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18.
VERSO L'ATLANTE
L'indomani, verso le quattro del pomeriggio, ossia quando il grande calore cominciava a scemare, la carovana, dopo essersi abbondantemente provvista d'acqua, si rimetteva in marcia per raggiungere la grande catena dell'Atlante, la quale si profilava già abbastanza nitida sull'orizzonte.
Hassi-el-Biac aveva potuto noleggiare tre cammelli corridori, sui quali aveva fatto caricare i suoi preziosi forzieri, non che una considerevole provvista di polvere e di palle, e due cavalli che aveva destinati al conte, ancora troppo debole, ed alla figlia, la quale non era mai stata abituata alle lunghe marce.
Quei forzieri pesantissimi e molto solidi non avevano mancato di attirare l'attenzione del capo della carovana, il quale si era affrettato ad accorrere per osservarli da vicino, sospettando forse che contenessero dell'oro.
Fortunatamente il toscano vigilava, e, appena scortolo ronzare intorno ai cammelli, lo aveva risolutamente abbordato dicendogli:
— Avverti i tuoi uomini di non toccare quelle casse, per evitare il pericolo che tutta la carovana salti in aria.
— Che cosa c'è dunque lì dentro? — aveva chiesto il beduino.
— Ci sono delle bombe destinate ai Cabili. Sai che quei bravi guerrieri preparano una nuova sollevazione contro i frangi?
— Non so nulla, perché non mi occupo che dei miei commerci. Sono pericolose quelle bombe?
— Ti fanno saltare cento uomini e cento cammelli in un attimo. Figurati, amico, che contengono fulminato di cotone, picrato e dinamite.
— Che bestie sono queste! — chiese il beduino guardandolo con spavento. — Io non voglio viaggiare con delle macchine che da un momento all'altro possono farmi saltare in aria — aveva risposto il beduino, il quale appariva veramente assai impressionato delle spiegazioni che gli dava quel mattacchione di toscano. — Butta via tutto, o io non parto.
— Bravo! Se getto via quelle casse, le bombe scoppiano ed allora buona notte a tutti. Il meglio da farsi è di lasciarle sul mahari come le abbiamo caricate noi.
Il beduino, spaventato, non aveva più osato d'insistere, però si era affrettato a mandare i suoi ospiti coi loro tre mahari ed i loro due cavalli in testa alla carovana per non esporsi al pericolo di vedere, da un momento all'altro, saltar in aria tutte le sue bestie e le sue merci.
Così la marcia era cominciata attraverso a quelle desolate ed interminabili pianure, coperte da una magra vegetazione appena sufficiente ai cammelli, i quali non hanno esigenze pel nutrimento, e battute da un sole implacabile che rovinava gli occhi.
La grande catena dell'Atlante giganteggiava però sempre più distinta all'orizzonte e prometteva ombre freschissime sotto i suoi immensi boschi di querce, ed acque deliziose.
Alle otto di sera la carovana fece la sua prima tappa per prepararsi la cena, e qualche ora dopo riprendeva le mosse sempre preceduta dai fuggiaschi i quali venivano appositamente tenuti ad una notevole distanza dai beduini.
Ormai la storiella delle terribili bombe destinate ai Cabili ed ai Senussi si era diffusa fra la carovana, e nessuno più osava accostarsi al mahari montato da Hassi-el-Biac, il quale portava i due famosi cofani.
Alla mezzanotte il campo fu piantato in mezzo ad una landa desolata, coperta solo da magri cespugli ed attraversata da una profonda spaccatura che pareva avesse servito un tempo da letto a qualche fiume poi scomparso.
Il beduino mandò alcuni uomini a rizzare una tenda pei suoi ospiti, inviò pure a loro dei viveri e del tabacco, però con sorpresa di tutti non si fece vedere per augurare, come è costume del deserto, la buona notte.
— Che sia proprio spaventato per le nostre bombe? — aveva chiesto Enrico.
— Questo non sarebbe un motivo sufficiente per spiegare la sua mancanza di cortesia — aveva risposto Hassi-el-Biac, che appariva inquieto.
— Si direbbe che tu temi qualche cosa, babbo moro.
— Tutto è da attendersi da parte di questi beduini; poi oggi ho osservato un fatto.
— Quale? — chiese il conte.
— Che tre uomini della carovana, prima che il sole scomparisse, hanno lasciato la prima tappa prendendo diverse direzioni.
— E non sono più tornati?
— No, figlio.
— Montavano cammelli o mahari?
— Mahari.
— La partenza di quei tre uomini mi da non poco da pensare — disse il conte dopo qualche istante di silenzio.
— Ed a me più che a te, frangi — disse in quell'istante il marabuto, il quale fino allora non aveva preso parte alla conversazione.
— Hai notato anche tu qualche cosa d'insolito, santone? — chiese Enrico.
— Io ho veduto questa sera El-Madar lacerare parecchie volte dei pezzi di carta azzurra e deporli lungo la via.
— E che cosa ci trovi tu di sospetto in ciò, santone? Si sarà sbarazzato di certe lettere di famiglia che nessuno certamente verrà qui a raccogliere per riaccomodarle poi con un po' di colla — disse il toscano.
— Un beduino che possiede delle lettere di famiglia! — esclamò il conte ridendo. — Se non hanno mai imparato a scrivere, quei figli del deserto.
— Allora erano lettere della sua bella.
— Non scherzare su un argomento così grave, Enrico.
— Insomma, che cosa ci vedi tu in quello spreco di carta?
— Se fossero dei segnali? — chiese improvvisamente Hassi.
— Per chi?
— Domandalo a Muley.
— Corpo di una pipa! — esclamò Enrico. — Tu conosci dei segreti, a quanto pare, e ce li nascondi. Bisogna sbottonarsi, mio caro santone, non tenere nel proprio sacco delle notizie che a noi potrebbero essere preziosissime.
— Sì, tu devi parlare — disse il conte.
— Ebbene, vi dirò allora che El-Madar non crede niente affatto che voi siate due trafficanti incaricati di vendere armi o bombe ai Cabili — rispose il marabuto. — Ieri sera, quando mi ha fatto uscire dalla vostra tenda, mi ha rivolto alcune domande su di voi, ed ha parlato dei bleds.
Udendo quella risposta, il toscano ed il conte avevano avuto un sussulto, poiché non ignoravano che la taglia messa ormai sulle loro teste poteva essere guadagnata da qualunque audace furfante che avesse avuto la fortuna di catturarli.
— La cosa è grave — disse il magnate. — Se questo beduino ha il sospetto che noi siamo dei fuggiaschi non mancherà di mettere le sue mani sopra di noi per guadagnarsi il premio.
— Udiamo un po', marabuto — disse Enrico. — È molto che conosci questo beduino?
— Un paio d'anni.
— Non sai se prima abbia fatto il brigante?
Il marabuto alzò le spalle, poi rispose:
— Tutti i beduini cominciano la loro carriera corseggiando pel deserto per finire poi più tardi conduttori di carovane o trafficanti più o meno ladroni.
— Sicché anche il tuo El-Madar non sarà uno stinco di santo.
— Io non ho avuto mai da lagnarmi di lui.
— Perché non poteva toglierti nulla — disse Hassi. — Se avesse sospettato che nella cuba tu celavi delle armi dei Senussi, non so se a quest'ora saresti ancora qui a parlare con me.
— Può darsi — rispose Muley Hari.
Il toscano guardò il conte, il quale era diventato, da qualche istante, assai pensieroso, tanto, anzi, che pareva non prestasse attenzione alle parole che gli sussurrava Afza di quando in quando come per tranquillizzarlo.
— Che cosa intendi di fare, conte? — gli chiese. — Mi pare che ci siano abbastanza sospetti per non credere più alla leale ospitalità di quel figlio del deserto.
— Sono quei tre uomini che mi preoccupano — rispose il magnate.
— Che cosa temi?
— Che il beduino li abbia mandati in cerca degli spahis.
— Tu dimentichi che con gli spahis vi è quel bravo Ribot.
— Ribot non è il comandante del bled. La sua autorità vale quanto quella di Bassot. Se uno di quei tre beduini trova gli spahis, sei certo di vederli giungere ventre a terra anche se il nostro amico non volesse. La taglia alletta beduini e soldati, e gli uni e gli altri faranno il possibile per catturarci. Vorrei essere già sull'Atlante, fra le tribù guerriere dei Cabili e sotto la protezione dei Senussi.
— Mentre non giungeremo alla base della grande catena prima di quarant'otto ore — disse Hassi.
— Ed in due giorni molte cose gravi possono succedere — aggiunse il conte. — È ancora troppa la distanza che ci separa dall'Atlante.
— Che peccato non possedere delle ali, magari di fringuello — mormorò Enrico.
Fra quegli uomini regnò un silenzio abbastanza lungo; poi Hassi disse:
— Quarantott'ore sono molte, però io non dispero di poterle trascorrere senza gravi avvenimenti, poiché finora il beduino non ci ha rivolto alcuna minaccia. Veglieremo attentamente così di giorno come di notte, e cercheremo di non lasciarci sorprendere. Conosco i beduini e so che quando trovano una tenace resistenza, non la durano a lungo anche se sono numerosi.
In quell'istante Enrico saltò in piedi come se fosse stato toccato da una bottiglia di Leyda, esclamando:
— E le nostre bombe!
— Che bombe? — chiese il conte. — Diventi un bombardiere maniaco, tu?
— Babbo moro, quanta polvere hai portato con te?
— Una trentina di libbre.
— Hai una scatola qualunque, purché sia di ferro o di latta?
— Posso darti una di quelle che racchiudono le gioie di mia figlia.
— Allora il colpo è fatto! Sfido quel birbante di beduino di avvicinarsi, d'ora in avanti, al nostro accampamento. Corpo di una bombarda! Voglio terrorizzarlo.
— Che cosa vuoi fare, Enrico? — chiese il conte.
— Persuadere quel selvaggio che noi possediamo veramente dei mezzi così terribili da far saltare lui, i suoi banditi ed anche i suoi cammelli. Babbo moro, dammi subito la scatola e tre o quattro libbre di polvere. Vedrai che colpo pel beduino! Se non morrà stanotte di spavento, non morrà di certo mai più.
— Enrico! — gridò il conte. — Pazzo da legare, che cosa vuoi fare?
Il toscano alzò le braccia, poi disse con voce terribile:
— Bum!
E scappò via seguito da Hassi-el-Biac, il quale aveva ormai piena fiducia nelle invenzioni originali dell'avvocato bocciato dopo i barili-bombe.
— Che cosa va a fare mio padre col tuo amico? — chiese Afza al conte.
— Lasciali fare — rispose il magnate accarezzando la giovane mora. — Il mio camerata è un uomo assolutamente straordinario e vedrai che riuscirà nel suo intento di terrorizzare tutti i beduini della carovana. Tutte le sue invenzioni sono a base di bombe, ma lasciamolo fare. È più furbo del marabuto, e di tutti i Cabili dell'Atlante.
— E gli spahis? — chiese la giovane donna. — Sono quegli uomini che non mi lasciano dormire. Io, mio signore, tremo sempre per la tua vita. Anche voi, dunque, uomini bianchi, che pretendete di essere civili, siete invece selvaggi come i Tibbù od i Tuareg del deserto? Io non credevo che i frangi fossero così cattivi, così spietati.
— Prima di sposarti io era un soldato, mia cara Afza. Mi sono ribellato ai cattivi trattamenti e, se non fossi fuggito, a quest'ora dormirei nel cimitero di Costantina con una mezza dozzina di palle nel petto.
— Tu! Mio signore! — esclamò Afza la quale era diventata pallidissima.
— Tale è la sorte della maggior parte di noi legionari. O cadiamo sul campo di battaglia al grido di Viva la Francia! che non è mai stata la nostra patria, o per un atto qualunque di ribellione passiamo sotto il Consiglio di guerra ed invece di cadere con delle palle tonchinesi, cabile o senegallesi, chiudiamo gli occhi spenti dal piombo francese.
— Ma io ucciderò il maresciallo, e questa volta prenderò meglio le mie misure.
— Quand'anche tu lo mandassi definitivamente all'altro mondo, mia cara Afza, non faresti altro che aggravare la nostra situazione.
— Io odio quell'uomo! — gridò la mora con uno scatto di pantera. — È lui la causa di tutte le nostre disgrazie.
— Lui non è il solo.
In quell'istante parve che passasse sopra la tenda una raffica furiosa, poi seguì una detonazione che pareva un colpo di cannone.
Il conte, la giovane, il marabuto ed Ani si erano precipitati fuori, mentre i pali della tenda venivano svelti dal suolo e scagliati parecchi passi lontani.
Due uomini correvano verso di loro a gambe levate, mentre nell'accampamento dei beduini si udivano echeggiare urla furiose e rimbombare numerosi colpi di fucili.
— Hai udito, conte, che colpo? — chiese Enrico, il quale precedeva Hassi-el-Biac essendo molto più magro e più lesto. — Io diventerò il più famoso bombardiere dell'Europa, te lo assicuro.
— E ci spaventi i beduini — rispose il magnate. — Pare che siano impazziti.
— Se era quello il mio scopo! Si avvicinino e io farò scoppiare un'altra bomba che scaraventerò in mezzo ai loro cammelli.
I beduini pareva che fossero proprio impazziti. Urlavano a squarciagola, invocando Allah e Maometto, e continuavano a sparare colpi di fucile come se il loro accampamento fosse stato assalito dai Tuareg o da qualche altra tribù di predoni.
Fra quel frastuono echeggiava di quando in quando la voce metallica di El-Madar.
La scossa dell'aria prodotta dall'esplosione di quella macchina infernale doveva aver atterrato anche le loro tende, e si poteva comprendere facilmente il loro spavento dopo la voce corsa che uno dei mahari portava delle bombe terribili pei Cabili.
— Mi sembrano tante oche — disse il toscano, il quale si teneva i fianchi dal ridere. — Mio caro marabuto, bisogna che andiamo a tranquillizzare quelle scimmie e anche a far loro comprendere che per la loro salute è meglio che stiano sempre lontani dal nostro accampamento. Quando avremo raggiunto i villaggi cabili dell'Atlante sarà un altro affare. Ani, le mie pistole ed il mio fucile! Con quegli sciacalli è meglio essere armati formidabilmente.
Aveva appena ricevuto le armi, quando si udì la voce di El-Madar urlare a due o trecento passi dal campo:
— Kafir maledetti! Volete distruggere la mia carovana? Che cosa avete fatto scoppiare?
— Vieni con me, marabuto — disse Enrico. — Tu sei l'ombra santa che ci protegge, perché rappresenti la potenza dei Senussi.
— Ti seguo — rispose Muley-Hari.
Il beduino non cessava di urlare e di vomitare ingiurie contro i kafir, mentre i suoi uomini, per quel guaio innato che hanno tutte le popolazioni di barbari di approfittare del più piccolo avvenimento per fare un baccano infernale ed un grande spreco di polvere, continuavano a sparare in aria come se volessero fucilare le stelle, come diceva quel burlone di Enrico.
Quando si vide dinanzi i due uomini calmi, tranquilli, anzi sorridenti, El-Madar scoppiò come una bomba.
— Cani di kafir! — urlò investendo specialmente Enrico. — Voi mi rovinate i cammelli e mi ammazzate gli uomini!
— Quali cammelli? — chiese Enrico con voce ironica.
— Quelli che vi ho affittati.
— Se hanno ancora la testa e le gambe attaccate al corpo! Che cosa vieni a narrarci tu! Delle panzane?
— Che cos'è che avete fatto scoppiare dunque?
— Noi! Niente — rispose il legionario sempre più ironico.
— E quel colpo?
— Ah! È stata una di quelle bestie che teniamo chiuse nei forzieri che è scoppiata.
— Ed il mahari?
— In quel momento si trovava lontano, perciò non ha smesso un sol momento di mangiare.
— E se ne scoppiasse un'altra?
— Ah! Non so quello che potrebbe succedere. Non sempre si ha fortuna — rispose Enrico.
— Ed allora sbarazzatevi subito di quelle bestie che fanno saltare in aria — disse il beduino con voce minacciosa. — Io non voglio perdere né i miei uomini, né i miei cammelli.
— Se ti ho detto che è impossibile! Sono destinate ai Cabili, e senza di quelle non oserebbero tentare una nuova sollevazione contro i francesi.
— Io me ne infischio dei Cabili! — gridò El-Madar. — Se vogliono farsi accoppare, lo facciano pure; io non voglio entrare per nulla in questi pasticci né guastarmi coi frangi, che mi provvedono di merci a buon mercato.
— Io non toglierò una sola bomba dalle casse — rispose Enrico con ferma voce. — Quel carico rappresenta per noi una piccola fortuna.
— Pagatemi allora i cammelli ed i cavalli prima che saltino in aria e andate dove volete. Io ne ho abbastanza di voi.
— Quanto domandi?
— Cinquanta zecchini.
— Un prezzo da ladro.
— Che cos'hai detto, kafir?
— Che tu sei il beduino più galantuomo che esista sulla crosta terrestre.
— Non capisco niente di quello che tu dici, kafir. Portami l'oro e continuate la vostra strada.
— Che sarà pure la tua.
— Mi terrò ben lontano da voi. Fuori gli zecchini!
— Lasciami il tempo di andar dal cassiere della carovana. Dubito però che nelle sue tasche, che non ho mai veduto gonfie, passeggino tanti pezzi gialli.
— Ed allora rendimi gli animali o verrò a prenderli colla forza.
Il toscano comprendendo che non vi era altra via d'uscita, lasciò il marabuto, il quale metteva a prova durissima tutta la sua influenza di santone, per calmare quell'antropofago che non voleva più ascoltare ragioni, e si recò ad informare i suoi compagni del come stavano le cose.
La decisione fu subito presa; pagare subito e mandare al diavolo il beduino il quale, disponendo di forze ingenti, poteva mettere in esecuzione la minaccia di privarli degli animali.
Hassi contò i cinquanta zecchini e li porse al toscano, che fu lesto a farne scivolare due nella propria tasca, non già per derubare quel bravo babbo moro, bensì per defraudare, se era possibile, il figlio del deserto.
— I miei amici hanno vuotato tutte le loro tasche, — disse a El-Madar, — e non sono riusciti che a mettere insieme quarantotto monete d'oro. Siamo ora completamente a secco, e non possediamo che le nostre bombe.
— Ti avevo detto cinquanta, kafir — disse il beduino guardandolo torvamente.
— Se ci ritroveremo ti completeremo il conto. Dalle pietre non si cava sangue, amico, come dalle sabbie del gran deserto non si cava sempre acqua. Contentati e va' con Dio.
— Dove andate?
— Te lo abbiamo detto: sull'Atlante.
— Sarò costretto a seguirvi perché quella è pure la mia strada.
— Come vuoi: bada però di non accamparti troppo vicino a noi, perché potrebbe succedere benissimo qualche altro scoppio.
— Me ne guarderò.
Si volsero le spalle senza nemmeno salutarsi, e tornarono ai rispettivi accampamenti già illuminati da grossi fastelli di sterpi.
— Si è calmato? — chiesero il conte ed Hassi al legionario.
— Pare che quel cane rognoso se ne sia andato abbastanza di buon umore, poiché faceva saltare fra le mani delle monete d'oro — rispose Enrico, facendo scivolare nella fascia di babbo moro i due zecchini che aveva risparmiato. — Però, credo, che non ce lo leveremo dattorno tanto presto, perché mi ha avvertito che terrà la medesima nostra via.
— Veglieremo attentamente — disse il conte.
— E cominciando da stanotte — aggiunse il toscano. — Io monterò il primo quarto; Ani il secondo e Hassi il terzo. Ormai quel beduino mi fa paura, lo confesso francamente.
Lasciarono consumare i fuochi, poi, rassicurati dalla grande calma e dal profondo silenzio che regnava nella pianura, si cacciarono sotto la tenda.
Il toscano era rimasto invece sdraiato presso i mahari ed i cavalli, con la pipa in bocca ed il fucile sulle ginocchia.
Fu però una guardia inutile, poiché i beduini non lasciarono le loro tende, né osarono accostarsi al campo, probabilmente per paura di quelle terribili bombe.
Che avessero però egualmente delle cattive intenzioni, tutti ne erano convinti.
Il sole non era ancora sorto, quando la piccola carovana si rimise in marcia, seguendo la riva destra di quel fiume disseccato.
Quasi nello stesso momento, anche i beduini smontavano le loro tende, riordinavano le loro bestie disponendole su due lunghissime file, e legando la testa dell'uno alla coda dell'altro per impedire che si sbandassero.
— L'amico si è appiccicato ai nostri fianchi come una mignatta — disse Enrico al conte, il quale aveva inforcato uno dei due cavalli. — Che si sia accorto che nelle casse di babbo moro vi sono degli zecchini suonanti invece che delle bombe? È necessario far scoppiare un'altra scatola per persuaderlo che le bestie terribili le possediamo effettivamente.
— Finirai per lasciarci senza polvere, terribile bombardiere.
— I Cabili ce ne forniranno finché vorremo. Abbiamo guadagnato altre dodici ore. Speriamo di passare indisturbati anche le altre trentasei che ci sono necessarie per raggiungere i primi villaggi della montagna. Dannato Atlante! Si vede sempre e non vi si giunge mai. Meno male che la via è sgombra. Quel bravo Ribot deve aver fatto dei prodigi, per indurre Bassot ed i suoi spahis ad allontanarsi.
— Purché non giungano quando meno ce l'aspettiamo!
— Impegneremo una lotta disperata o cadremo tutti — rispose Enrico. — Essere seppelliti sotto queste sabbie, o nel cimitero di Costantina o di Algeri, mi pare che non ci debba esser una grande differenza.
Il conte sospirò a lungo, guardando Afza, la quale si trovava su uno dei tre mahari e non rispose.
La piccola carovana si era messa a seguire la riva del fiume disseccato, procedendo piuttosto lentamente per il cattivo stato del suolo, il quale tendeva a diventare umidissimo in causa delle acque che scendevano dall'Atlante e che si disperdevano per la pianura, formando di quando in quando delle paludi che i mahari, abituati alle sabbie bene asciutte, attraversavano con una certa ripugnanza.
I beduini, invece, erano scesi nel letto del fiume per fornire ai loro animali un terreno più solido e probabilmente anche con qualche altro scopo, poiché marciavano quasi parallelamente ai tre mahari ed ai due cavalli, con grande dispetto di Enrico, che avrebbe ben voluto polverizzarli con qualche altra bomba di sua invenzione.
Si preoccupavano però fino ad un certo punto di quei beduini, tenendosi sicuri dell'effetto prodotto dallo scoppio. Erano gli spahis che li rendevano sovente pensierosi e tristi.
Da un momento all'altro potevano giungere con o senza Ribot, ma certamente con Bassot alla testa, ed allora che cosa sarebbe successo? Presi fra due fuochi, poiché ormai erano certi che i beduini dovevano avere delle brutte intenzioni a loro riguardo, non avrebbero potuto certamente resistere.
Tutti avevano perduto così il loro buon umore, perfino il toscano, il quale non osava più di scherzare. Si sarebbe detto che presentiva una catastrofe.
La piccola carovana, quantunque esposta al sole bruciante, poiché le piante erano scarsissime, marciò con accanimento, senza far nessuna tappa.
Ad una trentina di miglia l'Atlante giganteggiava, spiccando vivamente sullo sfondo rosseggiante del cielo.
Fra il verde cupo delle sue immense foreste si cominciavano già a distinguere delle macchiette biancastre: erano i villaggi dei forti e bellicosi Cabili alleati dei Senussi, i nemici irreconciliabili dei frangi, che si mostravano.
Una marcia ancora e la salvezza era assicurata poiché gli spahis non avrebbero mai osato di cacciarsi nelle tetre e profonde valli dell'Atlante dove i loro eterni nemici avrebbero potuto distruggerli, senza nemmeno sparare un colpo di fucile.
Quella marcia disgraziatamente non potevano farla che all'indomani, poiché i mahari, troppo carichi dei bagagli e delle persone, non potevano reggere a lungo alla fatica, essendo animali da corsa e non già da trasporto.
Tuttavia quelle brave bestie, come se comprendessero le ansie dei loro padroni, non si fermarono che a notte molto tarda.
La tenda fu subito rizzata sul margine del fiume disseccato e fu mandato Ani al campo beduino per avere dei viveri contro pagamento, ciò che i fuggitivi poterono ottenere, ma quasi a peso d'oro.
Avevano appena terminata la magra cena, quando in lontananza si udì rullare il tuono.
— Sull'Atlante piove — disse Hassi, che era subito uscito in compagnia del conte e di Enrico. — La notte non sarà buona nemmeno per noi.
— Ragione di più per raddoppiare la vigilanza — rispose il toscano. — Quei cani di beduini potrebbero approfittare dell'oscurità e del cattivo tempo per tentare una sorpresa. Monterò il primo quarto insieme ad Ani.
— E tieni bene aperti gli occhi — aggiunse il conte. — Non so il perché, ma non mi sento affatto tranquillo. Si direbbe che una disgrazia ci sta vicina.
— Non fare il corvo, camerata — disse Enrico. — Pensa che domani ci troveremo fra le foreste dell'Atlante.
— Vorrei che il domani fosse già arrivato. Sarei più calmo.
— Eppure finora abbiamo calunniato gratuitamente quell'ottimo antropofago che si chiama El-Madar. Se l'è presa con noi a causa delle bombe, che non esistono che nella sua testa malata, però, finora, non abbiamo avuto da dolerci di lui.
— Ecco che tu mi esalti quel brigante — disse il conte sforzandosi di sorridere.
— Niente affatto: l'ho chiamato canaglia e canaglia rimarrà tutta la vita, per mio conto. Ti ho fatto solo osservare che, alla fine, non ci ha dato troppi fastidi.
— Non ti fidare dei beduini. Quando meno si aspettano, piombano addosso come uno stormo di avvoltoi affamati; non è vero, Hassi?
— Non credo più nemmeno alla loro tanto vantata ospitalità — rispose il moro.
— Auguriamoci che ci tengano tranquilli anche questa notte, che è l'ultima che noi passeremo sulla grande pianura. La montagna ci tende le braccia: affrettiamoci a ricevere il suo abbraccio.
S'intrattennero ancora all'aperto qualche po', osservando i fuochi che i beduini, secondo la loro abitudine, avevano accesi intorno alle tende, poi Hassi ed il conte si ritirarono, mentre, invece, Ani raggiungeva il toscano portando fucili, pistole ed una vecchia coperta, per ripararsi dalla pioggia imminente.