< Sull'Atlante
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12. Nella cuba di Muley-Hari
11. La cuba del marabuto 13. Sepolti vivi

12.

NELLA CUBA DI MULEY-HARI


L'interno della cuba consisteva in una sala di forma perfettamente quadrata, dalle pareti tutte bianche con qualche versetto del Corano dipinto in rosso.

Alcuni vecchi tappeti coprivano il pavimento, e i soli mobili erano un mucchio di stuoie sovrapposte a una specie di palanchino primitivo e che dovevano servire di letto al marabuto; due vasi di terracotta pieni d'acqua, e tre grandi panieri, accuratamente coperti e che probabilmente racchiudevano dei serpenti pericolosissimi, essendo gli Aissana dei famosi incantatori.

— Avevo ricevuto il tuo messaggio, — disse il marabuto rivolgendosi verso Hassi-el-Biac — però, non credevo di vederti giungere così presto.

— Gli spahis danno la caccia al marito di Afza — rispose il moro. — Io non potevo ritardare d'un solo minuto la mia fuga.

— So che il Raggio dell'Atlante ha sposato un frangi che non è veramente un frangi.

— Meglio così: ciò mi eviterà altre spiegazioni. Ti ho detto che siamo inseguiti da vicino, e che noi dobbiamo guadagnare le grandi foreste dell'Atlante. È però necessaria una tua raccomandazione pei Senussi. Se non l'avessi, ucciderebbero i frangi e mia figlia piangerebbe troppo.

— Tu l'avrai — rispose il marabuto. — Sono lontani gli spahis?

— Forse meno di quello che tu credi.

— Va bene.

— Hai un nascondiglio sicuro, Muley-Hari?

— Sfido gli spahis a trovarlo, e poi ho qualche cosa di meglio per farli scappare. Noi siamo ben più furbi dei frangi. Vi è un uomo forte con te?

— Eccomi — disse il conte, che conosceva perfettamente la lingua araba.

Il marabuto levò il tappeto che si trovava proprio nel centro della cuba, e apparve un anello.

Vi passò una sbarra di ferro, e col concorso del magiaro levò una pietra che aveva quasi un metro quadrato.

— Ecco il sepolcro di Sidi Amar, il santone — disse, mostrando una piccola scala di pietra che metteva in un sotterraneo.

— E noi dovremo scendere in quel sepolcreto? — chiese il toscano il quale comprendeva pure la lingua araba.

— Gli spahis non oseranno turbare il riposo del sant'uomo perché le leggi lo proibiscono — disse il marabuto. — O rifugiarvi lì dentro o farvi prendere: scegliete.

— E non soffocheremo quando tu avrai rimesso a posto la pietra? — chiese il magiaro.

— I nostri rifugi sono stati costruiti da uomini che hanno pensato a tutto. L'aria circola benissimo lì dentro, essendo condotta da tubi di piombo nascosti nel suolo e che vanno molto lontano.

— Ed i mahari? — chiese Hassi-el-Biac.

— Non posso io allevare dei cammelli? Chi me lo proibisce? Togliete a loro le selle, le provviste, tutto ciò che possa tradire una improvvisa partenza, e lasciate fare a me il resto. Fate presto. Mi pare di udire in lontananza il galoppo di molti cavalli!

Ani, Enrico ed il moro si slanciarono fuori e tolsero ai cammelli selle, gualdrappe, cinghie, coltri e sacchetti pieni di provviste, gettarono tutto giù dalla scaletta.

Il marabuto intanto aveva staccato due lampade di rame piene d'olio e le aveva accese consegnandone una al conte e l'altra ad Afza.

— Scendete — disse poi.

— Una parola prima — disse il conte. — Se gli spahis scoprono l'anello non leveranno la pietra?

Il marabuto sorrise.

— Quando voi sarete lì sotto, l'anello non vi sarà più e la pietra combacierà così perfettamente da ingannare l'occhio più scrutatore.

— Mentre a Bassot ne manca uno ed è proprio il destro — disse il toscano.

— Siete pronti?

— Sì — risposero tutti a una voce.

— Scendete.

— Andiamo a tenere compagnia al santone — disse il toscano. — Speriamo che sia morto da moltissimi anni, e che perciò le sue santissime carni non puzzino più.

Scesero uno a uno la scaletta, portando le lampade, e si trovarono in un sotterraneo vasto quanto la cuba, colle pareti coperte d'armi d'ogni specie: fucili algerini e marocchini, pistoloni a una ed a due canne, scimitarre, yatagan, lance, pugnali d'ogni forma e d'ogni misura.

In un angolo vi erano diversi barilotti ammonticchiati con cura e coperti in parte da vecchi tappeti per preservarli dall'umidità e contenenti probabilmente polveri e palle.

Era uno dei tanti arsenali dei Senussi, affidati ai fedeli marabuti dell'associazione.

— Ed il santone dov'è? — chiese Enrico che cercava invano la tomba.

— Probabilmente non è mai esistito — rispose Hassi-el-Biac sorridendo. — Si fa credere che vi sia stato sepolto per nascondere meglio questi arsenali.

— Allora mi troverò meglio qui, poiché, a dire il vero, la compagnia dei morti non l'ho mai gradita.

— Badate di tener lontane le lampade da quei barili — disse il conte. — Qui si corre il pericolo di saltare in aria.

— Insieme al marabuto — aggiunse Enrico.

In quell'istante si udì un colpo secco. La pietra era stata fatta scivolare, e i fuggiaschi si trovavano chiusi entro la tomba.

Il marabuto, chiuso il sotterraneo, si era accostato ai due grandi panieri, e si era messo a contemplarli con un sorriso strano.

— I leffà ed i bumen-fak sono bravissime bestie per gli Afesana ma non amano i frangi. Vengano gli spahis, e preparerò loro una sorpresa poco gradita. Già i cristiani non amano i rettili che il grande Maometto invece adorava più dei suoi gatti.

Gettò il mantellone di lana oscuro, mettendo allo scoperto un dorso robustissimo, color del pane bigio, si strinse i calzoni larghi di tela più o meno bianca che gli scendevano fino alle caviglie dei piedi, e tolse il coperchio ai due panieri zufolando dolcemente.

Dei sibili risposero alla sua chiamata, poi dieci o dodici serpenti, lunghi quasi un metro, colla pelle marmorizzata, balzarono fuori strisciando sul pavimento della cuba.

— A me il bumen-fak (padre dell'enfiagione) — disse. — È un po' di tempo che non ti accarezzo, mia gioia. Tu morderai gli spahis appena si mostreranno. Il tuo veleno è terribile, e non vi è alcun rimedio per chi non appartiene alla sètta degli Aissana. Vieni, piccino! Tuo padre ti vuol baciare.

Il serpente strisciò verso il marabuto, agitando festosamente la coda e si arrotolò dinanzi a lui mostrando la lingua biforcuta.

— Avanti i leffà, ora — continuò il marabuto con voce dolcissima. — Anche voi siete buoni per gli spahis. Un morso solo e l'uomo va a trovare le uri di Maometto se è mussulmano o il paradiso dei cristiani, se ne esiste uno. Quella gente non vedranno mai le splendide uri che il grande Profeta ci ha promesso. Sono maledetti! Avanti i leffà.

Sei o sette serpenti balzarono fuori dai panieri, strisciarono saltellando sul pavimento e si arrotolarono, come il bumen-fak, dinanzi al marabuto.

— Ecco per gli spahis — disse il sacerdote, ridendo. — Vi preparo, miei cari, un ricevimento degno di voi. Ma ho ancora un cobra e quello è terribile per chi non appartiene alla nostra sètta. Avanzati anche tu, Kafir! Tu dormi troppo.

Fischiò sommessamente, su un tono diverso, e un superbo serpente, lungo quasi tre metri, con le scaglie verdastre a rigature brune, che aveva intorno agli occhi una rigatura gialla che bene o male rappresentava un paio d'occhiali, uscì da uno dei due panieri e mosse sollecitamente verso il marabuto, alzando ed abbassando quella specie di cappuccio che gli copre la testa.

— Ho bisogno del tuo veleno, Kafir — disse il marabuto.

Il serpente lo guardò coi suoi occhietti neri, scintillanti come carbonchi, poi anche quello si arrotolò dinanzi a lui.

Allora l'Aissana ne prese uno e si mise a maneggiarlo, pizzicandogli fortemente la coda per eccitarlo.

Quando lo vide furibondo lo scagliò in un angolo della cuba lasciandolo sibilare con rabbia a suo piacimento, poi prese a uno a uno gli altri, facendoli volteggiare in aria con meravigliosa destrezza e senza prendersi alcuna cura di guardarsi dai loro morsi.

Tutti gli affigliati alla sètta degli Aissana maneggiano impunemente i serpenti, anche i più velenosi, e sovente perfino li mangiano vivi senza risentirne alcun danno.

Essi affermano che il veleno non ha alcun effetto sugli affigliati perché godono la protezione di Sidi-Mohamed-ben-Aissa, uno dei tanti santoni adorati dai mussulmani dell'Algeria e del Marocco, ma questo non può esser vero, ed è facile a capirlo.

Probabilmente hanno trovato un antidoto sicurissimo contro il veleno dei rettili, anche dei più pericolosi come il cobra o serpente dagli occhiali e del leffà, e conservano gelosamente il segreto.

Si è creduto più volte, vedendo quegli affigliati giuocare coi serpenti sulle pubbliche piazze con pazza temerità, che facessero prima mordere ai loro pericolosi rettili dei pezzi di stoffa, per privarli completamente del veleno.

Si è però provato facilmente che il veleno lo conservavano intatto nelle glandole.

Un medico della marina francese, trovandosi a Tangeri e vedendo un Aissana lasciarsi mordere tranquillamente da un cobra fino a far sanguinare il braccio, poiché non credeva affatto alla protezione del santone Sidi-Mohamed né all'efficacia degli antidoti misteriosi degli affigliati, tentò di fare il pericoloso esperimento, sicuro di non lasciarci la pelle.

L'Aissana gli chiese dapprima se era ascritto fra gli adoratori di serpenti, ed avuta una risposta negativa, si rifiutò di mettergli in mano il cobra, che in quel momento stava maneggiando.

— Se tu, frangi, non credi alla protezione che Sidi-Mohamed accorda a noi, compra una gallina ed io ti farò vedere.

Il mercato era vicinissimo, e riuscì facile al medico di acquistare, per pochi soldi, un magnifico gallo che fece subito mordere dal cobra già irritato dall'Aissana.

Due minuti dopo, il disgraziato volatile era morto! Si narra che da quel giorno il medico si sia guardato bene dall'avvicinarsi non solo ai serpenti ma bensì anche ai loro adoratori.

Il marabuto non cessava intanto di irritare i suoi leffà, il suo cobra ed i suoi bumen-fak. Li pizzicava, mordeva le loro code fino a farle sanguinare, li gettava in aria, li sbatacchiava contro il suolo rendendoli sempre più furiosi.

La cuba risuonava di fischi e di sibili. I rettili, al colmo della collera, saltellavano in tutte le direzioni, anziché strisciare scivolavano fra le gambe del loro torturatore, cercando di morderlo.

Di quando in quando Muley-Hari s'interrompeva e si metteva in ascolto. Il galoppo lontano che poco prima aveva avvertito, diventava di momento in momento più distinto.

Erano certamente gli spahis che si avvicinavano. Dovevano aver scoperto, sul terreno sabbioso e non mosso dal vento, le tracce dei mahari e le seguivano accanitamente.

Passarono cinque minuti poi il galoppo furioso cessò proprio dinanzi alla cuba, seguito invece da una salva di nitriti e bestemmie.

Il marabuto non si era mosso: continuava a giuocare coi suoi serpenti, o meglio, continuava a irritarli.

Una voce rauca e nello stesso tempo imperiosa, echeggiò al di fuori.

— Ehi, santone di Maometto, apri. Siamo gli spahis della Francia.

— Entrate liberamente — rispose Muley-Hari, alzandosi. — La porta è aperta e la mia cuba offre un asilo sicuro ai seguaci del Profeta.

La porta si spalancò sotto un formidabile calcio, e Bassot, l'occhio bianco del bled, comparve tenendo in mano la sciabola.

Vedendo tutti quei serpenti saltellare sul pavimento, fischiando e sibilando, fece prontamente due passi indietro urlando: — Mascalzone d'un Aissana! Ritira quelle bestie o ti uccido!

— Io non posso più ridurli all'obbedienza, mio signore — rispose il marabuto. — Non so che cosa sia avvenuto, ma il fatto è che sono furibondi, e che comincio ad aver paura anch'io. Guardati da loro, perché sono tutti velenosissimi.

— Sidi-Mohamed non protegge più dunque gli Aissana? -— chiese Bassot, il quale si teneva prudentemente fuori della porta.

— Pare che si sia stancato.

— Mandalo al diavolo insieme a tutti i serpenti, e vieni fuori dalla tua tana.

— Non oso di muovermi, signore — rispose il marabuto con voce piagnucolosa. — Vi è un cobra che si è messo proprio attraverso alla porta, e che mi guarda fisso come se volesse affascinarmi.

— Schiaccialo coi piedi, o ammazzalo con un colpo di yatagan.

— Io non posseggo armi.

— Vivaddio! Voglio che tu venga fuori! — urlò il sergente che cominciava a perdere la pazienza. — Io credo che tu sia meno minchione di quello che sembri, e che sappia molte cose sulle persone che io cerco e che devono essere passate dinanzi la tua cuba. Scommetterei, anzi, che si sono fermati per abbeverare i loro dannati mahari.

— Non so che cosa tu voglia dire, signore — rispose Muley-Hari. — Io sono un povero marabuto che veglia sul sepolcro del santone qui seppellito e che non si occupa che di leggere il Corano.

— E probabilmente anche di ubriacarti come un maiale.

— Sono un mussulmano io! — esclamò il marabuto con indignazione. -— Siete voi frangi cristiani che bevete vini e liquori.

— Il nostro Allah non ce li ha proibiti, e noi tracanniamo quando si presenta l'occasione. Ma basta colle chiacchiere. Se credi di trattenermi qui con delle insulsaggini per lasciar tempo agli altri di guadagnare via, t'inganni.

Si volse verso i dodici spahis che lo accompagnavano, e che avevano messo piede a terra, e disse a loro:

— Ragazzi, fuori le sciabole e andiamo a dare battaglia a quei serpenti. Vivo o morto, voglio avere il marabuto per farlo cantare. Quell'uomo deve saperla lunga sui fuggiaschi.

— Farà caldo là dentro, sergente — rispose un soldato facendo una smorfia. — Se si tratta di combattere degli uomini, io sono pronto a compiere il mio dovere, mentre coi serpenti non ci tengo ad avere questioni.

— E nemmeno noi — dissero gli altri in coro.

— Sareste dei codardi? — urlò Bassot furioso.

— Guidateci contro una banda di Cabili e noi vi mostreremo il contrario, sergente — disse un caporale.

— Quell'uomo mi è necessario, sangue del diavolo!

— Fatelo uscire.

— Ha paura di quel cobra che si è piantato proprio attraverso la soglia della cuba.

Gli spahis alzarono le spalle e non si mossero.

— Sangue di Giuda! — gridò Bassot. — Vi mostrerò io, ora, se ho più coraggio io o voi.

Tolse dalle fonde una pistola d'arcione, a due canne, si mise la sciabola sotto il braccio e si avvicinò alla porta.

Il marabuto si teneva sempre in mezzo alla stanza, immobile come una statua.

Pareva che lo spavento l'avesse paralizzato.

I serpenti, ancora in preda ad una vivissima collera, non cessavano di scivolare sul pavimento della cuba, sbatacchiando le code e sibilando rabbiosamente.

Di quando in quando qualcuno si avvicinava a Muley-Hari e gli mordeva il mantellone, strappando qualche pezzo dell'orlo rosso.

Il sergente era un uomo di grande coraggio, tuttavia quando fu presso la porta e vide il pericolosissimo rettile alzarsi fischiando e sollevare quella specie di cappuccio mobile che gli copriva la testa, ebbe un momento di esitazione.

— Cane di un marabuto! — gridò. — Tu hai il potere di farlo ritirare perché tutti i serpenti ubbidiscono agli Aissana.

— Che cosa vuoi che faccia io, se sono impazziti e non ascoltano più la mia voce? — rispose Muley-Hari. — Prova tu.

— Io non ho mai avuto a che fare con Sidi-Mohamed.

Puntò la pistola mentre colla sinistra impugnava la sciabola mettendola in linea per ripararsi da qualche fulmineo attacco, poi fece fuoco due volte di fila.

Il cobra, colpito alla testa da una palla, spalancò la bocca, quindi si ripiegò su se stesso, abbandonandosi al suolo.

— La via è libera — disse il sergente. — Ora puoi uscire.

— E gli altri? — chiese Muley-Hari con un tremito nella voce.

— Lasciali stare lì dentro.

— Come potrò poi ritornare qui?

— Questo è affare tuo: sbrigati, santone. Io non ho tempo da perdere. Se non ubbidisci, farò fuoco anche su di te.

Il marabuto aveva benissimo capito che non poteva più prolungare la situazione e che correva il pericolo di lasciare la pelle nella sua cuba. Fece un gesto di rassegnazione, diede un ultimo sguardo ai serpenti, i quali, con la loro presenza, assicuravano l'inviolabilità del rifugio di Hassi-el-Biac, ed uscì.

Appena fuori, Bassot lo ghermì per il petto e lo trascinò verso i cavalli, dicendogli con voce minacciosa:

— Se resisti, sei un uomo morto! Siamo come in pieno deserto, e nessuno andrà a raccontare ai tuoi correligionari che io ho mandato un marabuto all'altro mondo, poiché i miei spahis sono tutti cristiani.

— Che cosa vuoi dunque da me, signore? — chiese Muley-Hari.

— Molte cose, mio caro — rispose il sergente. — Innanzi tutto, di chi sono quei mahari che ho veduto coricati presso la fonte?

— Miei.

— Sei un allevatore di cammelli, tu? Io non ho mai veduto un marabuto dedicarsi ad un simile mestiere che è indegno di un santone.

— Il Profeta non l'ha mai proibito. Anzi, anche per lui il cammello è stato sempre un animale quasi sacro.

— Il tuo Profeta aveva dei gusti pessimi, per voler bene a dei cammelli puzzolenti.

— Sono mahari i miei.

— Ah! Mahari! — esclamò Bassot. — Allora ci siamo.

— Dove?

— Adagio, amico. Tu mi farai perdere un po' di tempo, ma siccome le persone che io inseguo hanno con loro una donna, saranno ben costretti a fermarsi in qualche luogo per concederle alcune ore di riposo. Spero, d'altronde, di sorprenderli all'alba. Dunque i mahari sono tuoi, marabuto?

— Sì, signore.

— Andiamo a vederli. Quanti ne possiedi?

— Sette, signore.

— Bardati?

— Non possiedo bardature io.

— Ah! Ora la vedremo. Ehi, ragazzi, accendete un paio di torce.

Due spahis frugarono dentro i loro mantelli arrotolati dietro le selle dei cavalli e trassero alcune torce a vento che accesero tosto.

— Andiamo, santone — disse Bassot. — Non voglio lasciarmi imbrogliare da te. Se tu sei furbo, ti assicuro che io, senza essere un algerino, lo sono dieci volte più di te.

— Ti seguo — rispose pacatamente Muley-Hari, il quale si sforzava di apparire tranquillo, mentre non lo era affatto, pensando ad Hassi-el-Biac.

Il sergente si diresse verso la fonte, una vena d'acqua che scaturiva dal crepaccio d'una roccia, in vicinanza di un gruppetto di palme nane, e presa una torcia passò in rivista tutti i mahari.

— Eppure sono sicuro che questi animali hanno portato le selle — borbottò. — Che questo marabuto mi giuochi un magnifico tiro d'accordo coi fuggiaschi? Bassot, amico mio, apri bene gli occhi, e bada di non far perdere ai tuoi camerati le duemila lire promesse per la cattura di quei furfanti.

Si volse verso il marabuto, e gli chiese a bruciapelo: — Da quante ore hai levate le selle a questi animali?

— Se ti ho già detto che non sono stati ancora montati — rispose Muley-Hari. — Fa' frugare la mia cuba e tu non troverai nessun basto e nessuna cinghia.

— Sì, con tutti i serpenti che ci sono! Non ci metto i piedi, là dentro, io! Ne ho avuto abbastanza del tuo cobra.

— Allora credi a quanto io ti ho detto.

— Eppure questi animali hanno il pelame più rado al posto della sella. Come va questa faccenda? Sapresti tu spiegarmela, furbo marabuto?

— Il padrone che me li ha venduti li avrà forse usati come cavalcature, ma io mai.

— Chi te li ha venduti?

— Un Cabilo della montagna.

— Quando?

— Tre mesi sono.

— Hum! — fece il sergente scuotendo il capo e facendo un gesto d'impazienza.

— Te lo giuro, signore.

— Su chi?

— Sulle ossa del santone che riposano nella cuba.

Il marabuto poteva giurare finché voleva, poiché il sepolcreto non aveva ricettato che armi d'ogni specie per conto dei Senussi.

Quelle parole, però, produssero su Bassot un certo effetto, parendogli impossibile che un mussulmano convinto e religiosissimo si permettesse di tirare in ballo il suo santo protettore.

— Può essere, — disse — quantunque io non sia affatto persuaso di quello che tu affermi, furbone. Ma lasciamo andare i mahari che a me, pel momento, non m'interessano, e dimmi invece chi hai ospitato poche ore fa nella tua sepoltura.

Il marabuto trasalì, però non si tradì, e rispose pronto:

— I miei serpenti che ho scovati ieri in fondo ad una forra.

— E uomini no?

— Non ho veduto nessuno da parecchi giorni. La regione è quasi disabitata ed i Cabili sono troppo poco religiosi per venire a pregare sulla tomba del santo.

— Tu mentisci, furfante! — urlò il sergente. — Noi abbiamo seguite fino dinanzi alla tua cuba le tracce di parecchi mahari; e quelli dovevano essere montati da un moro, da sua figlia, da un vecchio negro e da due frangi.

— Forse io in quel momento dormivo.

— Ah! Dormivi! — gridò il sergente, il quale diventava sempre più furioso. — E da qual parte se ne sono andati, se non abbiamo trovato più nessuna orma di quei cammelli né dinanzi né di dietro la tua cuba? Dove hai nascosti quegli uomini e quella donna? Bada che io ho con me il necessario per applicarti il guanto di ferro. Io non mi metto mai in viaggio attraverso i vostri dannati paesi senza portare con me della calce viva, perché so che con quella ottengo più che con le bastonate.

— Tu puoi uccidermi, — rispose il mussulmano con incrollabile fermezza — però non mi costringerai mai a raccontare delle cose che io non so.

— Non vuoi proprio dirmi dove si sono diretti o nascosti quegli uomini?

— Ti ripeto che non li ho veduti.

— Per far sciogliere a voi la lingua è sempre necessario ricorrere ai grandi mezzi, e ti farò provare le delizie del guanto di ferro, amico. Voglio prendere quegli uomini e tu mi dirai dove sono.

Si volse verso gli spahis che assistevano all'interrogatorio fumando, e disse loro:

— Impadronitevi di questo miserabile, e tenetelo ben fermo.

Due cavalleggeri si precipitarono sul disgraziato marabuto, afferrandolo stretto per le braccia.

Bassot aprì la borsa che portava a bandoliera e trasse una lunga fascia di tela grossa e resistentissima ed una piccola scatola.

Tutti gli spahis si erano avvicinati, e non sembravano affatto impressionati per l'atroce tortura che il mussulmano stava per provare.

— Parli, sì o no, testa di turco? — urlò un'ultima volta Bassot.

— Tutto quello che avevo da dire io te l'ho detto. Uccidimi pure: un giorno i miei correligionari mi vendicheranno, poiché un marabuto è un uomo sacro.

— Vorrei sapere chi andrà a dirlo a loro.

— Ci penserà il Profeta.

— È troppo occupato a chiacchierare colle uri del suo Paradiso per occuparsi d'un miserabile della tua specie. Apritegli la destra.

Uno spahi afferrò la mano del marabuto, e dopo non pochi sforzi riuscì a fargliela aprire.

Bassot trasse dalla scatoletta parecchi pizzichi di polvere bianca e li mise sul palmo aperto di Muley-Hari, poi gli fece ripiegare le dita ed avvolse strettamente il pugno colla fascia di tela.

— Parlerai ora? — chiese Bassot.

— Non so nulla.

— Spingetelo verso la fontana e bagnategli la mano.

I due spahis trascinarono a forza il marabuto, poiché questi cercava di opporre una disperata resistenza, e gli tennero fermo il pugno fasciato, sotto il getto d'acqua, per parecchi minuti.

Il supplizio della calce viva è uno dei più spaventevoli che abbiano inventato le fantasie infernali dei carnefici algerini e marocchini.

Ben pochi possono resistere ad una simile tortura; e se sopravvivono restano senza una mano.

Questa tortura consiste, come abbiamo veduto, nel mettere sul palmo della mano del paziente alcuni pizzichi di calce viva, poi nello stringere bene il pugno o con strisce di pelle o di grossa tela.

Appena bagnata, la calce si gonfia, distrugge i tessuti carnosi, li brucia, li guasta completamente.

I dolori sono tanto spasmodici, che talvolta i pazienti impazziscono. E si noti, che nel vicino Marocco si sottopongono a quella spaventosa tortura i condannati perfino due o tre volte.

Dopo pochi giorni le dita cadono putrefatte, la cancrena si manifesta ed i disgraziati muoiono dopo una lunga ed atroce agonia.

Muley-Hari, ben deciso a lasciarsi uccidere piuttosto che tradire l'amico, aveva mandato un grido orribile.

La calce aveva cominciata la sua opera di distruzione, e si dilatava dentro il pugno stretto, spezzando a forza le falangi delle dita ed intaccando la pelle e quindi la carne.

Bassot assisteva impassibile al supplizio terribile. Anche gli spahis, abituati ormai agli orrori dei bleds, non apparivano menomamente impressionati dalle urla strazianti che di quando in quando sfuggivano dalle labbra del disgraziato marabuto.

Che cos'erano, in confronto alle grida disperate di quegli ottocento arabi e non tutti uomini, soffocati col fumo entro una caverna da uno dei loro generali ai tempi della conquista dell'Algeria?

Bassot attese alcuni minuti; poi, quando s'accorse che il povero marabuto non poteva più resistere all'atroce dolore gli chiese freddamente:

— Parlerai ora?

Muley-Hari strinse ferocemente i denti, poi rispose con impeto selvaggio:

— Mai... cane d'un frangi!

— È la tua ultima parola?

— Che Allah ti maledica, cane d'un cristiano.

— Legatelo al tronco d'una di queste palme, e lasciatelo morire in pace — disse il sergente rivolgendosi verso i suoi uomini. — Speriamo che qualche leone lo liberi presto da questa tortura, divorandolo in quattro bocconi.

Gli spahis trascinarono il disgraziato verso una palma e con delle corde tolte ai cavalli lo legarono saldamente al tronco, senza badare alle sue urla ed alle sue maledizioni.

— Ora in sella — disse Bassot. — Quella canaglia se la cavi come può, e si diverta a sentire i pizzicori della calce viva. I fuggiaschi sono passati per di qua, guidati da quel maledetto Tuareg che ci ha smontati, ma che non aveva pensato che al bled c'erano dei cavalli di riserva. Ci sono duemila lire da guadagnare, ragazzi, e dieci giorni di licenza per andarle a spendere a Orano o a Costantina. Chi vi rinuncia?

— Nessuno — risposero gli spahis a una voce.

— Allora riprendiamo la caccia. Io sono sicuro che quei birbanti cercano di raggiungere le montagne dell'Atlante per rifugiarsi fra i Cabili od i Senussi; però io spero di acciuffarli prima. Se ci sono passati dinanzi li seguiremo senza un istante di tregua, se sono rimasti indietro in qualche luogo li incroceremo. A cavallo, camerati, e diamo la caccia al nostro premio.

I dodici spahis che lo accompagnavano balzarono in sella ed il drappello si slanciò attraverso la deserta pianura, mentre le urla disperate del marabuto risuonavano sinistramente fra le tenebre.

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