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16.
ASSEDIATI DALLE BELVE
Le falangi si erano arrestate ad una cinquantina di metri dalle rovine della cuba, e pareva che aspettassero il rinforzo dei leoni, i quali non erano ancora tutti sul posto.
Si erano radunati almeno tre o quattrocento sciacalli, e due o tre dozzine di jene fra macchiate e striate. Di dove erano venute tutte quelle bestie? Probabilmente dalle boscaglie dell'Atlante.
Hassi non ne aveva mai viste tante raccolte su uno spazio così breve; eppure il moro aveva percorso le montagne ed i deserti del sud algerino.
— Accendiamo? — aveva chiesto Enrico, il quale aveva anche lui veduto un leone balzare dietro le schiere dei lupi africani.
— Proviamo prima l'effetto dei nostri fucili — rispose il moro. — È meglio accendere questi falò il più tardi possibile, poiché non dureranno molto.
— Avanti allora l'artiglieria! — gridò il toscano. — Fucilate i pezzi più grossi. Agli sciacalli penseremo più tardi, se non si decideranno ad andarsene prima.
La battaglia si era impegnata con grande ardore e grande risolutezza da parte dei quattro uomini. Enrico, Hassi ed Ani si servivano dei fucili, mentre il povero Muley, non potendo far uso della mano destra, adoperava soltanto le pistole che sparava con la mano sinistra.
Dinanzi a quelle scariche che facevano non poche vittime, gli assalitori si arrestavano, sfogando la loro rabbia con urla assordanti, alle quali si mescolavano i sempre formidabili e paurosi ruggiti dei cinque o sei leoni che scorrazzavano a gran salti la pianura, tenendosi, almeno pel momento, dietro le schiere degli sciacalli e delle jene.
Quell'esitazione da parte di animali resi ferocissimi dalla fame e dalla delusione, non doveva purtroppo durare a lungo.
Ed infatti i quattro uomini avevano sparato appena una trentina di colpi, tentando invano di abbattere i leoni che, troppo agili, offrivano un bersaglio troppo difficile, quando le schiere ripresero la loro marcia in avanti senza però troppa fretta, poiché i colpi di fuoco si succedevano, e sciacalli e jene cadevano in buon numero.
Il toscano che si teneva inginocchiato su un pezzo di muricciuolo della cuba fu il primo ad accorgersi di quell'avanzata.
— Qui bisogna tentare qualche buon colpo prima di dar fuoco agli sterpi, i quali costituiscono la nostra ultima difesa. Ehi, babbo moro, continua il fuoco tu, e non occuparti per ora di me.
— Che cosa vuoi tentare, amico? — chiese Hassi, che stava ricaricando precipitosamente il suo moschetto.
— Vado a scagliare una delle mie bombe in mezzo a quelle bestiacce urlanti. Aprirò un bello squarcio fra quegli affamati.
— E i leoni?
— Pensa tu a vegliare su di loro e a fucilarli, se tentano di assalirmi.
— A me, Ani! — gridò Hassi. — Sta' attento al frangi.
Enrico depose il fucile, prese uno dei suoi barili-bombe ed il suo spadone, e s'avanzò intrepido incontro alle prime schiere degli sciacalli le quali si trovavano ancora distanti un centinaio di passi dalle rovine della cuba. Muley continuava a sparare le sue pistole che caricava, servendosi più della bocca che della destra.
Hassi ed Ani invece seguivano attentamente cogli sguardi il toscano tenendo il dito sul grilletto dei fucili per essere pronti a proteggerlo nel caso di un improvviso assalto da parte dei leoni, i quali si erano accovacciati fra i cespugli, aspettando forse che gli sciacalli forzassero il passaggio per prendere parte alla lotta.
Il legionario, con un coraggio da far fremere, si avanzò fino a dieci passi dalle prime linee degli sciacalli, e senza preoccuparsi delle loro urla minacciose, accese la miccia e depose il barile su una piccola discesa, dandogli poscia un poderoso calcio.
La bomba rotolò rapidissima, aprendosi il passaggio fra le schiere, mentre il toscano scappava a tutte gambe verso la cuba, gridando ai suoi compagni:
— Tutti nel sepolcreto! Presto, o salteremo anche noi!
I quattro uomini si precipitarono giù per la scaletta e si gettarono a terra non essendo prudente rimanere all'aperto coi barili di polvere che si trovavano accumulati in mezzo alla cuba, e che potevano a loro volta, prender fuoco.
— Siete inseguiti? — aveva chiesto il conte impugnando un paio di pistole.
— Non ancora — aveva risposto il toscano. — Dopo aver provato le mie bombe sulla pelle dei cammelli ora ne provo un'altra contro le pelli degli sciacalli.
— Tu abusi troppo delle tue famose bombe. Finirai per farci crollare addosso l'intero sepolcreto.
— Non v'è pericolo, conte. L'ho portata ben lontana, quasi fra le gambe di quelle maledette bestie e poi...
Uno scoppio gl'interruppe le frasi, ripercuotendosi, con fragore assordante, dentro il sepolcreto.
Il suolo tremò, e dalla parte dello scavo del condotto d'aria si produsse una frana che distrusse tutto il lavoro eseguito nei giorni precedenti dai sepolti vivi, ma che ora, fortunatamente, non poteva essere d'alcuna utilità.
— Corpo di Bacco! — esclamò il toscano che era stato avvolto da una vera nube di calcinaccio. — Come tuonano bene le mie bombe! Finirò per diventare un famoso pirotecnico. Ecco un'altra professione da mettere da parte. Andiamo a vedere, Hassi.
I due uomini presero i fucili e salirono frettolosamente la scaletta seguiti da Ani e da Muley i quali avevano, in quel frattempo, ricaricate le loro armi.
L'esplosione formidabile della bomba inventata dal toscano pareva che avesse prodotto un buon effetto, poiché le orde fameliche erano indietreggiate di due o trecento metri, e un gran numero di sciacalli e di jene giacevano senza vita, dispersi in mezzo ai cespugli.
— Te l'avevo detto io, babbo moro, di avere piena fiducia nella mia invenzione — disse il toscano. — Ha prodotto più danno quella bomba che tutte le nostre fucilate.
— Tuttavia non mi sembra che quegli animali abbiano ancora rinunciato alla speranza di cenare colle nostre polpe — rispose Hassi. — Eccoli che ritornano alla carica e più furibondi di prima.
— Ma che cos'hanno queste bestie? Io le ho sempre viste timide quasi quanto i conigli, e ora eccole pericolose come i lupi siberiani. Dobbiamo ricominciare? E i leoni? Si vedono, babbo moro?
— Lasciano avanzare gli sciacalli per ora; però sono certo che li seguono attraverso i cespugli.
— Sono diventati muti?
— Sono più furbi di quello che credi. Ora che sanno d'aver di fronte degli uomini armati di fucili si guarderanno bene dall'esporsi, prima di giungere a buona portata per un assalto.
— Ah! Diavolo! Questa battaglia non finirà tanto presto.
— Riprendiamo il fuoco e tu, Ani, accendi un fascio di sterpi e quando te lo dico io, da' fuoco a tutta la linea fiammeggiante. La luce e le vampe produrranno forse maggior effetto che i colpi dei nostri moschetti.
— Non però delle mie bombe — disse Enrico.
Avevano ripreso il fuoco sparando in quattro diverse direzioni poiché gli assalitori avevano formato un vasto circolo intorno alla cuba, circolo che si rinserrava di momento in momento, non ostante la disperata resistenza che opponevano gli assediati.
Pareva che tutti quegli affamati si fossero finalmente decisi a tentare un attacco disperato su tutta la linea per non farsi inutilmente decimare. Probabilmente i leoni li spingevano.
In pochi minuti le prime falangi non si trovarono che a pochi passi. Anzi, una grossa jena picchiettata, si gettò risolutamente sui mucchi di sterpi tentando di sorprendere il marabuto, che stava ricaricando in quel momento le sue pistole.
Hassi però, che l'aveva osservata a tempo, l'aveva fulminata con un buon colpo d'archibugio.
— Ani, da' fuoco agli sterpi — gridò subito dopo il moro, mentre il toscano impugnato lo spadone cominciava a sciabolare con furia incredibile le prime bestie che cercavano di oltrepassare la cinta dei falò.
Il vecchio servo afferrò alcuni tizzoni fiammeggianti e fece, correndo, il giro della cuba, comunicando il fuoco agli sterpi bene ammucchiati, in modo da formare una vera barriera.
In un baleno una cortina di fuoco divise gli uomini dalle belve, illuminando sinistramente la pianura.
Gli sciacalli e le jene delle prime linee, che avevano ormai provato i morsi del fuoco, si rovesciarono addosso ai compagni urlando spaventosamente, senza però riuscire ad aprirsi niun varco, poiché le altre falangi muovevano fitte all'assalto, sospingendosi le une e gli altri fra un fracasso assordante. Anche i leoni, che fino allora si erano tenuti prudentemente nascosti e zitti, erano ricomparsi ruggendo contro le fiamme.
Nembi di scintille volteggiavano in aria e ricadevano a fasci sugli assalitori, strappando loro urli di dolore.
Enrico ed i suoi compagni dopo d'aver trasportati nuovamente i barili nel sepolcreto per non provocare un disastro spaventevole erano risaliti per riprendere la battaglia.
— Farà caldo intorno a noi, — disse il legionario — però dobbiamo ricordarci che siamo in Africa. Fuoco, amici, e soprattutto badate ai leoni, se quei signori si sentiranno in grado di saltare sopra questa barriera fiammeggiante.
Stretti in gruppo, poiché lo spazio era limitato, quasi dorso contro dorso, i quattro valorosi avevano ricominciato a sparare.
Tiravano all'impazzata in tutte le direzioni, non potendo più scorgere gli assalitori dai quali erano separati da turbini di fumo e da folate di fuoco.
Al di là della barriera ardente si udivano però le belve urlare con un crescendo orrendo, ed i leoni ruggire sempre più terribili.
Vi erano certi momenti che pareva che sopra la pianura rumoreggiasse il tuono.
Ad un tratto un colpo di vento sceso dall'Atlante disperse per un momento la nuvolaglia di fumo e di scintille che si alzava sopra la barriera ardente e uno spettacolo da far gelare il sangue all'uomo più coraggioso della terra, si offerse agli sguardi esterrefatti del legionario e dei suoi compagni.
Le belve, invece di allontanarsi, come avevano sperato gli assediati, correvano all'impazzata intorno alla cuba coi leoni in testa, come se cercassero un varco attraverso al quale rovesciarsi.
— Se non vi fosse il sepolcreto, — borbottò il toscano — non darei più due soli soldi della mia pelle di legionario. Quando non vi saranno più sterpi da bruciare, tutte quelle bestie si precipiteranno qui, e guai a chi cadrà sotto i loro denti.
L'immenso braciere continuava ad avvampare, crepitando e sibilando, alimentato dalla brezza notturna che soffiava ad intervalli.
Quando il fumo si abbatteva verso terra e le fiamme scemavano in qualche punto, i quattro assediati potevano scorgere gli animali lanciati sempre in una corsa vertiginosa attorno alla cuba, coi leoni in testa e le jene, meno rapide, in coda.
Molti erano caduti sotto i colpi di fucile, ed in causa dello scoppio del barile di polvere, però ne rimanevano ancora moltissimi, due o trecento per lo meno, e quello che era peggio parevano ben decisi di aspettare che le fiamme si spegnessero per precipitarsi all'assalto.
Quel terribile momento non doveva tardare a giungere. I fastelli di sterpi scomparivano con spaventosa rapidità, poiché Ani era costretto a lanciarne sempre qua e là, dove le fiamme accennavano ad abbassarsi.
Ad un tratto, mentre un colpo di vento disperdeva le colonne di fumo ed i nembi di scintille, il toscano vide quella massa d'animali arrestarsi bruscamente, poi un enorme leone staccarsi e slanciarsi verso il braciere, ruggendo terribilmente.
Si era fermato dinanzi alla barriera ardente, in un luogo ove le fiamme più non si alzavano per mancanza di alimento.
— Attento, Hassi! — gridò il legionario.
Il moro aveva appena allora caricato il fucile. Si volse e scorse subito il leone, il quale si era accovacciato al di là del braciere e pareva che misurasse con gli occhi la larghezza prima di tentare il salto.
— Lo vedi? — chiese Enrico.
— Sì — rispose il moro.
— Che tenti il colpo?
— Non ne ho alcun dubbio. Ani, non vi sono più sterpi da gettare?
— La provvista è esaurita, padrone, — rispose il vecchio negro, — e le fiamme ormai scemano dappertutto. Fra un quarto d'ora quelle bestie potranno passare senza arrostirsi le zampe.
In quel momento il leone fece udire il suo ruggito di guerra: si preparava a tentare il colpo.
— Attento, babbo moro! — gridò Enrico.
— Lo tengo sotto la canna del mio fucile — rispose Hassi.
La belva scattò spiccando un gran salto che doveva portarlo entro le rovine della cuba, ma due colpi di fucile rintronarono subito. Colpita a morte a piena volata, era andata a cadere proprio in mezzo al braciere.
Per alcuni istanti fu veduta dibattersi disperatamente sollevando nuvoli di cenere e nembi di scintille, poi un nauseante odore di peli e di carne abbruciata si sparse per l'aria.
— Come sono stupide queste bestie — disse Enrico, il quale aveva preso il fucile che Ani gli porgeva per dare il colpo di grazia se ve ne fosse stato bisogno. — Sono calate dall'Atlante per cenare coi nostri corpi, ed invece ci si offrono da sé bell'e arrostite! Fra dieci minuti quel povero leone sarà magnificamente arrosolato.
— Non saremo però noi che mangeremo quell'arrosto, — rispose Hassi — perché prima che sia cucinato saremo nel sepolcreto. Le fiamme si abbassano dovunque e la ritirata s'impone.
— Che tentino di forzare la scaletta?
— Può darsi, però noi potremo difenderla facilmente, essendo l'apertura appena sufficiente pel passaggio d'un leone. Se vorranno scendere li fucileremo uno per volta, senza esporci ad alcun pericolo.
Fecero ancora alcune scariche, sparando in mezzo alle ultime fiammate, poi batterono in ritirata salvandosi nel sepolcreto, il quale offriva un asilo ben più sicuro di quello che potevano darlo le rovine della cuba.
— È terminata la battaglia? — chiese il conte vedendoli scendere a precipizio sporchi di cenere e coi volti anneriti dal fumo.
— Credo che cominci ora, conte — rispose Enrico. — Abbiamo esauriti i nostri migliori mezzi di difesa senza ottenere altro scopo che quello di rendere più furiose quelle maledette bestie. Fra dieci minuti preparati a ricevere la visita di qualche re dell'Atlante.
— Vedremo se lo lasceremo scendere — rispose l'ungherese. — Posso sparare benissimo anche rimanendo coricato; e tu sai, Enrico, se io manco ai miei colpi.
— Ani — disse Hassi, il quale aveva staccati dalla parete dieci o dodici fucili. — Carica anche questi, così avremo sempre una buona riserva d'armi da fuoco.
— Benedetti gli arsenali dei Senussi, — disse Enrico — i quali permettono a dei disgraziati di difendersi anche in pieno deserto.
— Camerata, aiutami a sedermi su qualche barile che si trovi proprio di fronte alla scaletta — disse il conte. — Sono sempre estremamente debole, però gli occhi sono buoni, e le braccia non tremeranno nel momento del pericolo.
— Tu hai un gran bisogno di bistecche, conte, se vuoi rimetterti da quella cavata di sangue. Bestia che sono! Avrei dovuto portarti il leone che arrosolava sul braciere.
Il magiaro fu messo a sedere su un barile vuoto, situato quasi sotto l'apertura del sepolcreto, perché potesse sparare a suo bell'agio, e Afza gli si mise a fianco, armata di due pistole a lunga canna, armi buonissime a breve portata.
Gli altri avevano preso posto alla base della scaletta ed aspettavano, abbastanza tranquilli, che il fuoco si spengesse intorno alla cuba, permettendo così alle fameliche orde di precipitarsi all'assalto.
Nei sepolcreto regnava una temperatura da forno. La barriera di fuoco doveva aver scaldato intensamente il terreno sabbioso.
Vi erano certi momenti che pareva che l'aria mancasse fra quelle quattro mura.
— Se continua così, noi finiremo per diventare dei biscotti — disse Enrico. — Fortunatamente il fuoco va spegnendosi, e anche la terra a poco a poco si raffredderà!
Dei fastelli dovevano però ardere ancora al di fuori, poiché di quando in quando un getto di fumo entrava nel sepolcreto, provocando dei colpi di tosse da parte di tutti.
L'assalto tardava. Probabilmente le belve aspettavano che gli ultimi tizzoni si spengessero per non guastarsi troppo il pelame delle gambe, come diceva, scherzando, l'avvocato bocciato.
La tregua però non ebbe troppo lunga durata. Un fracasso infernale composto al solito di ruggiti, di urla e di scoppi di risa sgangherate, avvertì gli assediati che ormai la barriera di fuoco non era più là a difenderli.
— Vedremo chi sarà il primo che si degnerà di venire a farci una visita — disse Enrico.
— Non sarà certamente un povero sciacallo — rispose il conte.
— Non mi dispiacerebbe che fosse alcuna di quelle brutte jene. Io ho un vero odio contro coteste divoratrici di carogne. Ohe! Eccolo!
Un ruggito echeggiò presso l'apertura del sepolcreto, e così potente, che parve fosse scoppiato un fulmine fra le quattro pareti.
— Maleducato! — gridò Enrico alzando il fucile. — Non è così che ci si annuncia. Siate un po' più cortese, e degnatevi mostrare la punta del vostro naso invece di tenerlo nascosto dietro la lastra di pietra. Scorgo benissimo la vostra ombra.
Un secondo ruggito si ripercosse formidabile dentro il sepolcreto, seguito poco dopo da dei rauchi brontolii.
— Pare che il visitatore sia in buona compagnia — riprese il toscano. — Vorrà presentarci madama leonessa e le sue madamigelle. Babbo moro, non t'impietosire, e tratta come si deve quelle impertinenti.
Tutti avevano puntati i fucili verso l'apertura. Muley ed il conte avevano invece impugnato le pistole.
Trascorsero alcuni istanti d'angosciosa aspettativa, poi l'enorme testa d'un leone dell'Atlante, che come si sa sono i giganti della razza, comparve attraverso l'apertura del sepolcreto.
— Degnatevi scendere, Maestà! — gli gridò ironicamente il toscano. — I vostri sudditi vi aspettano per offrirvi le loro polpe e anche le loro palle... prendi!
Con rapidità fulminea aveva alzato il fucile ed aveva fatto fuoco senza mirare, essendo la distanza tanto breve, da non essercene quasi bisogno.
Il re dell'Atlante si abbattè sul primo gradino come se fosse stato fulminato, poi con uno sforzo supremo si risollevò, mentre Muley ed il conte scaricavano le loro pistole.
La massa precipitò allora attraverso la scala, girando su se stessa e ruggendo fiocamente e si fermò quasi fra le gambe di Hassi-el-Biac, il quale fu pronto a sparare il colpo di grazia in un orecchio.
— Il ricevimento è stato un po' brutale, è vero — disse Enrico, il quale girava e rigirava intorno al magnifico leone. — Andrai a lagnarti col marabuto della cuba, se lo troverai nel paradiso di Maometto.
— È davvero un superbo animale — disse il conte che si era alzato coll'aiuto di Afza. — Se giungeva qui ancora vivo non so quanti di noi sarebbero sfuggiti alle sue unghie.
— Ha avuto però il buon senso di rotolare giù dalla scala agonizzante. Questa gentilezza gli fa perdonare da parte mia la sua pessima educazione. Non era quello il modo di annunciarsi, per Bacco baccone!
— Bada che non ne rotoli giù un altro, e quello sia meno educato del primo — disse il conte.
— Se chiacchiero non perdo di vista l'apertura del sepolcreto — rispose Enrico. — Oh! Che imbecille che io sono! Chi è che ha maggiori meriti d'aver ucciso il leone?
— Tu, e nessuno ti contrasta questo diritto — risposero il conte ed Hassi.
Allora il legionario, curvandosi dinanzi ad Afza colla sua solita comica gravità ed indicandole l'enorme bestia le disse:
— Al gentile Raggio dell'Atlante offro la pelle del re dell'Atlante.
— Grazie, frangi. — rispose la giovane donna sorridendo.
— E sarò io, se avrò tempo, che mi incaricherò di levargliela — aggiunse Enrico.
— Dubito che l'avrai — disse il conte. — Senti che concerto furioso hanno cominciato gli assedianti?
— Diavolo! Sparano i loro cannoni — rispose il legionario. — Fortunatamente sono pessimi artiglieri e posseggono dei pezzi che non offendono. Ohe, silenzio, chiacchieroni! Non siamo sordi noi!
Le belve radunate dentro e fuori le rovine della cuba pareva che tutt'a un tratto fossero diventate furibonde.
Si sarebbe detto che una spaventevole battaglia si era impegnata fra i leoni troppo affamati per aspettare la cena di carne umana da una parte, e gli sciacalli e le jene dall'altra, poiché fra quel frastuono s'alzavano anche delle acutissime urla di dolore.
— Si mangiano fra di loro — disse Hassi, che aveva saliti alcuni gradini per ascoltar meglio.
— E noi dovremmo approfittarne per bagnare un crostino in un bicchiere d'acqua — disse Enrico. — Muoio di sete. Ani, vuota un otre e riempi un vaso.
Il vecchio negro frugò qualche po' fra i barili ed i vecchi tappeti che ingombravano un angolo del sepolcreto e dove aveva accumulato le provviste dei viveri e dell'acqua.
Ad un tratto un grido gli sfuggì, un vero grido di disperazione.
— Hai trovato qualche leone nascosto là sotto? — chiese Enrico. — Vengo subito io a spacciarlo.
— Che cos'hai, Ani? — chiese Hassi impressionato da quel grido.
— Padrone... — balbettò il negro il quale era diventato cinereo, ossia pallido. — Non abbiamo più una goccia d'acqua!
— Come! E le otri?
— Tutte scoppiate e perfettamente asciutte.
— Corpo di un bue salato! — esclamò Enrico, spaventato profondamente da quella inaspettata notizia che aggravava terribilmente la loro condizione già tutt'altro che rosea. — Come può essere avvenuto?
— La spiegazione te la darò io — disse il conte. — Sono scoppiate in seguito alla formidabile detonazione provocata dalla mina del condotto d'aria.
— Eccoci dentro un forno, poiché qui dentro cuociamo come le pagnotte, senza poterci inumidire le labbra. Babbo moro, a che cosa pensi? Di recarti alla fontana passando in mezzo alle bestie feroci? Te ne sarei gratissimo.
— Io penso invece che la nostra situazione minaccia di diventare gravissima — rispose Hassi. — Se questo assedio dovesse durare altre ventiquattr'ore, non so chi di noi potrebbe resistere.
In quel punto Enrico, che, da qualche istante guardava fisso fisso il leone, si battè la fronte esclamando:
— Se l'abbiamo qui la fonte! Acqua trasparente o rossa a me poco importa; mi basta che mi disseti.
— Che cosa fai? — gli chiese il conte vedendolo impugnare un yatagan.
— Bevo — rispose il legionario con voce tranquilla.
Con l'arma che impugnava aprì nella gola del leone una profonda ferita, poi vi applicò le labbra aspirando fortemente il sangue ancora tiepido, senza mostrare alcuna ripugnanza.
— Io non ti imiterò mai — disse il conte facendo un gesto di ribrezzo.
Enrico alzò le spalle e continuò a bere, aspirando come una pompa. Quand'ebbe calmata la sete, turò colle dita la ferita e chiese, guardando i compagni:
— Chi vuole approfittare? Ve n'è ancora da succhiare.
— No, mai — disse il conte.
Anche Hassi fece un energico gesto di diniego. Muley invece, meno schizzinoso e più assetato degli altri poiché la febbre doveva divorarlo, si gettò anche lui sul corpo del leone, si mise a bere avidamente, e non cessò finché potè trovare una goccia di sangue.
— È vero, marabuto, che dopo tutto non è tanto disgustoso?
Muley fece una smorfia che non era certo di approvazione.
— Voi siete dei signorini difficili a contentarsi — disse Enrico, ridendo. — Per mio conto se un altro leone viene a farci visita lo scanno e tornerò a dissetarmi tranquillamente senza fare smorfie. Toh! E che cosa fanno i nostri amici dell'esterno? Pare che la battaglia sia finita e che ora, ben saziati, si riposino.
— Ed infatti non si ode più nulla — rispose Hassi.
— Che se ne siano andati?
— Hum!
— Dovremmo accertarcene.
— Chi è che oserebbe mettere fuori la testa? — chiese il conte.
— Io, — rispose il toscano senza esitare — ma prima della testa spingerò innanzi un paio di pistole a due colpi. Babbo moro, vuoi darmi le tue? So che tirano splendidamente.
— Tu commetti un'imprudenza — gli rispose Hassi pur consegnandogli le armi domandate. — Vi può essere qualche leone o qualche jena coricati presso l'apertura e tu sai quanto sia acuto l'udito di quegli animali.
— Noi non possiamo rimanere qui in una continua angosciosa aspettativa. Se gli animali se ne fossero proprio andati?
— Vedremo.
Il toscano prese le pistole, le montò, poi salì silenziosamente la scaletta, tenendo le armi puntate in alto, mentre Hassi ed Ani alzarono i loro fucili verso l'apertura, per proteggerlo da qualche improvviso e probabilissimo attacco.