< Sull'Atlante
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2. La legione straniera
1. L'inferno del bled 3. Il carnefice del bled

2.

LA LEGIONE STRANIERA


Dai lontani tempi di Carlo VII a Napoleone I, la Francia ebbe al suo soldo truppe straniere, ma la Legione straniera chiamata, a ragione, «la milizia dei disperati» non ebbe vita che nel 1831, ossia sotto Luigi Filippo, che se ne valse per completare la conquista dell'Algeria.

Allora non erano che dei battaglioni composti per la maggior parte di spagnoli, di polacchi, di tedeschi, di italiani e di belgi, per lo più disertori. I sardi e gli italiani formavano il 5° battaglione sotto gli ordini del comandante Poerio, un valoroso fra i valorosi.

Oggi questo corpo, di cui la Francia giustamente si vanta, è considerevolmente aumentato ed è sempre composto per la maggior parte di elementi stranieri.

Infatti sui 7066 uomini che compongono il primo reggimento, appena 1612 sono francesi. Gli altri sono italiani in numero di 268, alsaziani e lorenesi in numero di 1551, germanici 1441, belgi 1007, svizzeri 573, austriaci 268; gli olandesi non sono che 65.

Questa legione di disperati ha dato in varie epoche alla storia delle pagine gloriose, e si è circondata di una bella fama guerresca. Anche oggidì viene additata come modello di disciplina e di valore, fors'anche perché le fu sempre benigna la sorte, e di rado trovò in qualche imboscata un giudice severo.

Battezzata ai tragici eroismi di Saragozza e di Barbastro, essa scende subito dopo in Algeria che, a pezzo a pezzo, fra orribili fatiche e sanguinosi combattimenti, conquista strappandola all'infaticabile e tenace Abd-el-Kader; poi cade sull'oriente dove inizia, tutto attorno al globo, quel largo e fortunato ciclo di battaglie che ancora oggidì non ha chiuso, e che in ogni anima di soldato desta sempre una vivissima ammirazione.

Nella Legione straniera si rifugia gente d'ogni classe e d'ogni professione, dotti ed ignoranti, miserabili ed uomini che un tempo brillarono nelle grandi capitali europee, tutti travolti nel medesimo turbine.

Molti vi si arruolano per cercarvi l'oblìo o la morte fra le sabbie del Sahara o le paludi del Tonchino, molti per nascondersi o per redimersi, perché una volta arruolati, l'uomo ha spezzato l'ultima maglia che lo legava alla vita, ed ha scritto fine su qualche romanzo di dolore o su qualche terribile dramma.

Dal 1885 la Legione straniera, portata a 15.000 uomini, risiede quasi sempre in Algeria, divisa in due reggimenti: il primo ha la sua sede a Bel-Abbès, il secondo a Saida.

L'età per arruolarsi è dai 18 ai 40 anni, ma vi sono però dei legionari che contano appena 16 anni, come ve ne sono altri che ne hanno 60.

La Francia non rifiuta il braccio di nessuno straniero, quando quel braccio servirà presto o tardi a combattere contro i Tuareg del grande deserto o contro i negri turbolenti del Senegal o del Niger, o contro gli avanzi delle Bandiere Nere dell'Annam o contro i pirati del Fiume Rosso.

Vi sono dei giovanotti alemanni ancora ignari della vita, che lasciano il proprio focolare perché là hanno freddo, ed a lunghe tappe, sempre elemosinando, calano a comitive in Francia solo perché (affermano) hanno udito narrare che la Francia è ricca, che ha pane e lavoro per tutti i disgraziati che soffrono.

Quei miseri, appena giunti al di là della frontiera, s'avvedono subito di trovarsi dinanzi ad un terribile dilemma: o ritornarsene al paese natìo o darsi al vagabondaggio.

Hanno però dinanzi a loro sempre una speranza: la Legione straniera; e vi si gettano dentro come naufraghi che si aggrappano ad una tavola di salvezza, e si arruolano. E tutta quella gente, piovuta da tutte le parti dell'Europa, nobili decaduti, finanzieri rovinati, ufficiali che hanno dovuto rinunciare al loro grado per faccende disgraziate, avvocati senza cause, marinai d'ogni categoria, amanti disgraziati, mariti traditi, tutti quei naufraghi della vita, insomma, si radunano un bello o brutto giorno a Marsiglia, a San Giovanni e s'imbarcano per l'Algeria, di dove vengono internati a Bel-Abbès.

Vi sono gli allegri ed i tristi, i pezzenti e gli eleganti, che portano ancora il cilindro ed i guanti; come vi sono di quelli che non potranno offrire agli ebrei della cittaduzza, sempre in attesa dei legionari per spogliarli con pochi spiccioli, che la sola camicia sbrindellata e un cappello bucato.

Non si creda però che tutti i legionari siano modelli di soldati. Potrebbero dirlo gli arabi di Sidi-bel-Abbès, i quali li sfuggono come la peste.

Il pugno di ferro della disciplina non basta sempre a frenare quell'accozzaglia, che, se ha nel suo seno degli elementi buoni, ne ha anche molti di pessimi.

Si vedono sovente per le tortuose vie della città araba decine e decine di legionari avanzarsi, anche in pieno giorno, traballando, e accade di frequente di trovarne non pochi appoggiati alle pareti delle case o addormentati nei fossati, pieni di vino o di liquori come otri. È vero che tutta quella gente cerca l'oblìo o la morte in qualche sanguinoso combattimento, perché sono, come abbiamo detto, i disperati, i naufraghi della vita. E per ubriacarsi non rifuggono da nulla, nemmeno dal furto, e si derubano l'un l'altro quando non possono derubare l'amministrazione del corpo.

Eppure fra quei traviati che cercano la morte vi sono delle brave persone.

Un giorno un colonnello, passando in rivista i giovani soldati giunti allora al corpo, scorgendo un uomo dalla fisonomia intelligente e dal portamento signorile, gli chiese:

— Che professione avevate voi prima di arruolarvi?

— Io ero professore di tedesco e di francese a Praga.

— E perché siete qui?

— Mio colonnello, io amo la guerra e ho lasciato i miei studenti per il fucile.

Semplici legionari furono pure un generale tedesco e un colonnello austriaco.

Si narra, anzi, che quando quest'ultimo cadde morto, combattendo contro le Bandiere Nere del Tonchino, il generale Negrier si tolse la croce della Legione d'Onore e piangendo gliela appuntò sul petto.

Vi furono in quella Legione disperata perfino dei principi. Un Ruspoli di Roma si arruolò, e scomparve misteriosamente non si sa né dove, né come.

Quanti eroismi però hanno compiuto quei disperati! Abbiamo già accennato all'episodio messicano.

Eccone un altro altrettanto meraviglioso.

Un giorno due battaglioni della Legione straniera mandati al Tonchino, occupano con un colpo di mano una posizione chiamata delle Sette Pagode, la quale aveva una fronte così estesa, da credere temerario qualsiasi atto difensivo. Il governatore di Hai-Djung, preoccupato per la terribile e pericolosa situazione in cui si trovavano quei bravi soldati, insisteva per chiedere rinforzi, ma il generale Negrier rispose sorridendo:

— Lasciate fare alla Legione... voi non la conoscete.

E nessuna orda di Bandiere Nere fu capace di passare attraverso la linea delle Sette Pagode, difesa da quei pochi legionari.

Al Dahomey la Legione ha fatto pure miracoli, e si ricorda ancora con orgoglio in Francia il telegramma spedito dal generale Dodds dopo l'assalto di Cana, la città santa di quel popolo sanguinario, espugnata dai legionari: Je n'ai jamais eu l'honneur de commander à de plus admirables soldats. Da qualche tempo però, anche il legionario si è cambiato: pare abbia degenerato anch'esso. Però, dobbiamo dire a sua difesa che egli in fondo si è arruolato per la guerra e che perciò alla guerra anela. La vita della guarnigione lo snerva, lo ammala, lo irrita e la disciplina della caserma lo uccide. È un errore credere che egli sia un soldato veramente disciplinato ed obbediente ai suoi comandanti. Il pugno di ferro dei comandanti, gli orrori del bled, il Consiglio di guerra, la fucilazione non lo spaventano.

Si sono veduti degli ufficiali prenderli a colpi di scudiscio sul viso; se ne sono veduti altri meno umani spingere i loro cavalli addosso a quelli che affranti dalla stanchezza rimanevano indietro, e spronarli sul viso; ma che monta? Il legionario non ha paura e sfida tutto. Si rivoltano e sfidano sorridendo la fucilazione e guai quando scattano! Alcuni mesi or sono, a Géryville, tre legionari, due francesi ed un belga, inaspriti dalla dura disciplina, si scagliavano contro il loro aiutante che li rimproverava di qualche lieve mancanza, prendendolo a pugni e a calci e riducendolo in uno stato miserando.

E questa vendetta, invece di calmarli li rese furibondi come tigri assetate di sangue. Armatisi di fucili, sapendo già che non sarebbero sfuggiti alla fucilazione, si slanciano attraverso la piccola città e fucilano senza misericordia quanti incontrano sui loro passi, uccidendo superiori, camerati, donne, fanciulli, persino gli animali, con la incoscienza dei pazzi.

Ci volle un distaccamento intero per arrestarli e... più tardi fucilarli.

Simili fatti succedono d'altronde di frequente, e quante diserzioni vanta il Corpo! Stanchi della ferrea disciplina, avviliti, se ne vanno al di là della frontiera marocchina, per cadere sotto i lunghi fucili dei terribili montanari del Riff.

Michele Cernazé dei conti di Sawa, magnate ungherese, era stato travolto, come tanti altri, dal turbine della vita.

Rimasto orfano a vent'anni, possessore d'uno splendido castello sui monti Carpazi e proprietario d'immense mandre di cavalli scorrazzanti nella putza magiara, si era gettato attraverso al mondo, avido di piaceri e di emozioni: Monaco l'aveva fermato sulla sua corsa furiosa: la fatale bisca dove migliaia e migliaia d'uomini ogni anno si rovinano e si suicidano senza un soldo in tasca, dopo aver perduto sul tappeto verde dei patrimoni, l'aveva avvinghiato coi suoi mille tentacoli.

Scomparvero le splendide praterie della putza, scomparvero gli sbrigliati cavalli.

Divorò i merli del castello, poi le mura, poi gl'immensi boschi, fortuna principale dei conti di Sawa, ed un brutto giorno il giovane magnate si era trovato quasi senza una corona in tasca.

L'abisso gigantesco della bisca fatale tutto aveva ingoiato. Che cosa fare? Sopprimersi con un colpo di rivoltella fra le aiuole profumate di quegli incantati giardini baciati dal sempre tiepido sole e dalla brezza molle del Mediterraneo?

No: il magnate era troppo buon cristiano, per finire così tragicamente la sua giovane esistenza, benché la morte non gli facesse paura.

Aveva udito parlare della Legione straniera, dove tanti altri disgraziati avevano cercato un rifugio colla speranza di morire eroicamente sul campo dell'onore e non in mezzo a un gruppo d'alberi di Mentone o di Bordighera, e dentro o fuori la cinta d'un cimitero.

Aveva pur udito raccontare che degli uomini che un giorno avevano brillato come fari nelle grandi capitali europee, avevano cercato l'oblìo fra quei terribili soldati che formavano l'orgoglio e l'ammirazione della Francia, e che senza essere francesi morivano eroicamente per la grande Francia..., e si era arruolato colla speranza di cadere al Messico o in Algeria dove la guerra allora ferveva ancora, con un crescendo gigantesco.

Quella morte che egli avidamente cercava non lo aveva voluto o l'aveva sdegnato, ed era tornato dal Messico più vivo che mai, quantunque decorato d'una medaglia d'oro al valore, per aver attraversato, come già narrammo, insieme a tre altri disperati, un esercito di duemila messicani a baionetta calata.

Terminata la campagna, l'ungherese era stato rinviato in Algeria a Bel-Abbès, ma la vita della guarnigione e la ferrea disciplina non erano adatte al suo temperamento ardente. Il demonio della guerra si era impadronito troppo tenacemente di lui, e come tanti altri legionari era diventato irrequieto ed irascibile.

Il rombo del cannone, i sibili della mitraglia, lo scoppio delle bombe, le urla di morte, le cariche furiose alla baionetta, le fatiche enormi, le notti insonni gli avevano fatta dimenticare la sua brillante gioventù trascorsa nelle grandi capitali europee.

La vita monotona, uniforme, senza svaghi della guarnigione, avevano in breve tempo guastato quel robusto ed ardente organismo.

La nostalgia l'aveva a poco a poco preso. Rivedere la putza verdeggiante, il suo Danubio, Budapest, la catena dei Carpazi, Parigi, Monaco, correre insomma ancora attraverso al mondo era diventato il suo sogno, un sogno che turbava troppo intensamente i suoi sonni.

Aveva ancora de' parenti ricchi in Ungheria; poteva contare su delle vistose eredità... ed un giorno aveva disertato colla ferma intenzione di raggiungere Tunisi, e di là imbarcarsi per Fiume.

La fortuna che l'aveva fino allora protetto contro la morte, gli era mancata nella fuga, e dopo tre giorni era stato ripreso da un plotone di spahis e ricondotto al reggimento.

I comandanti della Legione straniera non ischerzano coi disertori, e il povero magnate, malgrado la sua medaglia d'oro al valore, era stato condannato a tre anni da scontare fra le compagnie di disciplina del bled di Ain-Taiba. Il bled è il terrore di tutte le truppe francesi, siano legionarie o coloniali... è l'inferno, e forse peggio dell'inferno.

Le corse intorno all'accampamento inondato da una pioggia di fuoco, le manovre durissime, la disciplina ferrea sono un nulla.

Prima si credeva che fosse una specie di reclusione, ma un coraggioso giornalista francese, Jacques Dhur, che prima aveva svelato le infamie che si commettevano contro i forzati della Nuova Caledonia, ha gettato una luce sinistra su quegli accampamenti disciplinari perduti fra le ultime sabbie dell'Algeria, quasi alle basi della grande catena dell'Atlante, lontani da ogni controllo civile.

Come abbiamo detto, i penitenziari algerini sono inferni che ispirano un vero spavento a tutti e gli aguzzini che vi si trovano addetti (questo e non altro è il vero loro nome, checché se ne dica) vi spiegano tale raffinata crudeltà da disgradarne qualunque leggendario inquisitore, perfino lo stesso Torquemada.

Tutte le torture fisiche e morali vengono messe in opera; tutti gli espedienti vengono escogitati per inferocire contro quei disgraziati condannati al bled infame, i quali spesso sono tratti alla rovina colla più sottile perfidia, colle più infami macchinazioni, al solo scopo, a quanto è risultato, d'ingannare la noia e gli ozi di gente che si fa giuoco della vita e dei dolori degli altri.

Prima di tutto nulla è più accasciante, nulla è più deprimente dell'esistenza che si conduce nelle compagnie di disciplina. Nella solitudine di quell'accampamento, eretto quasi ai piedi della grande catena dell'Atlante, cosparso dalle sabbie che il simun trasporta dal non lontano Sahara, nell'ossessione sempre eguale, sempre fosca, del paesaggio arido, appena interrotto da pochi magri palmizi, senza altri compagni che gli sventurati condannati come loro alle umiliazioni ed alle torture quotidiane, i miseri condannati per anni ed anni alle compagnie di disciplina subiscono quasi subito un grande scoraggiamento morale a cui ben pochi fortunati, dotati d'un carattere veramente ferreo, possono resistere.

Dinanzi alla impossibilità quasi assoluta d'una fuga senza l'aiuto di qualche moro od arabo della regione — cosa molto problematica — i disciplinari della Legione non tardano a sentir nascere in loro l'idea d'un mutamento di luogo a qualsiasi prezzo e non importa con quale pretesto. È la follia della vita cieca come ben disse Jacques Dhur — che essi conducono, una specie di follia, che potrebbe essere classificata soltanto dagli alienisti.

Quella pioggia di fuoco che non cessa che la sera, quell'intensità di luce riverberata dai bianchi fabbricati che circondano più o meno il bled, quell'orizzonte sconfinato ma limitato a breve distanza dal plotone di punizione, la visione delle alte vette della grande catena dell'Atlante, ricche di alberi frondosi e di fresche ombre e quella della cosiddetta tomba ossia della cella di rigore, dei ferri o del Consiglio di guerra, finiscono per far diventare pazzi o furiosi quegli sventurati.

E non tarda, infatti, a giungere il momento in cui i più coraggiosi, i più tenaci, i più risoluti alla resistenza, cercano, con un atto disperato, di porre una fine a quella vita di tribolazioni, e di farla finita con una fucilazione in pieno petto o nella schiena.

Si sono visti dei disciplinari mutilarsi spaventosamente per cercare nell'ospedale del bled un po' di riposo.

Ad Aen Lepa uno di quei poveri diavoli, non potendo più reggere ai rigori, con un colpo di trincetto s'aprì la coscia destra e la imbottì di terra per procurarsi un'infezione; un altro, con un colpo di scure si troncò un dito della mano sinistra.

Un fuciliere della terza compagnia che si trovava nel bled di Bioskra dove da cinque mesi gli facevano soffrire la fame, avendo appreso che i suoi compagni ammalati venivano trattati umanamente dal medico di servizio, credendo di non essere veduto, spezzò colla mano un vetro per ferirsi e andare un po' a riposarsi.

Disgraziatamente un graduato l'aveva veduto compiere quell'atto, ed invece dell'ospedale quel disgraziato si prese un anno di prigione e cinquanta lire d'ammenda per compensare l'amministrazione di quel povero vetro che non costava più di cinquanta centesimi!...

Scoraggiati, depressi, avviliti, mal nutriti, ammazzati dal sole ardente e dalle incessanti fatiche, pur di respirare un'altra atmosfera sia pure per pochi giorni, poiché dopo la pagheranno cara, i disciplinari non si contentano di mutilarsi come fanno i forzati di Caienna o della Nuova Caledonia; si fanno perfino inviare dinanzi al Consiglio di guerra.

In questo, fra l'altro, sono aiutati anche dai loro sorveglianti e nel tempo stesso carnefici, ai quali non par vero di fare un viaggio fino sulle rive del Mediterraneo e di uscire, di quando in quando, dai sabbiosi ed aridi accampamenti del bled, arsi eternamente dal sole africano per andare a divertirsi un po' ad Algeri. Nasce di qui, sovente, una specie di accordo fra l'aguzzino e il condannato.

Tanto l'uno che l'altro, infatti, non sono animati che da un solo desiderio: quello di lasciare per un po' di tempo l'inferno del bled e di cambiar aria, e per ciò, tacitamente, si porgono un aiuto reciproco. Si scelgono così non le gravi vie di fatto contro un superiore, ciò che metterebbe, il disciplinario al rischio di farsi fucilare senza misericordia, ma dei delitti molto più miti, come la lacerazione volontaria di effetti di vestiario, l'abbandono del posto, il sonno durante le fazioni, un insulto contro i sergenti in istato di ubriachezza e così via.

Se il disciplinare acconsente a lasciarsi mettere in prevenzione dinanzi al Consiglio di guerra sotto un pretesto abbastanza futile, è oggetto, durante il viaggio fino ad Algeri, davanti ai sorveglianti che approfittano di quel viaggio di piacere sospirato forse da mesi e mesi, di molteplici e delicate cure. Può fumare, bere e mangiare a spese dei suoi aguzzini, i quali non guardano alla lira che non hanno avuto occasione di consumare nell'arido bled. Tuttavia, per quanto depressi o demoralizzati, non tutti i disciplinari accettano di fare il comodo dei superiori e di prendersi un paio d'anni, se non di più, di cella di rigore per fare insieme una gita ad Algeri.

Disgraziati però quelli che si rifiutano! I sorveglianti non avranno alcuno scrupolo per irritarli, e per spingerli, coi mezzi più subdoli e più barbari, alla rivolta.

Non parliamo delle corse furiose attorno alla pista del bled né dei comandi furiosi, precipitati, che fanno perdere la testa anche all'uomo provvisto del più superbo sangue freddo. Gli aguzzini hanno qualche cosa di meglio sotto le mani per irritare il disciplinario e spingerlo alla ribellione.

Alla distribuzione delle coperte e delle brande di notte, il graduato che ha già preso di mira qualche povero diavolo che si è ammazzato per resistere con una tenacia meravigliosa che pochi possono possedere, getta una coperta strappata, tutta bucherellata, assolutamente inservibile.

Il disciplinario, naturalmente, protesta per non venire accusato l'indomani, dopo la sveglia, di averla ridotta lui, in quello stato miserando, ciò che lo condurrebbe dinanzi al Consiglio di guerra sotto la grave accusa di aver guastato effetti appartenenti all'Amministrazione militare.

Naturalmente la vittima, presa ormai di mira, protesta e gli si risponde con dei sarcasmi. Il disciplinario si esaspera, la testa gli gira, come dicono laggiù nel bled infernale, e risponde sullo stesso tono.

Ecco l'oltraggio! Il disgraziato, imputato di aver insultato dei superiori, viene cacciato nella cella di rigore in attesa di tradurlo dinanzi al Consiglio di guerra di Algeri. E il giuoco è fatto senza compromettersi.

Un altro mezzo è quello della gamella forata, con un piccolo buco fatto da un lato da uno dei sorveglianti per irritare qualche povero diavolo, e ottenere così il mezzo di fare una corsa fino ad Algeri.

Il disciplinario osserva che il brodo sfugge, e che, per conseguenza, prima che giunga nella camerata, non gliene rimarrà nemmen un sorso.

Le sue proteste, naturalmente, si spezzano contro l'indifferenza beffarda dei sorveglianti e del distributore delle razioni, sicché, perduta la pazienza, finisce, il più delle volte, con lo scaraventare la gamella sulla faccia di qualcuno.

Il motivo è ottimo: il mezzo è raggiunto. Si tratta di vie di fatto, e quel povero disciplinario può essere condannato perfino alla fucilazione!

I sott'ufficiali sono, evidentemente, gli aguzzini immediati dei condannati al bled, però — tristissimo a dirsi — quei sergenti sono assai spesso quali li hanno fatti certi ufficiali loro superiori.

Ve ne sono di umani, ma ve ne sono anche di pessimi, diventati tali forse in causa del clima e dell'isolamento di quei fiammeggianti accampamenti perduti in fondo all'Algeria quasi sterile.

— Ecco come va trattata questa canaglia — diceva un giorno un capitano, che doveva essersi alzato di pessimo umore, dopo aver fatto fare la terribile danza sotto la pioggia di fuoco ad un plotone di disciplinari. — Ma ci sono quei sette od otto individui imbarazzanti che io sarei ben contento di vederli scomparire, perché mi sono antipatici. Trovatemi, sergente, qualche motivo per mandarli dinanzi al Consiglio di guerra. Io m'incaricherò del resto, e la compagnia sarà purificata.[1]

E dopo aver fatto correre furiosamente quegli sventurati fino al completo esaurimento, quell'ottimo capitano, indicando un disciplinario, aveva subito soggiunto:

— Ecco qui appunto uno che mi dà noia!

E col gesto aveva indicato un povero diavolo, grondante di sudore, quasi asfissiato, arrostito dal sollione e che aveva un solo difetto: di avere un viso che non piaceva al suo superiore.

Non ci voleva molto, a spingerlo a commettere una sciocchezza.

Il capitano gli si era avvicinato tormentandolo in tutti i modi con una tempesta di osservazioni, bersagliandolo spietatamente coi più feroci sarcasmi, tempestandolo di ordini e contrordini contradditori ed assurdi.

Il disgraziato, fuori di sé, inebetito già dal sole e dal ballo, affranto dalla stanchezza, aveva finito per non comprendere più nulla e per barcollare come un ubriaco.

Era il trionfo del superiore. Il soldato non obbediva più agli ordini del superiore: cella di rigore!

Un altro capitano, mettiamo pure inasprito dal soggiorno infernale del bled alla ferocia univa pure una grande dose d'ipocrisia — narra il signor Dhur, che fece una rigorosa inchiesta.

Quel comandante aveva ormai perfettamente compreso — e ne dava la spiegazione ai graduati che si trovavano sotto i suoi ordini — che esasperando un individuo con una immeritata punizione, si sarebbe indotto, a poco a poco, a commettere qualcosa di grave.

— E con ciò, — aggiungeva — riusciremo a sbarazzarci dai cattivi soggetti in modo assoluto e definitivo.

Un altro — mettiamo pure inasprito anche lui dal clima e dall'isolamento del bled — si accanì un giorno nel modo più violento e più feroce contro un graduato il quale, più umano, faceva invece il possibile perché i disciplinari non si compromettessero in un impeto inconscio di collera.

La conclusione fu questa:

— Nessuno qui ha diritto di essere benevolo!

Come abbiamo detto, anche nelle compagnie di disciplina vi sono dei superiori buoni ed umani, ma basta che qualche comandante consideri gli uomini a lui soggetti come figurine di un giuoco di massacro, perché una compagnia di disciplina o un penitenziario, creati per l'emendamento e l'educazione di soldati fuorviati o indisciplinati, diventi non una galera ma un vero inferno.

  1. Storico.
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