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13. Sepolti vivi
12. Nella cuba di Muley-Hari 14. Al bled

13.

SEPOLTI VIVI


Hassi-el-Biac, il conte ed i loro compagni, quantunque non ignorassero che un grave pericolo li minacciava, vinti dalla stanchezza avevano finito per addormentarsi profondamente, confidando nella salda amicizia e nella furberia del marabuto.

Fu il toscano il primo a svegliarsi dopo una dormita di sei o sette ore. Essendo il sepolcreto profondo e ben chiuso, non aveva nemmeno udito i due colpi di pistola sparati da Bassot contro il cobra, quindi non aveva potuto avere il menomo sospetto di quanto era avvenuto nella cuba durante il suo sonno.

Si stiracchiò le membra indolenzite, sbadigliò due o tre volte come un orso, poi si mise a sedere girando uno sguardo intorno.

La lampada accennava a spegnersi (ne avevano lasciata solamente una accesa, per loro fortuna), tuttavia spandeva ancora abbastanza luce per illuminare il sepolcreto, o meglio il deposito d'armi.

Hassi-el-Biac russava beatamente su un vecchio tappeto tenendo fra le dita rattrappite due pistoloni a doppia canna; il conte giaceva su un altro tappeto accanto ad Afza, tenendole le mani. Ani, invece, dormiva raggomitolato su se stesso, come un gattone sui barili di polvere.

— Che bel quadro! — esclamò il toscano, scoppiando in una risata. — Se vi fosse qui il mio amico Berlinetti dipingerebbe una tela stupenda. Ma che stupido sono io! A quest'ora forse è morto od è diventato un avventuriero, un naufrago della vita al pari di me. Sarebbe meglio pensare alla colazione e domandare notizie del marabuto.

Si alzò, salì la scaletta e picchiò due pugni formidabili contro la lastra di pietra chiamando ripetutamente:

— Ehi, santone!

Nessuno naturalmente rispose, poiché il disgraziato Muley-Hari non si trovava più fra i suoi serpenti.

— Perdinci! — borbottò il toscano. — Che sonno duro hanno questi arabi!

Si provò a spingere la pietra e s'accorse subito che avrebbe perduto inutilmente il tempo. Nemmeno riunendo le forze di tutti, la lastra non si sarebbe sollevata se spinta di sotto.

— Corna di bue! — esclamò Enrico impallidendo. — E come farà ora il marabuto a sollevarla da sé solo? Il conte non è più lassù ad aiutarlo. Che quel cane d'un mussulmano ci abbia condannati a crepare nella tomba del santone? Che bell'amico fidato avrebbe, in tal caso, papà moro.

Un po' impressionato, ridiscese la scaletta e scosse dolcemente il conte, susurrandogli negli orecchi:

— Su, camerata: qui succedono delle cose gravissime. Non svegliare tua moglie né tuo suocero, per ora.

— Che cosa vuoi, amico? — chiese il magnate, abbandonando lentamente le mani di Afza. — Pare che noi abbiamo dormito la grossa. Accendi l'altra lampada o non ci vedremo più.

— E poi?

— Che cosa vuoi dire?

— Se non ci vedessimo più per sempre?

— Sogni, camerata?

— Sono sveglio, conte.

— Hai il viso sconvolto.

— E ne ho il motivo.

— Orsù, che cosa è successo dunque? Sono giunti gli spahis?

— Mi è venuto un terribile pensiero.

— Quale?

— Che il marabuto ci abbia sepolti vivi qui dentro e che poi sia scappato forse a denunciarci.

Il magnate alzò le spalle.

— Tu non conosci i mori — disse poi. — L'ospitalità è sacra presso di loro, e nemmeno un acerrimo nemico oserebbe toccarti sotto il suo tetto.

— Che dorma ancora?

— È più probabile che si sia recato ad abbeverare le nostre bestie. Non tarderà a ritornare, rassicurati.

— Tu puoi dire tutto quello che vuoi; io però non sono affatto tranquillo e faremo bene ad interrogare babbo moro.

Hassi fu subito svegliato e messo al corrente di quanto accadeva.

— Muley-Hari non può averci abbandonati — disse il moro. — Sono molti anni che lo conosco, e poi ha verso di me, come già vi dissi, dei debiti di riconoscenza.

— E se gli fosse toccata qualche disgrazia? — insistette Enrico, che invece di tranquillizzarsi si mostrava sempre più preoccupato.

— Avete udito nulla voi, frangi!

— No — risposero ad una voce i due legionari.

— Allora nulla può essere avvenuto di grave — disse il moro. — Tuttavia sarà meglio assicurarcene.

— E poi vi è un'altra cosa che ho già detto al conte. Come potrà il tuo amico sollevare da solo la pietra?

— Non vi sono i nostri mahari? Con una fune passata nell'anello e legata a qualcuno dei nostri animali, la pietra verrà strappata senza troppa fatica.

Enrico respirò più liberamente.

— Ora, — disse — comincio a essere un po' meno agitato.

— Seguitemi — disse il moro.

Salirono tutt'e tre la scaletta, uno dietro l'altro, poiché era tanto stretta da permettere il passaggio d'un solo uomo per volta; e Hassi, che era in testa, chiamò a pieni polmoni il marabuto, svegliando così Afza ed il vecchio negro. Quelle chiamate non ebbero risposta, come non l'aveva avuta quella del toscano.

— Eppure se ci fosse dovrebbe udirmi — disse il moro.

— Odi nulla?

— Assolutamente nulla — rispose Hassi.

— Ci vuole una chiamata più rimbombante — disse Enrico.

— Sparare un colpo di pistola?

— Ecco quello che volevo dirti, babbo moro.

— Proviamo — disse il conte.

Hassi si tolse dalla fascia una pistola, accostò la bocca alla fessura tracciata dalla lastra di pietra e fece fuoco. La detonazione echeggiò fragorosamente entro quel luogo chiuso, tale anzi che parve un colpo di spingarda.

I tre uomini attesero, in preda a una vivissima ansietà, ma nemmeno quello sparo attirò e destò il marabuto.

Il conte guardò Hassi che appariva smarrito.

— Che cosa pensi di ciò che succede? — gli domandò.

— Che a Muley-Hari sia toccata qualche disgrazia.

— E quale?

— Che ne so io? Gli spahis possono averlo arrestato durante il nostro sonno.

— Anche a me era venuto questo sospetto.

— Oppure un leone può averlo sorpreso presso la fonte mentre abbeverava i nostri mahari ed averlo sbranato.

— O che sia stato morso da qualcuno dei suoi serpenti? — disse Enrico.

— Gli Aissana sfidano impunemente i morsi dei serpenti più velenosi — rispose Hassi.

— Avremo noi la forza di sollevare la lastra di pietra? — chiese il conte.

Hassi scosse la testa.

— La scala non ci permette di radunarci quassù tutti e tre, e poi sono sicuro che le nostre forze anche riunite non basterebbero.

— Allora siamo perduti! — esclamò il toscano. — Chi ci libererà da questa tomba se il marabuto non torna più?

Il conte e il moro non risposero: si guardavano l'un l'altro con spavento.

Che cosa sarebbe accaduto di loro, se la pietra non si poteva smuovere? È vero che avevano dei viveri e anche dell'acqua per parecchi giorni, ma dopo? Chi avrebbe potuto supporre che là sotto si trovassero rinchiuse cinque persone?

Non potevano quindi nemmeno contare sul passaggio di qualche carovana.

Tutte quelle riflessioni erano passate in un lampo, attraverso i loro cervelli.

Fu il conte che pel primo ruppe il silenzio:

— Non vi è da fare che una cosa sola — disse. — Aprirci un passaggio sotto la cuba.

— Vorresti scavare una galleria? — chiese Enrico.

— Non ci rimane altra speranza. Se non riusciremo, nessuno di noi uscirà vivo da questa tomba.

— E se Muley ritornasse? — disse il moro.

— La prudenza ci consiglia di non attenderlo. Per quanti giorni ci possono durare i viveri?

— Per sette od otto almeno — rispose Hassi.

— In una settimana si può compiere un bel lavoro, specialmente attraverso un terreno che non avrà molta consistenza.

— Credi di riuscire, conte? — chiese Enrico.

— Io non dispero, tanto più che noi disponiamo di armi da taglio che ci aiuteranno nell'impresa. Ridiscendiamo e andiamo a rassicurare Afza.

— Aspetta prima che mandi qualche altro grido, camerata. Il marabuto potrebbe essere tornato.

Il toscano si sfiatò per mezzo minuto, urlando su tutti i toni senza ottenere alcun risultato.

— Sarebbe stato meglio che avessimo continuata la nostra corsa invece di rifugiarci qui — disse. — Ormai è fatta, e non si tratta che di diventare al più presto delle talpe.

Afza, nell'apprendere per bocca del marito la gravità della situazione, non si era gran che sgomentata, tanta era la sua fiducia nel valoroso frangi a cui doveva la vita.

— Se tu, mio signore, dici che presto o tardi noi usciremo, io non ho alcun motivo di dubitare — aveva risposto. — Attenderò tranquilla la nostra liberazione.

I quattro uomini dopo d'aver tenuto un breve consiglio fecero una visita alle pareti del sepolcreto e s'avvidero subito che i costruttori non dovevano aver impiegata alcuna pietra.

Si trattava di sfondare un intonaco composto di fango e di poca calce, appena spesso una ventina di centimetri.

Il punto d'attacco fu subito scelto, ed il toscano ed il conte si misero gagliardamente al lavoro, armati ognuno di due larghe daghe d'una solidità a tutta prova.

Hassi e Ani dovevano ritirare il materiale ed ammucchiarlo in un angolo della tomba.

Pochi colpi bastarono per far cadere l'intonaco, e la massa terrosa fu subito trovata.

Come il conte aveva previsto, non offriva grande resistenza alle due lame, essendo formata di argilla mista a sabbia. Vi era però il pericolo che qualche frana accadesse e che seppellisse i due minatori improvvisati.

— Qui sta il pericolo — disse il conte al toscano. — Questo terreno cederà facilmente.

— Vuoi spaventarmi? Lo sono abbastanza, conte, te lo assicuro.

— Non ho alcuna intenzione di impressionarti maggiormente, Enrico — rispose il magnate. — Ti avverto del pericolo, perché tu lavori con grandi precauzioni.

— Seguiremo il condotto d'aria?

— Sarà meglio.

— Perché i costruttori della cuba l'hanno fatto così stretto?

— Contentiamoci che ci fornisca l'aria — rispose il conte.

— Avrebbero potuto farlo più largo.

— Non avevano pensato a noi, povero amico.

— Devono però aver compiuto un lavoro terribile, attraverso questo terreno così friabile.

— Certamente, camerata. Rompi il primo pezzo del condotto e andiamo innanzi.

Il toscano con un poderoso colpo di daga fece saltare l'estremità del tubo, il quale era di terracotta, poi intaccò energicamente la terra che lo comprimeva.

Lavorava da cinque o sei minuti, gettando dietro a sé le sabbie ed il terriccio che il conte metteva dentro un canestro per passarlo ad Hassi, quando si fermò bruscamente con la daga in aria.

— Che cosa c'è? — domandò il magnate, sorpreso da quell'interruzione.

— Che mi sia ingannato?

— Hai veduto qualche leone nascosto dentro il condotto?

— L'avrei già ammazzato.

— Ed allora perché non prosegui?

Il legionario invece di rispondere si gettò a terra ed accostò un orecchio al tubo, facendo un gesto al suo compagno di non parlare.

— È incredibile! — esclamò dopo qualche minuto. — Eppure ho l'udito buonissimo.

— Vuoi spiegarti, sì o no?

— Niente affatto — rispose il legionario. — Avvicina invece anche tu un orecchio a questo condotto ed ascolta.

Il conte, colpito vivamente dalle parole del legionario si affrettò a obbedire.

— Odi nulla, conte? — chiese poco dopo il toscano con una certa ansietà.

Invece di rispondere, il magnate si volse verso Hassi che stava guardandoli con sorpresa, e gli disse:

— Ora ascolta anche tu.

— Che cosa avete udito dunque? — chiese il moro.

— Lì dentro ci deve essere il diavolo che passeggia — rispose il toscano, che non perdeva mai il suo buon umore. — Bada di non farti mordere l'orecchio, babbo moro.

Hassi-el-Biac alzò le spalle a si affrettò a gettarsi a terra ed a mettersi in ascolto.

Qualche istante dopo si alzava, in preda ad una visibile emozione.

— Che cos'è? — chiese al conte.

— Non ti sembra che un uomo gridi e si lamenti all'altra estremità del tubo? — chiese il magnate.

— Sì — rispose il moro. — Qualcuno urla disperatamente come se lo scannassero.

— Che ci inganniamo noi o che sia veramente una voce umana?

— È una voce: scommetterei le mie pistole contro un coltello del valore di una piastra.

— O che sia invece il rumore prodotto da qualche getto d'acqua che scorre sul tubo? — chiese Enrico.

— Non è possibile — rispose il conte. — L'acqua non può produrre questo grido, cada da qualunque altezza o gorgogli in tutti i modi possibili.

— Allora là dentro c'è il diavolo che passeggia. L'avevo già detto io.

— Noi chiariremo questo mistero, camerata. La terra cede facilmente, e in un paio di giorni noi avremo aperto la galleria.

— Belzebù si sarà stancato allora di passeggiare, e noi non troveremo nemmeno i peli della sua coda.

— Forza, camerata: non abbiamo tempo da perdere. Appena sarai stanco io ti surrogherò.

Tutti si rimisero al lavoro con grande accanimento, ansiosi di uscire da quella tomba dove correvano rischio di morire di fame e di sete.

Il toscano intaccava lo strato terroso aiutato dal conte; gli altri portavano via i detriti, mentre Afza preparava la colazione e si occupava delle torce avendone trovate parecchie in un angolo del sepolcreto, fra i barili delle munizioni.

Di quando in quando l'avvocato bocciato interrompeva il lavoro, accostava un orecchio al condotto che a poco a poco mozzava e, cosa strana, udiva sempre quelle grida ora acutissime ed ora fievolissime.

— Io credo che sia dell'acqua che cada sul condotto — borbottava. — È impossibile che all'estremità di questo budello di terracotta abbiano cacciato a forza una creatura umana.

— Bah! Vedremo!

Il lavoro procedeva rapidissimo, però con grandi precauzioni poiché il terreno franava facilmente.

Quando il toscano non ne poteva più, il conte lo surrogava allargando la galleria intorno alla conduttura d'aria, ed i colpi piovevano formidabili, possedendo l'ungherese una forza non inferiore a quella di Steiner. E poi si trattava di salvare Afza, il suo dolce Raggio dell'Atlante, che amava teneramente.

Tutto il giorno i due legionari, il moro ed Ani, lavoravano rabbiosamente, allargando considerevolmente la bocca d'aria, non sostando che qualche ora per mangiare un boccone.

L'avanzata diventava però di momento in momento più difficile in causa delle frane che avvenivano di frequente.

Il conte aveva utilizzato quasi tutte le armi dell'arsenale per improvvisare alla meglio delle impalcature. Fucili, yatagan, scimitarre erano state messe all'opera insieme alle aste delle lance.

Per un momento aveva avuto l'idea di sfasciare i barili delle polveri per servirsi delle doghe, ma il timore che qualche scintilla sfuggisse dalle due torce che ardevano dinanzi alla galleria provocando uno scoppio spaventevole, lo avevano indotto a rinunciare a quel legname preziosissimo.

La sera (poiché i due legionari possedevano due monumentali orologi d'argento) i lavori furono sospesi. Tutti erano sfiniti da quel durissimo lavoro che non cessava da dieci ore e che il caldo intenso che regnava nel sepolcreto aveva reso doppiamente faticoso.

Prima di cenare risalirono ancora la scaletta per assicurarsi se il marabuto, per caso, era tornato. Il povero diavolo si trovava ben in altre terribili condizioni e troppo lontano dalla cuba per poter rispondere alle loro disperate chiamate.

— È inutile sfiatarci — disse il toscano. — Quel povero diavolo è finito nelle budella di qualche leone. Pace all'anima sua e non ci pensiamo più.

— Eppure io credo che non sia morto — disse il conte. — Io non dispero di poterlo un giorno ritrovare.

— Nella luna?

— Non può essere sparito così improvvisamente. Io sono sicuro che gli spahis lo hanno portato via.

— E allora, conte, non lo vedrai più egualmente. La pelle d'un arabo costa poco in Algeria, e si fucila con un certo piacere, quando se ne presenta l'occasione.

— Non esagerare, e poi è un marabuto, una specie di santone che quando tirerà le cuoia, avrà pur lui la sua cuba ed i suoi adoratori, non è vero, Hassi?

— Certamente — rispose il moro.

— Hai anche tu qualche speranza di rivederlo?

— Se Muley-Hari fosse ancora vivo e libero sarebbe tornato qui. Se non è venuto vuol dire che è morto e che noi non dobbiamo contare che sulle nostre sole forze se vorremo raggiungere la catena dell'Atlante e metterci completamente al sicuro. Orsù, non pensiamo più a lui e ceniamo. Afza ha fatto dei miracoli per contentarvi.

Infatti l'algerina, coi pochi mezzi di cui disponeva, aveva preparato un kuskussù eccellente, quantunque cucinato sulla fiamma di una torcia, e preparato un certo pasticcio di datteri, di albicocche secche e di uva passa assai gustoso.

La notte, come ognuno può ben immaginare, passò tranquillissima, essendo ormai la tomba inaccessibile agli animali feroci e anche agli uomini che non avessero conosciuto il segreto della pietra.

Dopo una dormita di otto o nove ore, i due legionari, il moro ed Ani riprendevano il lavoro con grande accanimento.

Prima però di procedere allo scavo, Enrico accostò un orecchio al condotto d'aria e con sua grande sorpresa udì ancora le grida passare e propagarsi attraverso il tubo di terracotta.

— O è un uomo o è una bestia — disse. — Vorrei però sapere perché si ostina a urlare proprio dinanzi alla bocca del condotto.

— Noi lo sapremo quando avremo aperto il passaggio — rispose il conte. — È inutile per ora rompersi la testa per cercare la spiegazione di questo mistero.

— Eppure darei volentieri l'orologio che posseggo e che è l'ultima memoria rimastami del brick di mio padre. Era quello che segnava l'ora del pranzo.

— È meglio che tu lo conservi e che lavoriamo. Non sappiamo ancora quanto sia lungo il condotto, e quindi quanto dovremo lavorare per raggiungere la superficie della terra. È vero che se la cosa andrà troppo in lungo ricorrerò ad un mezzo disperato, dovessi far crollare la cuba.

— Che cosa vorresti fare, conte?

— Lavoriamo per ora, Enrico. Più tardi mi spiegherò meglio.

Presero le daghe e cominciarono il duro lavoro alla fumosa luce delle torce, poiché sul sepolcreto non passava un filo di luce, nemmeno attraverso i due condotti d'aria.

Procedevano sempre cautamente, assicurandosi prima della consistenza del terreno e lavorando più sotto che sopra il tubo per essere in parte protetti dalle frane.

Di quando in quando però ne avvenivano, mettendo i lavoranti in continuo pericolo.

Alla fine quella giornata trascorse, poi ne passarono altre due. Avevano già aperto una galleria lunga dodici o tredici metri e già credevano di essere vicini alla superficie della terra, quando una frana si produsse coprendo fino alla cintola Enrico che lavorava dinanzi a tutti.

Il conte che gli stava dietro ebbe appena il tempo di afferrarlo pei piedi e di sottrarlo all'asfissia.

— Preferisco dare la caccia ai leoni piuttosto che fare il minatore — disse il toscano. — Per tutte le sogliole del Mediterraneo! È un gran brutto mestiere, caro conte.

— Noi non andremo più innanzi — rispose il magnate.

— Come! Rinunci a uscire da questa topaia?

— Anzi, amico. Faremo lavorare una forza superiore alla nostra. Usciamo, prima che qualche altra frana ci seppellisca entrambi.

Si ritrassero lentamente, e raggiunsero Hassi il quale stava sgombrando la bocca della galleria dalla terra che la ingombrava.

— Fa' allontanare le fiaccole — gli disse il conte — e apri un barile. Mi occorrono otto o dieci libbre di polvere.

— Vuoi preparare una mina? — chiese il moro.

— È necessario squarciare il terreno. Noi non possiamo più lavorare, perché abbiamo raggiunto lo strato sabbioso.

— E non ci crollerà addosso la cuba? — chiese con inquietudine il moro.

— Ho visitato ieri attentamente la vòlta del sepolcreto, e mi sono convinto della sua robustezza. Cederà forse la cupola sotto la spinta dell'esplosione, forse anche cadranno le pareti del quadrato, ma noi non ne risentiremo alcun danno.

— Hai un bel dire — osservò Enrico che pareva poco persuaso di quei ragionamenti. — Non vorrei però che si sfasciasse tutto, e che anche il tunnel che abbiamo aperto con tanta fatica cedesse.

— Una parte forse — rispose il conte. — Tutto no: di questo rispondo io, poiché la spinta avverrà più in alto.

— Proviamo — concluse Enrico. — Rimanendo qui già nessuno ci salverebbe.

Le fiaccole furono allontanate per paura che qualche scintilla andasse a cadere sulle polveri. Poi Hassi, armatosi d'una specie di scure forzò uno dei barili traendone una diecina di libbre di polvere ben asciutta.

L'avvolse in uno straccio e la trasportò nella galleria, mentre il conte preparava una miccia.

Enrico s'incaricò di preparare la mina, avendo un po' di pratica in tal genere di lavori. Dopo mezz'ora tutto era pronto.

— Vi avverto, — disse il conte con voce grave — che noi giuochiamo la vita.

— Lo sappiamo — risposero Enrico ed Hassi i quali apparivano un po' commossi.

— Bagnate delle coperte e gettatele sui barili delle polveri.

Il legionario, il moro e Ani si affrettarono ad obbedire, sacrificando l'ultima provvista d'acqua.

Il conte baciò Afza sulle labbra e tenne per qualche tempo strette le sue mani, guardandola fissa negli occhi:

— Io spero, — disse — che Allah non permetterà che venga spenta la più bella fanciulla dell'Atlante. Gettatevi tutti a terra!

Prese la miccia, si inoltrò nel corridoio e la mise a posto, poi l'accese, tornando quindi rapidamente indietro.

Giunto all'uscita rovesciò due enormi cumuli di terra che erano stati appositamente innalzati, e chiuse lo sbocco.

— A terra! — ripetè con voce un po' alterata.

Si gettò addosso ad Afza per farle scudo col proprio corpo, ed attese trepidante lo scoppio.

Alcuni momenti dopo, una spaventevole detonazione scuoteva tutta la cuba seguita da un precipitare di rottami.

La cupola era stata portata via di colpo, quasi tutta d'un pezzo, dalla violenza dell'esplosione, e le muraglie del dado erano crollate ammonticchiando i rottami sulle vòlte del sepolcreto.

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