare ancora pochi tiri, così da fermi, coi Genovesi. Ma subito le trombe garibaldine suonarono l’attacco alla baionetta. Bisognava levar le Compagnie dalla tentazione di sprecar di lassù le munizioni, perchè i più non avevano che dieci cartucce, e i fucili non portavano più che a quattrocento metri. Le Compagnie, a quegli squilli, balzarono ritte come sorgessero dalla terra improvvise, e si rovesciarono giù dal colle una dietro l’altra, correndo scaglionate obblique giù per la china, ma mirabilmente composte, poi s’allargarono in ordine sparso, quando i cannoni napolitani cominciarono a trarre granate.

Lo narrarono poi molti che stavano allora nelle file nemiche. Quel movimento, fatto così di lancio e con sicurezza da veterani, produsse in loro un effetto indicibile. Ma non si sgomentarono. E fu bene, perchè per la loro mirabile resistenza meritarono d’esser lodati nell’ordine di Garibaldi il giorno appresso; e la lode potè forse sugli animi più della stessa vittoria riportata da chi li lodava.

Così il bel fatto d’arme era cominciato.

In un lampo le due Compagnie di Cacciatori furono spazzate via, lasciando esse alcuni caduti in quel fondo, bei giovani d’Abruzzo, di Calabria, di chi sa quale di quelle terre delle rivoluzioni gloriose e infelici. Sul berretto elegante a barchetta, portavano il numero 8 — 8° Cacciatori! — E indossavano delle divise di tela cilestrina, giubba corta, elegante, su cui s’incrociavano pittorescamente le corregge degli zaini e della fiaschetta a zucca, schiacciata e foderata di cuoio. La loro carabina, pei tempi d’allora, era perfettissima, e la daga baionetta faceva pensare a quelle terribili degli zuavi. Poveri ragazzi!

Come fanno stringere il cuore l’eleganza delle divise indosso ai morti sui campi, e quelle cose e quei numeri e quei nomi dei corpi! Coloro che giacciono non hanno più nè vita nè nome, nè paese nè nulla: a casa loro i parenti non sapranno la zolla che beve il loro sangue, nè l’erba su cui spirarono l’ultimo fiato. Solo non li vedranno mai più; essi son morti.

Triste cosa la guerra! Ma allora pareva ancora bella perchè vi si poteva patire, morire, per far trionfare un’idea, più che perchè vi si potesse provar la gioia e la gloria di vincere.

— Rispettate i nemici, rispettate i feriti! — gridò Francesco Montanari di Mirandola, caduto per grave ferita su quel colle — sono italiani anch’essi! —

E la sua faccia severa, quasi dura e in quel momento contratta dal dolore, parve trasfigurata da quella sua sublime pietà.

A che ormai descrivere il fatto d’armi di Calatafimi?

Le battaglie, da quelle che descrisse Omero all’ultima della storia moderna, si somigliano tutte. Sono furia d’uomini contro uomini che s’avventano gli uni agli altri, dandosi a vicenda da vicino o da lontano la morte, con più o meno arte, secondo i tempi. Cortesi fin che si vuole, i combattenti son sempre ancor poco diversi «dagli uomini sul vinto orso rissosi.»

Eppure leggiamo rapiti dalle narrazioni, ammirando fatti che in sè sono atroci, e ci esaltiamo e chiamiamo magnanimo tanto chi dà come chi riceve la morte in campo. Ci pare sovrumano il maresciallo Ney a Vaterloo, quando nella tragica ora della sconfitta già imminente, grida con voluttà disperata che vorrebbe tutti nel petto i proiettili dei cannoni inglesi rombanti nell’aria. Sublime ci pare quell’oscuro lanciere francese, che là, in una delle ultime cariche di cavalleria, gittò la sua lancia in mezzo a un quadrato inglese, per andare a raccattarla come per gioco in quel quadrato; e spronò e balzò e cadde egli e il suo cavallo sulle siepi di baionette, schiacciando altri e morendo. Chi mai ci pare più grande di lord Cardigan, quando ricevuto l’ordine di assalire le batterie russe a Balaclava, sa che vi morirà egli, l’ultimo di sua schiatta, forse con tutti i suoi seicento cavalieri; ma snuda la spada e gridando: «Avanti, ultimo dei Cardigan!» galoppa alla morte come se volasse al cielo?

Ma quel Montanari e quel suo grido, son ben più degni di storia.

Quello di Calatafimi fu fatto d’arme che appena potrebbe stare come frammento episodico di una di quelle grandi battaglie. Eppure per l’importanza e per l’influenza sua sulla vita della nostra nazione, conta quanto e forse più di ciascuna d’esse per altre. E il Generale? L’arte di Garibaldi, mirabile già nell’aver saputo creare in tutti i suoi un sentimento profondo, sicuro, superbo della loro situazione, nei tre giorni avanti; in quello del fatto d’armi, stette tutta nell’averseli tenuti stretti nel pugno come un fascio di folgori, fino al momento in cui, non essendo più possibile in nessun modo lasciare il campo non vincitori, potè abbandonar ognuno al comando di sè stesso, certo egli che da quel momento si sarebbero svolte le più recondite virtù e le forze e l’ingegno d’ognuno, dalla calma pontificale di Sirtori al furore di Bixio, all’impeto geniale di Schiaffino, all’audacia di Edoardo Herter, d’Achille Sacchi, di cento altri, e, si può dire di tutti, perchè un codardo che è uno, in quell’ora, in quel luogo, non ci potè più essere. E il merito di questo miracolo fu tutto del Generale. L’anima sua era entrata, era presente in tutte quelle anime, fosse egli in qual si volesse punto del campo. Due momenti della pugna furono esclusivamente suoi: uno, quello di quando Bixio, che era Bixio, osò domandargli alla maniera sua se non gli paresse il caso di battere in ritirata, ed egli rispose che là si faceva l’Italia o si moriva: l’altro, quello dell’ultimo assalto, quando tutti rifiniti boccheggiavano sotto il ciglio del colle, su cui si erano ridotte via via risalendo le schiere nemiche scacciate da terrazzo a terrazzo in su. Là disperavano tutti, non egli, che parlando pacato andava per le file come un padre con gli occhi rilucenti di lagrime: "Riposate, figliuoli, poi un ultimo sforzo e abbiamo vinto." Fu in quel momento che lo colpì nella spalla destra uno dei sassi che i borbonici facevano rotolar giù; ma egli non degnò mostrare d’essersene accorto, e continuò a mantenere quell’aria sicura che creava la sicurezza altrui, in quel quarto d’ora in cui, se i borbonici avessero osato rovesciarsi giù alla baionetta, in più di duemila quanti erano ancora, la rotta era sua. Essi invece, raccolti lassù, urlavano: Viva lo Re; rotolavano sassi, e tiravano schioppettate a chi si faceva su dal ciglio a guardare. Uno di questi fu Edoardo Herter da Treviso, medico di 26 anni. Pareva una damigella bionda vestita da uomo, tanto aveva esile l’aspetto, ma i suoi muscoli erano d’acciaio. Parlò con Garibaldi un istante, poi si lanciò su per un greppo.

Ah piangerà tua madre!


fu cantato di lui, e appena su, cadde riverso colpito nel petto a morte.1

In quel momento l’artiglieria garibaldina tuonò di giù dalla strada, dove alla fine aveva potuto mettersi a tiro, e un suo proiettile andò a cadere tra i regii. Fu come il segno della ripresa, perchè poco appresso si fece come un subbuglio, e fu gridato: «La bandiera, la bandiera in pericolo!» E la bella bandiera di Valparaiso fu veduta salire, come se andasse da sè, trascinando dietro ai lembi delle sue pieghe quanti vi s’affollavano presso.

Passata dalle mani di Giuseppe Campo a Elia, a Menotti, a Schiaffino, ora Schiaffino la portava all’ultima prova. E giù, staccati dalla loro fronte, uno stormo di napolitani corsero per pigliarsela. Allora le si formò un viluppo intorno, cozzo breve, fiero, feroce, vera mischia; e la bandiera sparì, lasciando uno dei suoi nastri nel pugno di Gian Maria Damiani.2 E Schiaffino, il superbo nocchiero del Lombardo, giacque là morto.

— È questo il momento d’annunziarmi una pubblica sciagura? — gridò Garibaldi a chi gli dava notizia di quella morte. Ma proprio in quel momento, in un altro punto della battaglia scoppiava un urlo di gioia.... Un cannone era preso. Fumigava ancora la sua gola dell’ultimo colpo sparato contro quelli che vi s’erano lanciati su primi, primo Achille Sacchi da Pavia, giovanetto di diciassett’anni, che cadde già con le mani sulla volata di quel pezzo e giacque morto.

«Ancora uno sforzo!» e lo sforzo era fatto. Erano balzati su fino i moribondi; l’ultimo assalto alla baionetta fu veramente meraviglioso. I napolitani non vi ressero, si volsero, rovinarono via.

Non però tutti in fuga. Avevano cominciato i Cacciatori e i Cacciatori finivano. Mentre la fanteria e i Carabinieri napolitani si ritiravano confusi giù pel declivio del colle perduto; quei Cacciatori, come stessero in un campo a istruirsi, facevano le loro fucilate a quadriglie, allontanandosi lentamente. Fin Garibaldi stette a mirarli un pezzo, in quelle loro belle mosse; ma poi diede ordine di caricarli a una delle Compagnie che appena conquistato il colle, già si erano quasi riordinate intorno ai loro ufficiali. Corse la 6ª, Carini. E quell’ultimo strascico del fatto d’arme fu presto levato. Tutta la colonna borbonica si sprofondò nel vallone, sparì un momento, poi ricomparve di là. Saliva l’erta per Calatafimi. La chiudeva un manipolo di cavalli, forse mezzo squadrone, che durante il combattimento s’era tenuto giù sullo stradale, certo aspettando di potersi gettare sui nemici vinti a sciabolarli. Invece ora proteggeva la ritirata ai suoi. Dal campo di battaglia fu vista quella gente serpeggiare su per l’erta lunga, stendersi e di nuovo sparire poi più su, a poco a poco, in Calatafimi.

  1. Ma non morì. Guarito per dir così miracolosamente fece anche la guerra del 1866, poi trasportato dal suo spirito venturoso migrò in America e si stabilì a Tapalquen in Patagonia, dove esercitò la medicina amato e stimato. Ivi morì dopo molti anni.
  2. Ved. Abba, Noterelle d’uno dei mille. Bologna, Zanichelli.

Note

    Questa voce è stata pubblicata da Wikisource. Il testo è rilasciato in base alla licenza Creative Commons Attribuzione-Condividi allo stesso modo. Potrebbero essere applicate clausole aggiuntive per i file multimediali.