< Sull'Atlante
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10. Gli spahis del bled
9. L'agguato delle pantere 11. La cuba del marabuto

10.

GLI SPAHIS DEL BLED


Quella forra che sembrava prediletta dalle belve feroci, offriva un asilo veramente magnifico ai fuggiaschi, poiché era incassata fra alte pareti rocciose e tutta coperta di piante abbastanza alte per nascondere affatto non solo degli uomini bensì anche dei mahari inginocchiati.

Anche se gli spahis lanciati sulle tracce dei due legionari e di Afza si fossero spinti su quel gruppetto di colline, difficilmente avrebbero potuto scoprire quelli che speravano di agguantare.

La prima cosa che fece Hassi fu quella di accertarsi se esisteva davvero una famiglia di pantere, poiché anche le piccine potevano aver ormai raggiunto un certo sviluppo e diventare pericolose.

Mosse quindi, seguito dal conte e dal toscano, verso l'estremità della forra, chiusa dall'alta parete rocciosa, cosparsa di larghe fenditure, e procedette ad una rapida esplorazione.

Non si era ingannato. Dei soffi che provenivano dal fondo d'una cavità lo avvertirono che le piccine stavano là dentro.

— È meglio che ci sbarazziamo anche di loro — disse impugnando il yatagan.

— Si direbbe che li dentro si sono rifugiati dei gatti — disse Enrico.

— Ma sono troppo pericolosi per lasciarli vivere.

Si cacciò arditamente entro il covo e si mise a sciabolare in tutte le direzioni, battagliando a casaccio, poiché l'oscurità era ancora profonda.

— Ho finito — disse dopo qualche minuto, gettando fuori due bestie non più grosse di due gatti comuni e col pelame molto ben chiazzato. — Tutta la famiglia è distrutta, e possiamo prendere tranquillamente possesso del burrone.

— Un vero palazzo — rispose il toscano scherzando.

— Che in questo momento però vale meglio del mio castello dei Carpazi — notò il conte.

— Già, perché è troppo lontano, — disse l'ex avvocato — e poi non più tuo.

— Purtroppo, amico — sospirò il magiaro. — Bah! Non ci pensiamo.

Ani aveva aperto un passaggio ai mahari, sciabolando le folte macchie, e li aveva spinti contro la parete rocciosa, obbligandoli a coricarsi; poi aveva steso, dinanzi al covo delle pantere, un paio di tappeti, perché Afza potesse coricarsi all'asciutto, essendo il fondo della forra ancora inzuppato d'acqua.

— Sei stanca, mia povera amica? — chiese il conte alla sua giovane moglie. — La notte è stata lunga e troppo piena di emozioni. Riposati e cerca di dormire, mentre noi andiamo a dare un'occhiata alla pianura.

— Come potrei dormire sapendo che il mio signore corre così gravi pericoli? — rispose il Raggio dell'Atlante con la sua voce armoniosa.

— Gli spahis non sono ancora comparsi.

— Non tarderanno però a giungere.

— L'inseguimento sarà accanito di certo; ma come l'inondazione ha fermato noi, taglierà la via anche a loro, tanto più che poco fa pareva si estendesse maggiormente.

— Io tremo per te, mio signore.

— Ed io per te, mia Afza. Al maresciallo premerà più avere nelle sue mani il Raggio dell'Atlante che due miserabili legionari. Ne avrà ben altri da mandare dinanzi al Consiglio di guerra d'Orano, se vorrà prendersi quel capriccio.

— I mezzi non gli mancano — disse Enrico che stava lì ad ascoltarli, mentre Hassi ed Ani mettevano dentro il covo delle pantere un gran numero di sacchetti di tela contenenti viveri e munizioni da guerra, per lasciare ai mahari maggior libertà.

— Noi non saremo sicuri se non quando avremo frapposto fra noi ed il bled la catena dell'Atlante e ci saremo messi sotto la protezione dei Senussi.

— A questo penserà mio padre — rispose Afza. — Egli ha molte conoscenze fra i marabuti della montagna e fra i Cabili.

Hassi ed il suo fedele servo avevano terminato lo scarico.

— L'alba sta per sorgere — disse il primo. — Approfitta di questo momento di tregua, figlia. Noi andiamo a far colazione lassù, ed a sorvegliare le mosse degli spahis. Ani ti guarderà durante la nostra assenza. Andiamo, frangi, ed apriamo bene gli occhi. Il pericolo che ci minaccia è più grave di quello che credete.

— Lo conosciamo benissimo, babbo Hassi — rispose Enrico.

Diedero ad Afza, che appariva molto stanca, il buon riposo, presero i fucili ed un paio di pistole ciascuno, e s'arrampicarono su per la china, guadagnando ben presto il margine del burrone.

Le nubi erano scomparse, spinte dal vento verso il settentrione, ed una certa luce cominciava a diffondersi, permettendo di distinguere abbastanza bene l'immensa pianura che si stendeva dinanzi a quel gruppetto di alture.

Alcune macchie bianche che si muovevano con estrema rapidità ad una distanza di un paio di miglia, attrassero subito l'attenzione dei due legionari e del moro.

— Gli spahis! — avevano esclamato a una voce.

Le macchie bianche seguivano il margine della distesa d'acqua dirigendosi verso le collinette, forse colla speranza di trovare colà un passaggio, non potendo supporre gl'inseguitori che i fuggiaschi si fossero fermati così vicini, mentre possedevano dei velocissimi mahari.

— Corpo d'una sogliola fritta! — esclamò il toscano dopo un breve silenzio. — Il maresciallo, ammesso che sia ancora vivo, ha fatto montare agli spahis i cavalli arabi. Non vedi, conte, che sono tutti bianchi?

— Li conosco — rispose il magiaro, la cui fronte si era offuscata. — E non saranno i soli a battere la pianura. Chissà quanti plotoni avranno lanciati sulle nostre tracce!

— Plotoni ben miseri — rispose il toscano, il quale contava attentamente i punti bianchi. — Quegli spahis non sono più di dodici.

— Non ti bastano?

— Eh! Se cercassero di salire quest'altura non mi farebbero timore. Comincio ad aver fiducia nei lunghissimi fucili degli arabi.

— Infatti sono migliori di quello che tu credi e di buona portata. Ebbene, Hassi, che cosa facciamo?

— Colazione — rispose il moro.

— E gli spahis?

— Lascia che corrano per ora.

— Non sono molto lontani.

— Si occupano in questo momento più della piena che di noi. Abbiamo del tempo da perdere.

Aprì un sacchetto di grossa tela che aveva portato con sé, ne trasse alcune gallette, dei datteri ed una fiasca piena di latte; era la parca colazione dell'abitante delle pianure algerine.

Divise i viveri coi due europei, ormai già abituati a quelle colazioni durante le lunghe corse fatte attraverso la bassa Algeria, fece circolare la fiasca, poi si tolse dalla cintura un cibuc, lo riempì di tabacco, l'accese e si mise a fumare tranquillamente.

Il conte, malgrado le sue preoccupazioni, aveva accesa una sigaretta offertagli dal toscano.

Pur fumando non perdevano di vista un solo istante i dodici spahis, i quali seguivano sempre, ora al trotto ed ora al passo, il margine della piena, facendo entrare sovente i loro bianchi cavalli nell'acqua per scandagliare il fondo.

Il sole era comparso sulle creste orientali dell'Atlante e faceva piovere sulla pianura la sua eterna pioggia di fuoco, asciugando rapidamente gli stagni formatisi durante la notte con quella pioggia diluviale che era durata, furiosissima, parecchie ore.

Una leggera nebbia s'alzava ondeggiando capricciosa sotto i soffi del vento, dando al verde della magra vegetazione delle strane tinte. Solamente le alte palme mostravano intatte le loro foglie disposte a grossi ciuffi o dentellate.

Gli spahis, pareva che non si occupassero affatto di perlustrare, almeno pel momento, quel gruppetto di colline. Si ostinavano a cercare un passaggio attraverso la distesa d'acqua.

I due legionari ed il moro si erano sdraiati in mezzo agli sterpi, quantunque non vi fosse alcun pericolo di venire scorti e non avevano cessato di fumare.

Un'esclamazione di Hassi fece sussultare i due europei:

— L'occhio bianco!

— Che cos'è? — chiese il conte.

— È lui che guida il drappello.

— Fulmini! — esclamò il toscano. — Ho capito tutto! È quella canaglia di Bassot, il vice-carnefice del bled, l'amico intimo di Steiner! Uccellaccio canaglia! Ci darà molto da fare!

— Bassot! — mormorò il conte a denti stretti.

— L'uomo che è venuto a chiamare Afza — aggiunse il moro.

— E che io ucciderei volentieri — ruggì il magiaro.

— Le imboscate su questa pianura non sono facili — rispose Hassi-el-Biac. — Alla base dell'Atlante un colpo di fucile si può sparare attraverso la foresta senza correre troppo pericolo. Se vuoi, figlio, m'incarico io di regalarti la pelle di quello spahis dall'occhio bianco, che odio non meno di te.

— Sarò io che l'ucciderò.

— Se non si prenderà una palla da me — disse il toscano. — Tu sai, conte, che sono un tiratore scelto. Quando si offrirà l'occasione scommetteremo... il cibuc di papà Hassi.

Gli spahis intanto, in numero di dodici, montati tutti su bianchi cavalli di razza araba, continuavano a galoppare lungo il margine della distesa d'acqua, e ad esplorare il fondo.

Parevano furiosi di non trovare un passaggio, e spronavano spietatamente le loro cavalcature, come se le povere bestie ve ne avessero colpa.

— Se non vi fossero gli altri ne farei una delle mie — disse il toscano, che si mordeva i pugni.

— Qualche sciocchezza pericolosa per tutti — disse il conte. — Ti conosco troppo e so di che cosa sei capace.

— Scenderei inosservato il colle e andrei a fucilare quel maledetto occhio bianco — rispose il toscano.

— E gli altri ti verrebbero addosso e ti finirebbero a sciabolate senza nessun giovamento per noi.

— Anzi, — disse il moro — tradirebbe il nostro rifugio.

— È per questo che mi mordo le mani, mentre sarei sicurissimo del mio colpo.

— Lascialo galoppare per ora — disse il conte. — L'occasione non mancherà di fargli sbuzzare l'altr'occhio, camerata.

— E l'aspetterò pazientemente, corpo d'una gavetta sfondata! Quel giorno Bassot non ci vedrà più ed avrà finito di tormentare i disciplinari del bled.

Il drappello era giunto alla base delle alture contro cui l'acqua, mossa da un po' di vento, si rompeva rumoreggiando, tagliando anche lì il passo.

Uno scoppio d'imprecazioni giunse fino agli orecchi dei fuggiaschi.

— Si direbbero granatieri — disse il toscano. — Non ho mai udito degli spahis bestemmiare in così malo modo.

Il conte e lo stesso moro non poterono trattenere una risata.

— Tu morrai scherzando — disse il primo.

— E chiacchierando — aggiunse il secondo.

— Come un avvocato — rispose il livornese che rideva anche lui.

Gli spahis dopo d'aver fiancheggiato la collina, costringendo i cavalli a colpi di sprone ad entrare nell'acqua fangosa, erano tornati indietro e si erano radunati per consultarsi sul da fare.

— Consiglio di guerra — disse Enrico. — Chissà quale piano strategico uscirà ora dalla zucca di Bassot.

— Non vorrei che si decidessero a montare queste colline — disse il conte il quale era stato preso da un'improvvisa inquietudine.

— Il rifugio è sicuro — rispose il moro. — Non temere né per noi né per Afza. Se avranno qualche sospetto penseremo io ed Ani a far scappare i cavalli.

— In qual modo?

— Aspetta, figlio; gli spahis non sono ancora qui.

— Tu hai qualche progetto.

— Certo.

— Spiegati un po'.

— Di farli correre per allontanarli da noi.

— Per mezzo di chi?

— Di Ani che non è conosciuto al bled, e che tramuteremo in un Tuareg più o meno autentico. Vediamo che cosa fanno questi spahis per ora.

I cavalieri continuavano a consigliarsi fra di loro, fumando sigarette. Ad un tratto, però, piantarono gli sproni nel ventre dei loro cavalli e partirono al trotto, in gruppo serrato accennando a fare il giro delle collinette.

— Che riescano a spingersi avanti? — chiese Enrico.

— Non potranno. La piena ha coperto tutta la pianura meridionale — rispose Hassi-el-Biac. — Sarei ben felice che trovassero un passaggio, perché almeno si allontanerebbero da noi.

— Allora torneranno...

— Aspetto una loro visita poiché non tarderanno a persuadersi che nemmeno noi avremo potuto affrontare la piena, e verranno a cercarci qui. Torniamo nella forra. Sarà meglio che Ani approfitti della situazione per scendere nella pianura e farli correre. I cavalli, siano pure arabi, non hanno né la velocità né la resistenza dei nostri mahari.

— Io rimango di guardia; e, se si decidono a salire, apro il fuoco contro Bassot — disse il toscano. — Non morrò contento finché non avrò in tasca la pelle di quell'antropofago.

— Nessun colpo di fuoco — disse il conte. — Guardati, Enrico, ne va della vita di tutti.

— Mi contenterò allora di sorvegliarli.

— Noi non ti domandiamo altro.

Mentre il toscano si sdraiava in mezzo ai cespugli, riaccendeva la sigaretta che aveva lasciato spegnere, il conte ed il moro ridiscesero nella forra.

Afza dormiva profondamente, semicoperta da un magnifico tappeto di Rabat ricamato in oro ed in seta, e Ani stava raccogliendo degli sterpi più o meno secchi per dare da mangiare ai mahari.

Il moro con un fischio lo chiamò. — Quello che avevo previsto è accaduto — gli disse. — È il momento di agire. Hai il tuo vestito da Tuareg?

— Sì, padrone.

— Ti chiedo di farli correre più che ti sarà possibile e di fiaccare completamente i loro cavalli. L'uomo dall'occhio bianco può riconoscerti, quindi è necessario che tu, al pari dei figli del deserto, ti copra bene il volto. Va', e sbrigati.

— Tu hai pensato a tutto, Hassi — disse il conte.

— Io devo salvare lo sposo di mia figlia — rispose il moro con voce grave. — A te devo la vita del Raggio dell'Atlante, e non me ne scordo un solo minuto.

— Riuscirà Ani?

— Io sono certo di non trovare nemmeno nel grande deserto un cammelliere più abile di lui. Prima di questa sera i cavalli arabi degli spahis saranno completamente rovinati.

— Ed approfitteremo dell'oscurità per raggiungere la cuba del tuo amico.

— Sì, se la piena ce lo permetterà — rispose Hassi.

— Oh non può durare molto. La terra arsa l'assorbirà come io assorbirei in questo momento, se potessi averlo, un bicchiere di vino.

Il moro sorrise.

— Io ho pensato anche a te, figlio — disse poi. — I figli dell'Arabia e del deserto non possono assaggiare il succo della vite, perché Maometto lo ha vietato, ma io non ho dimenticato che tu e il tuo compagno siete dei frangi cristiani. Nelle borse che portavano i mahari e che Ani ha accumulato nel covo delle pantere troverai vino e anche tabacco.

— Grazie, Hassi.

— Tu sei mio figlio — rispose il moro colla sua abituale gravità e semplicità. — Prenditi liberamente quello che vuoi.

In quel momento, dietro un cespuglio sorse il vecchio negro. Era coperto di un ampio mantello di tela bianca con una larga striscia rossa nel fondo, portava sul capo un turbante monumentale, e sul viso una specie di bavaglio che gli scendeva a punta fino a metà del petto, e che non gli lasciava scoperti che gli occhi.

— Son pronto, padrone — disse.

— Sono cariche le tue pistole?

— Anche il fucile.

— Scegli il miglior mahari.

— Non desidero che il mio.

— Sai che cosa devi fare?

— Sì, padrone.

— Quando i cavalli saranno fiaccati ritorna qui. Se sarà possibile, stanotte raggiungeremo la cuba di Muley Hari.

— Conta su di me.

Fece alzare il suo mahari che sonnecchiava insieme agli altri, nascosti fra gli alti cespugli, gli accarezzò il muso ed il collo, poi salì la costa del burrone, tirandoselo dietro.

Hassi lo aveva seguito mentre il conte, scovata una bottiglia, si sedeva accanto ad Afza, che dormiva sempre profondamente, colle bellissime braccia piegate sotto il capo.

Raggiunta la cima, Ani s'arrampicò sulla gobba dell'animale prendendo la corda.

— Va', amico — gli disse Hassi dolcemente.

— Se non torno più, qualche volta parla col Raggio dell'Atlante del tuo fedele servo — rispose il negro. — La mia anima sarà felice di udire ancora la vostra voce ed il mio nome. Addio, padrone.

Il mahari appena udito il fischio cominciò a scendere prudentemente la collina essendo il terreno ancora bagnato, mentre Hassi raggiungeva il toscano il quale sorvegliava il lato opposto del versante.

— Quali nuove? — gli chiese.

— Pessime, babbo moro — rispose Enrico. — La piena si estende anche dietro le colline e gli spahis non possono passare. Io credo che finiscano per fare una corsa quassù. Quel Bassot è furbo come una scimmia, e mi stupisco come non gli sia ancora venuta l'idea di dare una capatina quassù. Non tarderà, però, a convincersi che nemmeno noi possiamo aver trovato un passaggio e ci cercherà attivamente nei dintorni.

— Dove sono gli spahis?

— Tengono un secondo consiglio di guerra dinanzi all'acqua che hanno scandagliata senza risultato. Probabilmente si decideranno per una fucilazione.

— Di chi?

— Diavolo! Della piena! — rispose serio il legionario.

— Tu riderai anche davanti alla morte.

— Se piangessi quel giorno, Madama quattr'ossa mi porterebbe via lo stesso; quindi troverei inutile il pianto. Mio caro papà moro, sono un legionario io, un pezzo di carne da cannone.

Il moro lo guardò per qualche istante sorridendo, poi scosse la testa e fece colla destra un largo gesto dicendo:

— Ah! Questi legionari! Se Abd-el-Kader ne avesse avuti mille, i frangi non avrebbero conquistata l'Algeria.

— Ne sono convinto anch'io, papà moro.

— Mostrami gli spahis.

Il toscano si alzò e si diresse verso una cresta la quale dominava le alture vicine e stese il braccio verso il sud dicendo:

— Li vedi?

Gli spahis avevano fatto il giro delle alture e si erano fermati dinanzi alla piena la quale si era estesa, a perdita d'occhio, anche verso levante.

Hassi li guardò per qualche minuto, e poi spinse i suoi sguardi verso la pianura che si svolgeva a settentrione. Un sorriso di soddisfazione comparve sulle sue labbra sottili.

Aveva scorto Ani sul suo mahari muovere in cerca degli spahis.

— Guardalo — disse al toscano.

— Chi è quell'uomo? Un Tuareg od un Cabilo? — chiese Enrico, il quale aveva subito notato il mahari.

— Non lo conosci più?

— Babbo moro, dammi un paio di occhiali se per caso li possiedi.

— È Ani.

— È stanco di vivere, il vecchio negro?

— Tutt'altro: lascialo fare.

Il legionario interrogò con lo sguardo il moro, ma questi era in quel momento troppo occupato a caricare di tabacco il suo cibuc.

— Vedremo che cosa succederà — borbottò coricandosi presso Hassi.

Ani aveva già notato, prima di lasciare la collina, il luogo dove si era fermato il drappello degli spahis, perciò mise subito il mahari in corsa, dirigendosi verso il settentrione, in modo però da farsi subito notare.

Infatti, non aveva percorso cinquecento metri, quando gli spahis si accorsero della sua presenza.

In un lampo si radunarono, volsero i cavalli e si slanciarono sulle tracce del fuggiasco, mandando alte grida e sparando in aria qualche colpo di pistola colla speranza d'intimorirlo.

L'improvvisa comparsa di quel figlio del deserto, poiché era facile scambiare il negro per un vero Tuareg, doveva aver fatto nascere nel cervello di Bassot dei gravi sospetti.

Di dove poteva essere sbucato, mentre tutto il sud era coperto dalla piena? Era stata questa la prima domanda che si era rivolta il sergente.

E poi, perché fuggiva mentre era obbligo per tutti gl'indigeni di fermarsi alla prima intimazione di qualunque soldato francese?

La caccia era cominciata con molto slancio da parte degli spahis, ma il mahari filava come una tromba marina e bastarono pochi minuti perché si trovasse fuori di portata dai moschetti dei cavalleggeri.

— Ecco uno spettacolo interessante — disse Enrico. — Mi pare di essere alle corse. Povero Bassot! Questa sera scoppierai come una bomba carica di rabbia feroce.

— E sfogherà la sua collera brutale contro i detenuti delle celle di rigore — disse una voce dietro di lui.

— Ah tu, conte! Buon giorno, bel Raggio dell'Atlante.

Il magnate era comparso insieme ad Afza per assistere a quell'emozionante inseguimento, poiché temeva non poco per Ani, potendo darsi che incontrasse improvvisamente un altro drappello di cavalleggeri battenti il nord della pianura.

Come abbiamo detto, gli spahis, avendo de' cavalli arabi non più freschi perché dovevano aver galoppato buona parte della notte, erano stati subito distanziati dal velocissimo cammello corridore.

Invano Bassot aveva urlato su tutti i toni al fuggiasco di fermarsi, minacciando di fucilarlo. Ani non si era nemmeno degnato di volgere la testa.

Vedendo che non obbediva, gli spahis levarono i moschetti e cominciarono un vero fuoco di fila, il quale non ebbe altro risultato che di far accelerare maggiormente la corsa del mahari.

La distanza ormai era troppa, perché i proiettili potessero giungere fino al negro e poi il galoppo sfrenato dei cavalli arabi rendeva il tiro estremamente difficile e probabilmente sarebbe stato inefficace anche se Ani non fosse stato fuori di portata.

Solamente un indigeno algerino avrebbe avuto qualche probabilità di riuscita, essendo abituati quegli intrepidi cavalieri a far fuoco tenendosi in sella.

Vedendo che non riuscivano a nulla, gli spahis si divisero in due gruppi coll'evidente intenzione di spingere il fuggiasco in direzione del bled o per lo meno di rendergli difficilissimo il ritorno verso il sud.

— Canaglie! — esclamò il toscano. — Che quel Bassot sia uno stratega di prima forza? Non vedi, conte?

— Ani avrà molto da fare a cavarsela se non riesce a far rattrappire le zampe dei cavalli prima di giungere in vista del campo. Fortunatamente la pianura è vasta, e con un mahari di quella forza potrà avere ancora buon giuoco, non è vero, Hassi?

— Non t'inquietare per lui, figlio — rispose il moro. — Ani farà correre tutti i cavalli del bled senza farsi prendere.

Il negro intanto conduceva la corsa con una velocità straordinaria, facendo sudare i cavalli arabi, i quali non solo non mantenevano la distanza, ma perdevano sempre più terreno.

Gli spahis avevano cessato il fuoco diventato ormai affatto inutile, e si allontanavano gli uni verso levante e gli altri verso ponente per poi risalire con molta probabilità verso il settentrione e spingere il fuggiasco sul bled. Avevano però da fare con un vecchio furbo, che conosceva tutte le astuzie della caccia all'uomo e Bassot non doveva tardare ad accorgersene. Ani, fatti percorrere al suo mahari cinque o sei chilometri mantenendo una linea rigorosamente retta, piegò d'improvviso verso ponente, eccitando il celere animale colla voce e colla corda.

Tagliava il gruppo condotto da Bassot. Questi, accortosi di quell'audace manovra, spinse i suoi cavalieri ventre a terra per giungere in tempo di fermare il fuggiasco sulla traversa con una scarica di moschetti.

Aveva però fatto i conti senza la prodigiosa rapidità del corridore del deserto, che manovrava su un terreno più adatto ai suoi piedi callosi, che alle unghie ferrate dei cavalli.

Ani tagliò la linea a cinque o seicento metri dal drappello e passò oltre, salutato da una viva fucilata che non poteva avere alcun effetto.

Urla furiose giunsero agli orecchi del conte e dei suoi compagni frammiste a spari.

— Se io fossi un generale di cavalleria farei subito nominare quel vecchio negro capitano — disse Enrico che non perdeva di vista un solo istante il bravo cammelliere. — Ha dato scacco matto a Bassot. Che cosa faranno ora gli spahis?

— Rinnoveranno il tentativo, richiamando il secondo drappello che corre dietro i raggi del sole — rispose il conte.

— I cavalli non potranno resistere a lungo ad un simile rischio, sotto questa pioggia di fuoco.

— Ed Ani lo ripeterà sei, otto, dieci volte — disse Hassi. — Non cesserà se non quando gli spahis si decideranno a fermarsi o a ripiegarsi sul bled in cerca di soccorsi.

— E noi intanto scapperemo, è vero, babbo moro? — chiese il toscano.

— Le acque si ritirano, e prima di questa sera le pianure del sud saranno accessibili ai nostri mahari.

— Ed andremo a riposarci nella cuba del tuo amico? — chiese il conte.

— Sì, figlio.

— Saremo al sicuro colà?

— Tutte le cube hanno una cella sotterranea abilmente nascosta dove si sta benissimo e al fresco. Quando gli spahis avranno rinunciato all'inseguimento, noi prenderemo la via dell'Atlante e andremo a chiedere la protezione dei Cabili della montagna e dei Senussi del deserto.

— Allora faccio una proposta — disse Enrico.

— Parla — disse il conte.

— Visto e considerato che Ani non ha bisogno di noi, almeno per ora, vado a preparare il kuskussù pel pranzo. Babbo moro, hai portato con te delle fave e qualche zucca da mescolarci insieme?

— Nei sacchi troverai tutto l'occorrente — rispose Hassi.

— Ehi, camerata, — disse in quel momento il conte — tu ti sei scordato un piatto importante.

— Quale?

— E le panterine? Non saranno le prime che passano attraverso i saldi stomachi della Legione.

— Corpo di una sogliola fritta, non ci pensavo più! Lascia fare a me, camerata: andrò ad arrostirle dentro il loro covo, così eviterò il pericolo che gli spahis possano scorgere il fumo.

Ciò detto, quel mattacchione si rimboccò le maniche e scese nella forra fischiettando allegramente.

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