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20 Novembre.
Marianna! Marianna!... io lo amo! io lo amo! Pietà! pietà di me! Non mi disprezzare! son molto infelice! perdonami!
Mio Dio! perchè questo castigo così duro? Ecco che bestemmio! Oh, mio Dio!... quanto ho pianto! Oh! Dio mio.... vi ha una donna più sciagurata di me?...
L’amo! È un’orribile parola! è un peccato! è un delitto! ma è inutile dissimularlo a me stessa. Il peccato è più forte di me. Ho tentato sfuggirgli, esso mi ha abbrancato, mi tiene il ginocchio sul petto, mi calpesta la faccia nel fango. Tutto il mio essere è pieno di quell’uomo: la mia testa, il mio cuore, il mio sangue. L’ho dinanzi agli occhi in questo momento che ti scrivo, nei sogni, nella preghiera. Non posso pensare ad altro; mi pare che ad ogni istante il suo nome mi venga sulle labbra, che ogni parola che proferisco si trasformi nel nome di lui; allorchè lo ascolto son felice; quando mi guarda tremo; vorrei stargli vicina ad ogni momento e lo fuggo; vorrei morire per lui. Tutto ciò che sento per quell’uomo è nuovo, strano, è spaventoso.... è più ardente dell’amore che porto a mio padre; è più forte di quello che porto al mio Dio! ... Questo è quello che al mondo chiamano amore.... l’ ho conosciuto; lo veggo.... È orribile! è orribile!... È il castigo di Dio, la perdizione, la bestemmia! Marianna, io son perduta! Marianna, prega per me!...
Ieri egli era andato a Catania per certi affari della sua famiglia. Avrebbe dovuto essere di ritorno prima di sera coll’omnibus di Trecastagne, e alle nove ancora non si vedeva. Figurati lo sgomento della sua famiglia e di tutti! Le notizie che corrono sono tristissime; non ci era chi non pensasse a qualche disgrazia. La madre ed Annetta piangevano; il signor Valentini era agitatissimo, ed andava ogni momento al ciglione che sovrasta la vigna da dove si può vedere un bel tratto del viottolo che mena al villaggio, poichè suo figlio avrebbe dovuto lasciar l’omnibus alla solita fermata e venirsene a piedi sin qui. L’oscurità era fitta; nel viottolo non si vedeva a dieci passi. Si erano spediti due messi per cercar di sapere la causa di quel ritardo e per annunciare più presto il suo ritorno. Il povero padre lo chiamava di tratto in tratto ad alta voce, come se avesse sperato di udirlo a rispondere da lontano. Tutti tendevano l’orecchio, ti puoi bene immaginare con quale ansia; si attendeva un minuto, dieci, la voce moriva lontan lontano nella valle, e succedeva il silenzio. Suonarono le nove e mezzo, le dieci! i piagnistei erano generali. Il signor Valentini era andato ad incontrarlo, solo, al buio, come un pazzo, per domandarne a tutti i viandanti, deciso a non fermarsi che allorquando avrebbe trovato il figlio. Ma, Dio mio! se non si vedeva anima viva! e il più ardito viandante non si sarebbe arrischiato a quell’ora di percorrere le strade, invigilate sospettosamente dai contadini che fanno la guardia al coléra! Quei pianti mi spezzavano il cuore; quel silenzio mi atterriva; quel buio mi sembrava pieno di orribili visioni. M’ero chiusa nella mia cameretta onde inginocchiarmi ai piedi del crocifisso e piangere e pregare per lui. Di tratto in tratto interrompevo la mia preghiera, asciugavo le mie lagrime, soffocavo i miei singhiozzi per tendere l’orecchio, per mettere tutta l’anima mia nell’ascoltare. Al di fuori si udiva solo in lontananza il rumore di qualche fucilata che mi metteva in convulsione e l’uggiolare de’ cani ch’era lugubre. Diventai superstiziosa. Pensai: — quando avrò detto cento avemarie udrò la sua voce. — Ne dissi cinquanta tutte di un fiato; poi incominciai a recitare le altre più lentamente, perchè mi pareva che avessi detto le prime troppo in furia, che il tempo prefissomi non fosse quello, che Dio non mi avrebbe esaudita perchè avevo recitate le mie avemarie troppo distratta. Quand’ebbi detto le ultime dieci tornai da capo, lusingandomi che mi fossi sbagliata nel contare.... Recitai le ultime due una ad una, interrompendomi per ascoltare.... e mi parve di aver udito delle voci lontane.... attesi, attesi.... nulla! ... il silenzio! Poi dissi a me stessa: — se la prima che parlerà sarà Annetta, egli arriverà fra un quarto d’ora.... — Indi: — quando il vento avrà fatto stormire le foglie degli alberi dieci volte, egli sarà qui.
I rami si agitavano, si agitavano e nessuno veniva!... Allora mi parve che soffocassi, che la mia testa si smarrisse, che il sangue mi scorresse in tutte le vene con tale impeto da spingermi a correre non so dove come una pazza; mi parve che quella stanza fosse angusta, che quel tetto mi schiacciasse! Uscii sulla spianata. Mi faceva male vederli piangere quei poveri parenti, ascoltare ansiosamente i menomi rumori della campagna, e susurrarsi sottovoce delle lusinghe per ingannare sè stessi più che gli altri. Andai a sedermi sul muricciuolo, lontana da tutti, al buio, cogli occhi ardenti, fissi nelle tenebre, quasi mi sembrasse poterle diradare col mio desiderio, ascoltando l’uggiolare lontano dei cani e cercando d’indovinare se essi abbaiassero pel suo passaggio. Mio Dio! che soffrire! Ad un tratto mi parve che i battiti del cuore si arrestassero... udii un urlo lontano, un urlo che conoscevo. Il cuore cominciò a battere in tumulto, cominciò a far rumore quando avrei voluto unicamente ascoltare.... Nulla! nulla! ... mi ero forse ingannata.... Poi si udì un altro urlo più vicino, più distinto; questa volta tutti lo udirono: era Alì che abbaiava. È lui! viene! è la voce di Alì!... Ah!... Alì correva, si avvicinava, urlava a festa, ci gridava la buona novella! ci sapeva inquieti, spaventati e veniva correndo.... s’udivano i tralci delle viti scossi bruscamente dalla sua corsa; ancora non si vedeva, ma avrei potuto precisare il punto dov’egli correva. Mi pareva che il cuore scappasse via dal petto. Tutti erano corsi lì, sul muricciuolo, vicino a me. Alì arriva, salta sul muro, è lui! è lui! Esso mi salta addosso latrando, festoso, eppure ansante, commosso anche lui, il povero Alì! Io lo abbracciai, lo abbracciai stretto stretto perchè mi pareva di svenire, e scoppiai in lagrime.
Quando arrivò, quel povero Nino! pallido, stanco, trafelato! Veniva a piedi da Catania perchè l’omnibus era partito prima di lui, e non aveva potuto trovare altra carrozza che volesse fare il viaggio a quell’ora. Suo padre era tornato con lui, lo baciava. Sua madre ed Annetta se lo tenevano fra le braccia. Tutti lo festeggiavano; tutti piangevano di giubilo. Egli mi avrà creduta egoista e cattiva perchè io corsi a rinchiudermi nel mio camerino, a piangere, a ridere, a singhiozzare liberamente, ad abbracciare i piedi del crocifisso, i mobili, le pareti!
Mio Dio! C’è un essere più infelice di me sulla terra?
Dacchè cotesta tentazione si è impossessata di me, io non mi riconosco più. I miei occhi vedono più chiaro, la mia mente scopre misteri che per me avrebbero dovuto rimaner ignorati per sempre; il mio cuore prova sentimenti nuovi, che non avrebbe mai provato, che non avrebbe dovuto provare giammai; è felice, si sente più vicino a Dio, piange, si trova piccolo, isolato, debole. Tutto questo è spaventoso! Aggiungi minuzie insignificanti che diventano torture: uno sguardo, un gesto, un’inflessione di voce, un passo; — ch’egli segga a quel posto invece che a quell’altro; — ch’egli parli a quella persona piuttosto che a quell’altra. Tu non mi comprenderai; tu mi crederai folle!... Mio Dio! se lo fossi, come sarei felice. È un dubbio continuo, un’ansia, uno sgomento, una dolcezza indicibile. Aggiungi a tutto questo il pensiero della mia condizione, il rimorso del peccato, l’impotenza di lottare contro un sentimento ch’è più forte di me, che mi ha invaso, mi logora, mi vince, e mi rende felice soggiogandomi.... la desolazione di trovarmi umile, di trovarmi quella che sono.... io sono meno di una donna, io sono una povera monaca, un cuor meschino per tutto quello che oltrepassa i limiti del chiostro, e l’immensità di quell’orizzonte che le si schiude improvvisamente dinanzi l’acceca, la sbalordisce.... Io domando a me stessa se questo amore, questo peccato, questa mostruosità, non è parte di Dio!... Vorrei esser bella come ciò che sento dentro di me; getto uno sguardo su di me, sorpresa io stessa di cotesta curiosità insolita, e mi rattristo non trovando in me che un fagotto di saja nera, dei capelli tirati sgarbatamente all’indietro, maniere rozze, timidità che potrebbe sembrare goffaggine.... e mi veggo accanto altre ragazze eleganti, graziose, che non fanno peccato se amano come me.... Arrossisco di me stessa, arrossisco del mio rossore.... E poi.... non ti ho ancora detto tutto! c’è un’altra croce; c’è il timore che cotesto segreto che mi chiudo gelosamente in seno venga scoperto! Aver paura del tuo rossore, del tuo pallore, del tremito della tua voce, del battito del tuo cuore! Sembrarti che tutta te stessa ti accusi, che tutti stiano a spiarti.... e sentirti presso a morir di vergogna se questa disgrazia accadesse! Arrossisco di quello che sto scrivendo, di quello che tu leggerai.... tu che sei parte di me!... e me l’impongo come una specie di penitenza.... L’amo così pazzamente e morrei di vergogna s’egli lo sapesse! Vorrei gettargli le braccia al collo, vorrei morire ai suoi piedi, e non oserei dargli la mano per tutto l’oro del mondo! ... e se mi guarda, chino gli occhi.... E pensare intanto che mio padre.... che mia matrigna, che lui! potrebbero leggermi in cuore!...
Mio Dio! fatemi morire prima!...
E se ti dicessi che questo mio timore non è assolutamente infondato?... che la mia matrigna stamane mi chiamò, e fissandomi di un’occhiata che sembrava mi penetrasse sino al cuore mi disse: — Tu sei troppo pallida e agitata da qualche tempo in qua; che hai? — Io tremavo, balbettavo non so che cosa, ma non sapevo che dire. Ella ripigliò con quella stessa cera che mi faceva male: — Da qualche giorno mi sono accorta che c’è in te un gran cambiamento. Ragazza mia, se l’aria della campagna ti fa male, tuo padre non insisterà a tenerti qui, e ti permetterà di ritornare al tuo convento. — Ed accompagnò queste poche parole con tale sguardo e tal suono di voce che parevami dicesse: — So tutto; conosco il tuo segreto! — Mi sentivo morire. Fortuna che mi trovavo seduta, perchè altrimenti sarei caduta a terra, ed ella non si avvide che gli occhi mi si riempivano di lagrime, perchè in quel momento entrò Giuditta tutta allegra. Oh, la mia povera mamma! che dorme laggiù nel Camposanto!... Come mi sarei buttata fra le sue braccia, e le avrei domandato perdono sfogandomi in lagrime!...
Giuditta le disse: — Mamma, sai? i signori Valentini c’invitano ad andare con loro alla casina dei Bertoni che son nostri vicini di campagna. Si ballerà, capisci! Sii buonina, via, mamma! Andiamoci.... Che piacere sarà un ballo qui in campagna! — E quella cara Giuditta l’accarezzava con tanta grazia, che sua madre raddolcì immediatamente quell’aria severa. La baciò sorridendo e le disse una sola parola: Pazzerella!
Oh! benedetto il santo affetto di una madre che si rivela tutto in una parola o in una carezza! Benedetta la felicità che ci arreca la felicità dei nostri cari! Mi parvero sì belle entrambe in quel momento della benedizione che il Cielo pioveva su di loro, che pregai Iddio per tutti coloro che ne son privi al pari di me. Giuditta corse ad abbigliarsi saltellando e canterellando, e mi chiamò perchè la pettinassi. Ella ha magnifiche treccie castagne; e tutti i giorni, quando le sciolgo i capelli per pettinarla, penso al gran peccato che sarebbe se fossero condannati ad essere recisi come i miei. Però quel giorno ero così turbata che non riuscivo a nulla di bene. Feci e disfeci venti volte le sue treccie, ed ogni volta non ne rimaneva soddisfatta e le disfaceva con stizza. — Mio Dio, esclamò. Sembra che oggi tu lo faccia apposta! — Perdonami, sorella! le dissi, non ci ho colpa io! — No, è che probabilmente ti annoi a pettinarmi. — Oh, che dici mai, Giuditta? No, te lo giuro! Io faccio del mio meglio, risposi piangendo.... — Ella è buona infine, la mia cara sorella. Mi guardò sorpresa, si strinse nelle spalle, mi tolse il pettine dalle mani e mi disse: — Via, non c’è poi ragion di piangere. Farò da me. — Volevo abbracciarla, volevo baciarla per domandarle perdono, per sfogare quel gruppo amaro che mi sentivo qui, nel cuore. Come sono sciocca ed uggiosa! era già tardi, non si aspettava che lei; ella ebbe ragione d’impazientirsi e di dirmi: — Ma, Dio mio, lasciatemi pettinare da me almeno! — Allora sono uscita asciugandomi gli occhi. Annetta m’incontrò sulla soglia e mi disse: — Ebbene, che fai? Non vieni anche tu? - Che cosa vi salta mai in mente? esclamò mia matrigna. Un’educanda!... Non ci mancherebbe altro! — Nino teneva gli occhi fissi su di me e non parlava; io lo vedevo, quantunque non lo guardassi. Frattanto sopraggiunse mio padre e si informò del motivo di tutti i preparativi e di quella festa. — E tu? mi domandò poscia. — Io rimarrò in casa, babbo. — Ma no; puoi venire anche tu; siamo in campagna. — Babbo mio; amo meglio rimanere in casa. — Rimarrò io con te allora. (Caro babbo! quello sì che mi ama!). — Che? e chi ci accompagnerà? disse sua moglie. — Potreste andare in compagnia dei nostri amici. — Ma non sta bene per la prima volta che andiamo da persone che non ci conoscono. Maria potrà benissimo rimanersene in compagnia della fante e della castalda. — Ci fu ancora qualche diverbio; ma poi il babbo finì coll’accondiscendere alla volontà di sua moglie; poichè tu sai che il mio povero babbo non la contraddice mai per amor della pace.
Amica mia, ti confesso che per la prima volta in mia vita provai il dispiacere di essere esclusa io sola da un divertimento per cui tutti anticipatamente erano così allegri.... E poi.... vuoi saperlo? Ho provato un nuovo dolore.... pensando che egli avrebbe veduto tante altre belle signorine, che avrebbe anche ballato con quelle! ... Pensando a queste cose.... il cuore si è riempito tutto di lagrime....
Ora son sola. Li ho visti partire, allegri, cantando. Egli solo pareva triste. Mi guardava come se avesse voluto domandarmi cento cose. Egli dava il braccio a mia sorella.... Come era bella Giuditta col suo bell’abito cilestre, appoggiata al braccio di lui, ridendo, chiacchierando con lui!
Io li ho accompagnati cogli occhi sinchè svoltarono la viottola e scomparvero dietro la siepe di biancospino che sorpassa il muricciolo della vigna. Poi ho udito ancora per qualche tempo le loro voci, le loro risa, la loro allegria che mi faceva male.... Oh! Dio mio! come sono invidiosa! come son cattiva!... Ho dovuto pensare a lui per non singhiozzare; ho dovuto ricordarmi dello sguardo che fissava su di me per non invidiarli.... Sono rimasta sola.... Le stelle cominciavano a scintillare. Era una bella sera d’autunno che si mantiene ancora dolce e tiepida. La castalda ha acceso il fuoco per la minestra e si è tolto in collo il suo bimbo. Il marito è ritornato dalle vigne, ha deposto lo schioppo accanto alla porta e si è messo a giocherellare col suo figliuoletto che si tiene fra le ginocchia. Tutto è calma, pace, serenità. Io sola sono inquieta, triste, infelice.
Ti scrivo tutto quello che mi passa pel cuore, e allorchè le lagrime non mi lasciano più vedere quello che scrivo, guardo il cielo stellato e l’ombra degli alberi dalla mia finestra; penso a quella festa, a tutta quella gente allegra, che si diverte, che è vicina a lui! ... penso a lui!... E allora non posso più scrivere, non ho più pensieri che per lui solo; bisogna che lo vegga almeno cogli occhi della mente, mentre egli laggiù balla e ride con un’altra.... e ti dico addio....