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11.
LA CUBA DEL MARABUTO
La caccia all'ardito cammelliere di Hassi-el-Biac durò tutta la giornata con brevi interruzioni, poiché i cavalli non avevano, come abbiamo detto, la resistenza del mahari.
Anche Ani non aveva mancato di approfittare delle soste sempre più frequenti degli spahis, per concedere un po' di respiro al suo impareggiabile animale.
Sette volte, durante quelle dieci o dodici ore, era passato felicemente dinanzi ora ad uno ed ora all'altro drappello, sfuggendo sempre al fuoco dei moschetti.
Qualche ora prima del tramonto cinque spahis erano rimasti senza cavalli. Le povere bestie, completamente sfinite dal caldo e dalle continue trottate, erano stramazzate a terra insieme ai loro cavalieri, e forse per non rialzarsi più mai.
Scomparso l'astro diurno, i rifugiati della forra udirono in lontananza alcune salve, poi videro delinearsi sull'orizzonte appena illuminato dagli ultimi riflessi del tramonto la grande ombra del mahari.
Era solo: gli spahis erano scomparsi. Probabilmente a uno a uno erano caduti coi loro cavalli, oppure si erano accampati a molta distanza dalle alture.
Hassi ed il conte, lietissimi dell'esito di quella lunga corsa, condotta con abilità straordinaria dal vecchio cammelliere, s'affrettarono a caricare i mahari ed a ricondurli fuori della forra.
La ritirata verso il gran sud algerino era ormai possibile, poiché durante la giornata le acque si erano ritirate od erano state assorbite dal suolo arenoso.
Ani si era fermato alla base della collina per evitare al suo animale quella faticosa salita. Enrico, più lesto di tutti, gli era corso incontro portandogli una scodella di kuskussù e due cosciotti di panterine arrostite.
— Prendi, papà carbone — gli disse, mentre il negro balzava a terra. — Tu ti sei guadagnata questa cena, e sono lieto di offrirtela. Il pranzo lo farai domani.
Afza, Hassi ed il conte erano pure giunti, guidando i mahari attraverso le discese dell'altura.
— Gli spahis? — chiesero tutti ad una voce non senza ansietà.
— Tutti scavalcati — rispose il negro mentre divorava avidamente la cena.
— Non ne è rimasto uno in piedi? — chiese Hassi.
— Si sono accampati a tre o quattro miglia di qui, e credo che non li rivedrai tanto presto, padrone.
— E non ti hanno ferito?
— Mi tenevo ben lontano dai loro fucili e poi sparavano pessimamente. Non ho udito che una sola palla fischiarmi agli orecchi.
— Affrettati a mangiare, papà carbone — disse Enrico. — Sono buone queste panterine arrostite da me?
— Sì, signore.
— Da' un ultimo colpo di denti a quel cosciotto. Vivaddio! Con quei denti da coccodrillo io a quest'ora avrei divorato un elefante!
Il negro ingollò con avidità la cena preparata dall'allegro legionario, inaffiandola con una abbondante bevuta d'acqua pura.
— Può resistere il tuo mahari? — gli chiese Hassi il quale, contrariamente alla sua abitudine, si mostrava un po' impaziente come se temesse qualche altro pericolo.
— Djemel ha i garretti robusti, padrone — rispose Ani. — Può percorrere tranquillamente una cinquantina di miglia non ostante la corsa furiosa di quest'oggi. Posso chiedergli uno sforzo supremo e sono certo che non me lo negherà.
— È lontana la cuba del tuo amico? — chiese il conte.
— Una ventina di miglia — rispose Hassi.
— Allora tutto va bene.
Prese Afza fra le sue robuste braccia e la mise sul suo mahari favorito, dicendole, con un sorriso:
— La mia Afza non avrà paura, non è vero, ad attraversare di notte la bassa Algeria?
— No, mio signore: sono con te e con mio padre.
Hassi si assicurò con uno sguardo che tutto fosse pronto, poi lanciò il fischio stridente.
I sette mahari fecero il giro delle alture e si slanciarono attraverso la pianura ormai quasi interamente asciutta, poiché le piene dell'Algeria non hanno che una durata di poche ore.
Dilagano con grande furia essendo gli acquazzoni così abbondanti da non potersene fare un'idea, però svaniscono con altrettanta rapidità ed il sole s'incarica del resto.
Nel giugno, luglio ed agosto il sole tocca sovente i 40° gradi Rèaumur e anche li oltrepassa, e quella pioggia di fuoco assorbe tutto, potentemente aiutata anche dal terreno sabbioso delle immense pianure.
La luna era sorta dietro la grande catena dell'Atlante ed illuminava la via con dei raggi d'una intensità strana.
Nessun essere vivente si scorgeva su quella terra appena coperta da magri cespugli.
Sciacalli, jene, leoni, pantere, parevano fossero fuggiti dinanzi alla piena ritraendosi verso il settentrione o ripiegandosi verso le alte montagne che servono come di frontiera al grande deserto.
Hassi, come sempre, guidava il drappello tenendo sulle ginocchia il suo lungo fucile marocchino ed aguzzava gli sguardi, non già che temesse qualche sorpresa da parte degli spahis.
A quei cavalleggeri, almeno pel momento, non ci pensava, quantunque non si facesse soverchie illusioni. Presto o tardi era sicurissimo di rivederli sulla sua via, e così pure l'ungherese.
La corsa continuava da un paio d'ore abbastanza rapida, essendo il terreno ancora troppo umido per le zampe dei corridori del Sahara, quando il mahari di Hassi fece un soprassalto e si arrestò di colpo fra due linee di cespugli altissimi.
— Si è spezzato una gamba? — chiese Enrico.
— Un mahari non cade mai sulle sabbie natìe — rispose Hassi. — E poi non è caduto.
— Perché si è fermato allora? — chiese il magnate.
— Lui lo saprà.
— Vedi nulla dinanzi a te?
— No per ora, figlio. Sono carichi i vostri fucili?
— Ecco una domanda sospetta — disse il toscano. — Qui gatta ci cova e babbo moro sa di che cosa si tratta, ma non vuol dirlo.
I mahari dovevano aver fiutato qualche pericolo, poiché si erano stretti l'uno contro l'altro, volgendo le teste verso i loro padroni come per chiedere protezione.
Eppure nella pianura, illuminata splendidamente dalla luna, non si scorgeva alcun animale, né si udiva alcun ululato di sciacalli, né scoppi di risa di jene, né brontolii di pantere o di leopardi.
Era vero, però, che sul passaggio dei mahari si trovavano numerosi ed altissimi cespugli i quali potevano nascondere parecchie belve.
— Dunque, Hassi? — chiese il magnate al moro, che continuava ad osservare attentamente le piante. — Si va innanzi? Non dimenticare che gli spahis possono aver ricevuto dei cavalli freschi dal bled e correre di nuovo sulle nostre tracce.
— Non sono i frangi del penitenziario che m'inquietano in questo momento — rispose il moro.
— Prova a spingere il tuo mahari. Abbiamo i fucili armati.
Hassi esitò un momento, poi diede al suo cammello corridore un colpo di corda, che scoppiettò vivamente sul lunghissimo collo.
L'animale però, quantunque non abituato a quel ruvido trattamento, invece di riprendere la corsa si strinse maggiormente contro i compagni, alzando ed abbassando con forza la testa.
— Lo vedi, figlio? — disse il moro. — Ha fiutato il pericolo e si rifiuta di avanzare. Potresti ammazzarlo, eppure non riusciresti a deciderlo a fare un passo innanzi.
— Babbo moro — disse il toscano. — Vuoi che vada a vedere che cosa si trova dinanzi a noi?
— Ti consiglio di non abbandonare il tuo mahari.
— Dovremo passare la notte a contemplare la luna ed i begli occhi del Raggio dell'Atlante?
Afza fece udire il suo riso argentino; Hassi invece, quantunque buon mussulmano, lanciò una imprecazione contro il Profeta.
— Ecco un altro che si scredita — borbottò Enrico.
— Perché bestemmi, Hassi? — chiese il conte.
— Perché quelle bestie ci fanno perdere il tempo a vantaggio degli spahis.
— Ma quali bestie?
Il moro stava per rispondere, quando due ombre balzarono fuori da un cespuglio mettendosi a correre, con slanci straordinari intorno al gruppo formato da quattro mahari.
— Corbezzoli! — esclamò Enrico, colla sua solita calma ironica. — Dopo le pantere e le panterine, ecco i signori leoni! Decisamente la bassa Algeria non è abitabile per le persone che desidererebbero godere gli ozi della campagna africana! So però...
Un ruggito formidabile, che rintronò sinistramente nella deserta pianura, gli mozzò la frase: che cosa voleva dire quel mattacchione?
I due leoni, un maschio di forme superbe, un vero leone sceso dalle selve dell'Atlante, con una superba criniera quasi nera ed una femmina più snella, più agile eppure non meno pericolosa, avevano cominciato a saltellare intorno ai mahari tenendosi però, almeno pel momento, ad una certa distanza. I loro scatti erano così fulminei, da rendere molto incerta la mira.
— Formiamo il quadrato coi mahari di ricambio ed Afza nel centro — disse subito il conte. — Sarà il miglior modo per tener testa a questi formidabili divoratori d'uomini. Per attaccarci così, allo scoperto, devono essere molto affamati e perciò doppiamente pericolosi.
— È vero — aggiunse Hassi.
In un lampo rinchiusero Afza fra i mahari di riserva e ognuno volse la fronte sui quattro angoli, tenendo i fucili puntati. Pareva però che i leoni non avessero troppa premura di assalire la piccola carovana, poiché continuavano a saltellare di cespuglio in cespuglio descrivendo un ampio circolo.
Di quando in quando si riposavano qualche istante, uno da una parte ed uno dall'altra per impedire ai mahari una pronta fuga, poi tornavano a scattare mandando dei sordi ruggiti, e riprendevano la loro corsa circolare.
Lo spettacolo era bello ma anche impressionantissimo. Quelle due terribili belve, in piena libertà, scorrazzanti la pianura sotto la luce lunare producevano su tutti una profonda impressione.
— Toh! — disse il toscano forzandosi a sorridere. — Mi è venuto un sospetto.
— Quale? — chiese il conte il quale gli volgeva le spalle, occupando l'angolo opposto.
— Che queste due bestiacce non abbiano che la buona ed encomiabile intenzione di offrirci lo spettacolo di una danza leonina.
— Sì, fidati di quel ballerino! Anzi, dovresti andare a porgere i tuoi omaggi alla sua compagna.
— Il signor leone potrebbe offendersi di tanta famigliarità, prender cocci e darmi una prova della sua robustezza, delle sue unghie e dei suoi denti. La ringrazierò un'altra volta, se la incontrerò in piena foresta senza il marito, e le regalerò una palla di piombo. Guarda come danzano graziosamente! Spiccano dei salti che devono misurare almeno sei metri.
— E come sono abili nello stringere il cerchio — disse il conte. — Non ve ne siete accorti?
— Io sono miope — rispose Enrico.
— Vengono a tiro — disse invece Hassi. — Appena saranno a buona portata proveremo a sparare due colpi di fucile. Non fate fuoco tutti ad un tempo, perché ci troveremo colle sole pistole armate, e queste non si prestano troppo alla mira.
Il leone e la leonessa infatti, a poco a poco, stringevano il cerchio preparandosi ad un fulmineo attacco.
Conoscendo probabilmente le armi da fuoco delle quali dovevano forse qualche volta aver provati i terribili effetti, diventavano ora più prudenti, soffermandosi più di frequente in mezzo ai cespugli che erano in buon numero dispersi per la pianura.
Volevano probabilmente riservarsi buona parte delle forze per l'ultimo slancio.
— Sono a buon tiro — disse ad un certo momento il moro, che conosceva meglio di tutti la portata dei suoi fucili. — Chi vuol provare?
— Io — rispose il toscano.
— Ed anch'io, padrone, se me lo permetti — disse Ani.
— Aspettate che siano fermi e fate fuoco con calma. Tu, Afza, non far uso del tuo fucile che all'ultimo momento, qualunque cosa debba accadere.
— Sì, padre — rispose la fanciulla che conservava una calma meravigliosa.
Il toscano ed il negro, i quali occupavano due angoli opposti del piccolo quadrato, si assicurarono bene sulla sella e puntarono i fucili sulle due belve, le quali eseguivano sempre la loro corsa circolare in senso inverso per tenere i mahari chiusi nel centro ed in caso di fuga poterli, l'una o l'altra, più facilmente raggiungere.
— A me il leone — aveva detto Enrico.
— A me la femmina — aveva risposto il negro.
— Spara adagio, papà carbone.
Il leone aveva compiuto il suo giro e rimontava verso l'angolo formato dal mahari del toscano, mentre la femmina ridiscendeva, dal lato opposto, verso quello formato dal mahari di Ani.
Il momento era propizio poiché i due animali stavano per passare, l'uno a destra e l'altro a sinistra del quadrato, dinanzi ai due tiratori.
Il leone, quasi si fosse accorto per istinto che lo prendevano di mira, giunto di fronte al toscano sostò di colpo, lasciandosi cadere lungo disteso in mezzo ad un cespuglio che si innalzava appena duecento metri dal gruppo di mahari.
— Ah! Furfante! — esclamò il legionario il quale lo teneva già sotto mira. — Non credevo che i re delle foreste fossero così prudenti e che avessero paura di un catenaccio come quello che tengo fra le mani. Pazienza se avessi una carabina!
— Non resterà molto nascosto — disse il conte. — D'altronde puoi arrischiare il tuo colpo: sai dove si è coricato anche se sei miope.
— No, in questo momento sono diventato presbite, e sarei capace di veder una mosca volare sulle montagne dell'Atlante. Ah! Non si decide a lasciare il posto! Aspetta, amico!
Aveva ripresa la mira. Il leone non accennava a muoversi, ma ruggiva ferocemente e di quando in quando sferzava a tutto spiano, colla coda, gli arbusti che lo circondavano, schiantandoli.
Ad un tratto un colpo di fuoco interruppe i ruggiti.
Il legionario aveva sparato in mezzo al cespuglio ma il leone non si era mosso.
Pareva che fosse stato fulminato sul posto per un caso proprio eccezionale, poiché quegli animali se non vengono colpiti al cuore o al cervello reggono a parecchie palle.
— Ehi, camerata — disse il conte. — Hai fatto barilotto?
— Io non so — rispose il toscano, il quale ricaricava precipitosamente il fucile. — Bisognerebbe andare a vedere, giacché manca il segnalatore.
— E chi ci va?
— Io no di certo.
— Che cosa dici, Hassi?
— Che il leone non ha fatto udire il suo ruggito di morte — rispose il moro.
— Che finga dunque di essere morto?
— Certo, e colla speranza che qualcuno di noi si decida di andare ad assicurarsene per poi balzargli improvvisamente addosso.
— Non sarò io quello — disse il toscano. — E tu, Ani, che cosa fai? Manda almeno a casa del diavolo la danzatrice. Lo spettacolo ormai è finito, e possiamo fare a meno del passo a due.
— Non si mostra, signore: ha eseguita la manovra del suo compagno.
— Spara in mezzo alle piante.
— Sarà probabilmente una palla perduta.
— Ne abbiamo altre — disse Hassi. — Spara!
Il negro s'alzò più che potè sulla sella, con la speranza di scoprire la belva che si teneva non meno immobile del maschio, e fece partire il colpo. Quasi subito gli sterpi si aprirono e la leonessa comparve avvoltolandosi su se stessa parecchie volte.
— Papà carbone l'ha colpita! — gridò il toscano.
— Fuoco, figlio, prima che si rimetta in piedi.
Era troppo tardi. La leonessa, quantunque dovesse aver ricevuta la palla del negro, si era rialzata riprendendo la sua corsa circolare.
Quasi nel medesimo tempo anche il leone balzava fuori, con un gran salto, dal suo nascondiglio.
Il toscano che lo sorvegliava e che aveva già ricaricato il fucile, gli sparò addosso un secondo colpo, subito imitato dal conte, il quale desiderava di finirla per non lasciare troppo tempo agli spahis.
Il leone questa volta spiccò un salto indietro ripiegandosi due volte su se stesso, e mandando un ruggito così terribile che parve un colpo di tuono.
Rimase un momento immobile, colla criniera irta che lo faceva parere due volte più grosso, si leccò rabbiosamente un fianco, poi tornò a scattare muovendo diritto verso la piccola carovana.
Faceva paura a vederlo, anzi più che paura. Procedeva a sbalzi, colla bocca spalancata, la criniera al vento, ruggendo terribilmente. Il re delle foreste non voleva cadere invendicato, poiché doveva essere stato gravemente ferito e raccoglieva le sue ultime forze per l'attacco supremo.
Hassi aveva mandato un grido:
— Impugnate le pistole! Non avete il tempo di ricaricare!
In quell'istante anche dall'altra parte si udì risuonare un ruggito, però meno forte e meno selvaggio.
La leonessa, vedendo il compagno slanciarsi disperatamente all'assalto, attaccava a sua volta con non meno vigore.
Erano così agili quei due formidabili animali che pareva non toccassero nemmeno il suolo. Appena ricadevano si rialzavano di scatto, spiccando salti di sei a sette metri.
— Attenti! — gridò Hassi. — Proteggete il Raggio dell'Atlante.
Aveva voltato il suo mahari verso il leone, il quale era molto più pericoloso della femmina. Aspettò che fosse giunto a cinquanta passi, poi fece risolutamente fuoco.
Colpito o no, il leone continuò la sua corsa. Afza alzò anche lei il fucile, e sparò mentre il conte scaricava le sue pistole.
Quella scarica era stata fatale al superbo re delle foreste. Colpito replicatamente, poiché aveva di fronte dei tiratori di prima forza, fece un brusco scatto e si lasciò cadere con pesantezza fra le erbe, a meno di venti passi distante dal mahari di Hassi-el-Biac.
Mentre il magnate ungherese, il moro e il Raggio dell'Atlante si sbarazzavano con tanta fortuna di quel terribile avversario, Ani ed il toscano erano venuti alle prese colla leonessa che si spingeva all'assalto con non meno coraggio del suo compagno, quantunque anch'essa fosse stata ferita.
Più astuta del maschio, da vera femmina, con sbalzi ora a destra e ora a sinistra sfuggì ai due colpi di fucile sparatile addosso e si avventò contro Ani strappandolo dalla sella e cercando di stritolargli il cranio fra le poderose mascelle. Al grido di terrore mandato dal disgraziato, Enrico, il conte ed Hassi si erano precipitati giù dai mahari impugnando gli yatagan. Il primo che aveva le sue pistole ancora cariche, e che si trovava più vicino, in un lampo fu addosso alla leonessa.
Puntarle una delle due armi dentro un orecchio della belva e sparare, fu l'affare d'un momento. La morte fu istantanea. La grossa palla rotonda della pistola marocchina aveva spaccato il cranio alla leonessa nel momento in cui stava per azzannare quello del povero Ani.
— Papà carbone! — gridò il legionario alzandolo prontamente. — Ti ha mangiato un orecchio?
— Ma no, signore — rispose il negro, quasi sorridendo. — È il mio tatti che ha fatto le spese.
— Lo venderai a qualche straccione del deserto e te ne prenderai un altro.
— Sì, signore.
— Ecco accomodata la faccenda. Ed il leone?
— Morto — rispose il conte.
— Era tempo che mandasse la sua anima a passeggiare fra le foreste dell'Africa equatoriale, se è vero che là si trova il paradiso o l'inferno di tutte le bestie feroci del continente tenebroso.
— Chi ti ha detto questo? — chiese il conte ridendo.
— Un arabo che si spacciava per un discendente di Maometto, e che per campare la vita mostrava di mangiare foglie spinose di fichi d'India e si abbrustoliva i piedi con lastre di ferro arroventato. Poveri tardi pronipoti di quel bravo uomo che non beveva mai vino.
— Io credo che il sole dell'Algeria ti abbia sconvolto il cervello, Enrico — disse il conte.
— Bah! Il cervello a un avvocato e per di più bocciato! Tu sogni, mio caro camerata. È forse proibito di scherzare, nella bassa Algeria?
— Tu morrai scherzando nella bocca di qualche leone o di qualche pantera.
— Che pessimo augurio!
In quel momento Hassi, il quale stava osservando la leonessa per vedere dove era stata ferita, fece un salto.
— Che cos'hai, babbo moro? — chiese Enrico. — Una scossa di terremoto forse?
— Gli spahis!
— Eh! Sogni?
— Gli spahis — ripetè Hassi-el-Biac con voce grave. — Un moro non s'inganna mai sulla battuta dei cavalli sul suolo sabbioso.
— Non t'inganni, Hassi? — chiese il conte.
— No, figlio.
— Io non odo nulla.
— Guarda che cosa fa Ani: ascolta anche lui, e Afza cerca di raccogliere un lontano rumore che forse non distingue ancora. Noi siamo i figli del grande deserto.
Il conte ed il toscano, quantunque abituati alla guerra, tesero gli orecchi e non riuscirono a raccogliere nessun suono, né in alto né in basso.
— In sella! — comandò il moro con voce imperiosa. — La caccia all'uomo ricomincia.
— E quando finirà? — chiese Enrico con aria annoiata.
— Quando avremo raggiunto l'Atlante ed avremo ottenuta la protezione dei Senussi — rispose Hassi. — Orsù, non perdiamo tempo ora che ci siamo sbarazzati dei leoni e che la via è libera.
Tutti balzarono in sella, ed i mahari, condotti dal moro, partirono a corsa sfrenata, abbassandosi e rialzandosi. Fortunatamente il terreno era ancora umido, e mancava la polvere.
Se Ani era un cammelliere insuperabile, Hassi-el-Biac, allevatore di mahari non lo era meno di lui e conosceva il segreto di farli galoppare più che velocemente.
Di quando in quando intonava una monotona canzone, che a poco a poco accelerava, ed i bravi animali, eccitati da quel canto, affrettavano il passo come se fossero danzatori che si sfidano ad un galop sfrenato.
Il cammello comune non si cura gran che della voce umana, e forse nemmeno dei buoni trattamenti; il mahari apprezza l'una e gli altri e pare che gradisca quelle speciali gentilezze.
Le pianure si succedevano alle pianure, sempre aride, incolte, disabitate, cosparse solo di magri cespugli e di gruppetti di palme semiintristite.
Solamente a lunghi intervalli i fuggiaschi vedevano sorgere, quasi improvvisamente, tanto era rapida la corsa, degli splendidi gruppi di datteri dietro ai quali forse si nascondevano dei piccoli duar.
Hassi di quando in quando si curvava verso il suolo come se cercasse di raccogliere qualche lontano rumore, poi aizzava il suo mahari con la voce e con la corda, quantunque il povero animale divorasse la via con la velocità di un treno, aspirando affannosamente l'aria. Quella corsa durava da ben quattro ore, sempre attraverso a pianure deserte, quando una piccola altura si delineò sull'orizzonte, sormontata da una specie di dado bianco.
— La cuba di Muley-Hari! — esclamò Hassi. — Finalmente! Là troveremo un asilo sicuro, e potremo riposarci...
— Le reni spezzate — aggiunse il toscano. — Corrono come se avessero le ali questi bravissimi animali, però amo meglio montare dei buoni cavalli arabi... Sono completamente fracassato.
— Ti abituerai — rispose il conte. — Mia moglie non si lagna, eppure non fa parte della famosa Legione straniera.
— Hai ragione, conte, ed io arrossisco dinanzi a lei, ma tu devi anche pensare che sono nato in Italia e non nell'Algeria. La tua graziosa moglie è una figlia del deserto, mentre io sono un figlio del... paese delle eccellenti sogliole fritte. Che peccato che non se ne peschino fra le sabbie di questo paese!
— Mio caro, qui non si pescano che dei leoni e delle pantere e qualche leopardo.
— Preferisco i pesci del Tirreno.
— Li mangerai quando tornerai laggiù.
— A che cosa fare?
— Diamine! L'avvocato bocciato.
— Bel mestiere! È per questo che mi hai portato via dal bled? Preferisco diventare un Tuareg o diventare uno scorridore del deserto.
— Ehi, camerata, credi tu che il conte di Sawa sia proprio un ingrato?
— No, quantunque nel tuo paese si facciano ballare gli orsi.
— Ah! Vattene al diavolo! — esclamò il conte.
— È troppo presto, camerata. Voglio prima vedere le splendide montagne dove è nata tua moglie.
— Foreste, foreste e foreste — disse Afza, che non perdeva una parola di quel dialogo allegro.
— E poi?
— E sciacalli.
— E poi?
— E jene e leoni.
— Il paradiso dei cacciatori! Vi sono almeno anche degli elefanti? Vorrei tornare in patria con qualche centinaio di denti e piantare a Livorno una grandiosa fabbrica di pettini. Che ne dici tu, conte, della mia idea meravigliosa?
— Hum! — fece il magnate. — Sarà un po' difficile, che tu ne trovi lassù. Però potrai fare una bella raccolta d'unghie di leoni e metterle in commercio. Si dice che usino molto, oggidì, appese alla catena dell'orologio.
— Là!... Là!... Tu vuoi farmi mangiare prima che esca dall'Algeria!... — disse il toscano. — Questo è il paese degli antropofaghi a due e a quattro gambe.
— La cuba — disse in quel momento Hassi.
— Un bel dado per giuocare all'oca — disse il toscano.
Un dado veramente non era che in parte, ossia nella parte inferiore.
Quelle costruzioni, per il solito piccole, sono formate da quattro pareti tenute accuratamente bianche e da una cupola di fango secco che ha poca consistenza, così poca, anzi, che le piogge dopo un paio d'anni le foracchiano, richiedendo una continua riparazione.
Quei pittoreschi tempietti si trovano dispersi in gran numero nelle lande infinite della bassa Algeria, della Tripolitania, della Tunisia e del Marocco, e servono di sepoltura ai marabuti, ossia ai sacerdoti dell'Islam ritenuti santi.
Una o due palme li ombreggiano, e quasi sempre si trova a breve distanza una fontana d'acqua eccellente e abbastanza fresca dove i cammelli si dissetano avidamente.
Un uomo le abita, un santone anche lui, e che per lo più è un pazzo poiché i pazzi vengono creduti tocchi dalla grazia di Allah. Coltiva un pezzo di terra, vive di elemosina e, in mancanza di altro, fa la cura delle erbe.
Non in tutte però abita un alienato. Parecchie, specialmente quelle che si trovano nelle vicinanze del deserto, sono abitate da affigliati della grande setta dei Senussi, i quali si servono delle cube come di depositi d'armi per le future insurrezioni.
Quelle hanno un sotterraneo abilmente dissimulato, perché i francesi non possano scoprire quei piccoli arsenali. Quando una rivolta scoppia, aizzata quasi sempre dalla potente società, la quale ha giurato un odio inestinguibile al cristiano, fucili, pistole, lance, yatagan, pugnali vengono tolti da quei nascondigli e dispensati ai combattenti.
Hassi mise il suo mahari al passo, trovandosi la cuba, come abbiamo detto, su un'altura, e cominciò la salita. Giunto sulla piccola spianata, trasse una pistola e sparò un colpo in aria.
Un momento dopo, un filo di luce sgusciò attraverso uno stretto pertugio che serviva da finestra e una voce chiese:
— Che cosa si vuole da me, a quest'ora? La fonte, se avete da abbeverare dei cammelli, è a cinquanta passi dalle due palme.
— Sono Hassi-el-Biac, apri — disse il moro.
Nell'interno della cuba si udì un po' di tramestio, poi la porticina si aprì, e un uomo barbuto, d'aspetto fiero, che sembrava più un guerriero che un sacerdote dell'Islam, vestito d'un lungo caffettano di lana oscura, comparve tenendo in mano un pistolone a due canne.
— Salute a te, amico — disse, riconoscendo Hassi.
Poi fece un passo indietro, lanciando sui due legionari uno sguardo sospettoso.
— Dei frangi! — esclamò.
— Sono miei amici e non hai nulla da temere da loro.
— Qui è sepolto un santone, e loro sono cristiani!
— Passa sopra a tutto in questo momento — rispose il moro. — Allah e Maometto ti perdoneranno. Siamo inseguiti dagli spahis del bled e chiediamo a te ospitalità. Dammi una prova della tua vecchia amicizia.
— Se vorrai te ne darò anche dieci, Hassi. Entrate.
Il moro, Afza e i due legionari si curvarono per passare sotto la porticina e fecero la loro entrata nella tomba di chissà quale santone, forse nemmeno registrato dal calendario mussulmano.