< Sull'Atlante
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5. La caccia al leone
4. Sangue arabo 6. La vendetta di Afza

5.

LA CACCIA AL LEONE


— Ehi, conte, hanno picchiato!

Michele Cernazé si era prontamente alzato, stiracchiandosi le membra indolenzite dal durissimo tavolato della cella di rigore.

— Chi è? — chiese al toscano il quale faceva strepitare le sue catene.

— Non lo so, ma mi pare che sia già molto tardi. La sveglia deve essere suonata da un pezzo. Hai sentita la tromba tu, conte?

— Io no, Enrico.

— E nemmeno io. Pare che si dorma meglio nelle celle di rigore che sotto le baracche. È vero, però, che ho tutte le costole fracassate.

In quel momento una chiave girò e rigirò entro la toppa sgangherata da Steiner e dopo molti scricchiolii la porta si aprì.

Comparve la leale e franca figura di Ribot.

— Si dormiva, dunque? — chiese il sergente, chiudendo subito la porta. — Sono le otto del mattino, signori prigionieri, ed è l'ora della colazione.

Il conte si era vivamente alzato. Una rapida contrazione gli aveva alterato il viso.

— L'hai veduto? — chiese con voce tremula.

— Hassi-el-Biac! L'ho lasciato un'ora fa. Sono mattinieri gli arabi dei duars, ma hanno ragione perché hanno del caffè eccellente.

— E...

— Afza, volete dire, conte. No, io non ho potuto vederla.

— Perché? — chiese l'ungherese con violenza.

Ribot sorrise un po' maliziosamente.

— Mi stupisce che me lo domandiate, conte — disse poi. — Eppure sono molti anni che vi trovate nell'Algeria e dovreste conoscere i costumi degli arabi della bassa Algeria.

— Tu, dunque, hai finalmente compreso?...

— Che il Raggio dell'Atlante oggi si chiama la contessa di Sawa — rispose Ribot.

— È inutile che lo neghi — disse il magiaro. — L'ho sposata secondo il rito mussulmano due mesi sono.

— Non avevate pensato, però, che vi era un altro uomo che l'amava furiosamente.

— Il maresciallo, non è vero?

— Purtroppo è stato per quello che v'ha spinto a commettere quella piccola sciocchezza che vi costerebbe la vita se non vi fosse un Ribot ed un Hassi-el-Biac.

— Per centomila sogliole fritte e per tutte le code del diavolo! — esclamò il toscano, il quale fino allora aveva ascoltato quelle rivelazioni sgranando sempre più gli occhi. — Ecco un capitolo d'un romanzo che si potrebbe chiamare: Un dramma in Algeria! Che peccato che Dumas non sia qui.

— Hassi-el-Biac, hai detto? — disse il conte guardando Ribot. — Che non si comprometta: non lo voglio assolutamente. Io solo desidero giuocare la mia libertà.

— Spero però, conte, che non rifiuterete la colazione che mi ha pregato di offrirvi.

— Un paio di pernici forse? — chiese il toscano che già si sentiva venire l'acquolina in bocca.

— Ahimè! Questa parrebbe una pessima pernice — rispose Ribot con accento comico, traendo fuori dal suo carniere la grossa pagnotta datagli dal moro. — Non so però se dentro nasconda qualche pasticcio. Potrebbe anche darsi.

— Date qui, Ribot — disse il magiaro.

Il sergente stava per obbedire quando udì nel corridoio tuonare la voce del baffuto maresciallo.

— Corpo di una balena putrida! — urlava. — Dov'è quell'animale di Ribot? Ventre di foca cancrenosa e tisica! Mi scappano tutti, stamani? Ribot! Ribot!

Il sergente lanciò sul tavolino la grossa pagnotta, e si slanciò fuori chiudendo in fretta la porta e cacciandosi in tasca la chiave.

— Ecco il mangiatore di ventri putridi — disse il toscano. — Ora divorerà balene, foche, orsi, leoni...

— Taci — disse il conte. — Ascoltiamo.

Non udirono però che una sequela d'imprecazioni a base di ventri, poi il silenzio tornò nel corridoio come se le furie dell'irascibile e baffuto maresciallo fossero d'un tratto sfumate.

— Avevo una paura indiavolata che quell'animale di maresciallo venisse a farci una visita — disse il toscano. — La catastrofe sarebbe stata completa, poiché ai suoi sguardi non sarebbero certamente sfuggite le sbarre.

— Se invece di quel bravo uomo di Ribot avesse incaricato un altro di sorvegliarci, sarebbe certamente entrato per assicurarsi coi suoi occhi se noi siamo incatenati come bestie feroci — disse l'ungherese. — Fortunatamente si fida del sergente, che crede un vero aguzzino, mentre Ribot di nascosto favorisce tutti i prigionieri e quando può li fa anche scappare.

— È un vero gentiluomo, quel Ribot.

— Un nobile provenzale, naufrago anche lui della vita; non potrà diventare mai un carnefice.

— E la pagnotta di Afza?

— Toh! Me l'ero scordata — disse il conte.

— Perché te l'ha mandata? Credeva, quella brava ragazza, che noi soffrissimo la fame?

— Chiamala la contessa di Sawa — disse il magiaro con un malinconico sorriso, accompagnato da un lungo sospiro.

— Mi scordo sempre che è tua moglie — rispose il toscano. — È meglio che io abbia mangiato il brick di mio padre perché diversamente sarei diventato un avvocato più somaro di tutti gli asini che pascolano sulla superficie dell'orbe terracqueo.

Il conte, malgrado la gravità della situazione, non potè frenare una risata.

Si rizzò come meglio potè, e afferrò la pagnotta. Come Ribot, fu subito colpito da quei due buchi mascherati malamente da uno strato di cera nerastra o da qualche altra consimile materia.

— Dentro si nasconde qualche cosa — disse.

— Qualche coltello? — chiese il toscano il quale seguiva con ansietà tutte le mosse del conte.

— A che cosa ci servirebbe?

— Infatti è vero: una lama non taglierebbe le nostre catene.

Il conte afferrò la pagnotta con le mani e la spezzò di un colpo, quantunque fosse tutt'altro che tenera, perché gli arabi usano di farsi il pane di miglio una volta al mese, e talvolta anche ogni due mesi.

Tosto due piccoli oggetti caddero sul tavolato con sordo rumore.

— Me l'ero immaginato — mormorò il conte. — Queste valgono più di un pugnale e d'una pistola.

Gli oggetti che Hassi-el-Biac aveva nascosti dentro la pagnotta erano due piccole lime tratte da una scaglietta di sasso, eseguite con mirabile precisione, e che dovevano mordere il ferro delle catene non meno meglio di quelle d'acciaio, col vantaggio di non produrre il menomo rumore.

— Caro conte — disse il toscano — tu hai una moglie adorabile che a ragione hanno chiamata il Raggio dell'Atlante, ed un suocero più adorabile ancora, perché ci manda la libertà dentro una miserabile pagnotta, che fra poco però addenterò.

— Farai anzi bene a farla sparire al più presto. Il maresciallo potrebbe farci una poco gradita visita.

— È grossa, ma ti prometto di seppellirla entro il mio magro corpo in meno di dieci minuti. Ne vuoi tu?

— Sì, perché è stata lavorata probabilmente anche da Afza.

— Divoriamo allora il cibo manipolato dal Raggio dell'Atlante.

Il toscano afferrò mezza pagnotta e si mise a lavorare di denti come un uomo digiuno da quarantott'ore. Era dura bene, ma i denti del livornese erano saldi come quelli d'uno squalo, ed in pochi momenti tutto scomparve.

Il conte, dopo d'aver nascosto le due piccole lime entro la camicia di tela grossolana, lo aveva imitato divorando, non meno avidamente, l'altra metà.

— Io credo di non aver mai fatto una colazione così appetitosa — disse il toscano il quale stava masticando l'ultimo boccone. — Che sia il profumo delle dita del Raggio dell'Atlante?

— Quando finirai di perdere il tuo eterno buon umore? — disse il conte.

— Nemmeno quando mi vedrò dinanzi dodici soldati ed un ufficiale che griderà: fuoco!

— Contro di te?

— Certo! Se il Consiglio di guerra metterà le sue grinfie sul mio magrissimo corpo...

— Io non lo credo, Enrico. Questa sera noi fileremo, te lo dico io.

— Se non ci ammazzeranno le sentinelle.

— La notte sarà buia e probabilmente tempestosa. Sento che i miei nervi sussultano e vedrai che scoppierà questa sera qualche uragano. Tu sai quanto siano formidabili in queste ardenti regioni.

— Rari sì, ma che fanno sempre paura. Anche il mese scorso sette disciplinari sono stati fulminati sotto la tettoia numero 4.

— Lo so — rispose il magiaro.

Il toscano stette qualche minuto zitto, torcendo e ritorcendo la catena che lo teneva imprigionato al tavolato, poi disse:

— Tu, conte, non mi hai mai narrato come hai conosciuto il Raggio dell'Atlante. Ho udito bensì parlare della storia di un leone ucciso da te, ma niente di più. Giacché non siamo obbligati ad eseguire le danze dei disciplinari, potremmo narrarci qualche cosa d'interessante. Io, per esempio, non capisco come tu, cristiano, abbia potuto amare e farti amare da un'araba.

— È una storia molto lunga, Enrico.

— Per centomila sogliole fritte! Se dobbiamo scappare questa sera tu avrai tutto il tempo necessario per raccontarmi non un capitolo di un romanzo, bensì un romanzo intero. Vuoi che stiamo qui a giuocare tutto il giorno colle nostre catene o a sbadigliare come coccodrilli sonnecchianti al sole? Le pagnotte e l'acqua non ce le porteranno prima di mezzodì, e prima d'allora spero che tu avrai finito, conte. Ci tengo sai, io, ai racconti interessanti! Bocciato come avvocato, pessimo soldato senza speranza di guadagnarmi nemmeno i galloni di caporale, quando lascerò l'Africa maledetta, il continente nero, come si usa di chiamarlo ora con una frase rimbombante, voglio provare a diventare scrittore.

— Ed intanto raccogli storie — disse il conte.

— Per riempire un po' la mia zucca di zavorra, più o meno buona non importa. Racconta, magnate. Quell'affare del leone m'interessa. Doveva essere una bestia molto preziosa per far cadere nelle tue mani, come una mela matura, il Raggio dell'Atlante.

— Una semplice avventura — disse il conte.

— Spetta a me, futuro scrittore, a giudicare — rispose il toscano con comica gravità.

— Giacché vuoi saperlo, ti narrerò come io ho conosciuto Afza e suo padre. Tu sai che tre mesi sono, il capitano del bled aveva promesso cinque giorni di permesso per cacciare nei dintorni a coloro che si fossero mostrati sottomessi.

— È vero; ma io non sono stato uno di quei fortunati — disse il toscano. — Mi avevano rubato una scarpa, ho protestato, ho urlato contro i sorveglianti, ed invece della libertà mi hanno cacciato dentro a pane ed acqua per una settimana. Tira avanti, conte. Ti giuro però che se un'altra volta me le portassero via tutt'e due, io non protesterò più e andrò a piedi nudi.

— Se continui a chiacchierare...

— La storia non va più avanti; hai ragione, camerata, ed io allora non potrò mai scrivere il mio romanzo sul Raggio dell'Atlante.

— Avuti dunque i miei cinque giorni ed un buon fucile per la caccia grossa, sono andato, insieme ad un sorvegliante che doveva guardarmi a vista, a chiedere ospitalità ad un piccolo duar tenuto da un povero coltivatore. Avevo già mandato al bled una mezza dozzina di gazzelle, quando una sera, verso il tramonto, mentre stavo fumando la pipa dinanzi alla tenda stracciata del mio arabo, chiacchierando col sorvegliante, vidi giungere Hassi-el-Biac, il padre di Afza, che avevo veduto altre volte.

«"Signore," mi disse "tu hai un buon fucile e mi hanno detto che sei un bravo cacciatore."

«"Quando mi si presenta l'occasione sparo e cerco di colpire sempre la preda," gli risposi.

«"Ti fanno paura i leoni?"

«"Niente affatto."

«"Una di quelle bestiacce è scesa dalla montagna e m'ha divorato quindici montoni."

«"Quando l'ultimo?" gli chiesi.

«"Stamani, qualche ora prima dell'alba. Il mio servo negro lo ha scorto benissimo nel momento in cui balzava sopra la cinta, portandosi in bocca una delle mie bestie. Dei montoni poco mi curo, ma temo per i miei mahari e tu sai che ne posseggo molti, perché sono il più grosso allevatore dei dintorni."

«"E che cosa vuoi tu da me?"

«"Che tu mi aiuti a uccidere quella belva sempre affamata," mi rispose Hassi-el-Biac. "I frangi sono tutti famosi cacciatori."

«Riflettei un momento non osando di primo acchito accettare quella proposta che poteva costarmi la pelle. Io non ero alle mie prime armi; avevo ammazzato non pochi orsi fra i burroni dei Carpazi, senza contare tre o quattro jene che avevo ucciso nei dintorni del bled.»

— Me ne ricordo — disse il toscano. — Il comandante ti regalava ogni volta un litro di vino più o meno acido. Continua, magnate; questa storia comincia ad interessarmi straordinariamente. Non mi pare d'essere nemmeno in cella, bensì al Caffè dei Naufraghi, dove la sera noi studenti ci raccoglievamo per raccontarci... non già cacce di leoni. Quelle erano gonnelle.

— Continuo — disse il conte. — Vedendo che il moro insisteva, con una certa cortesia da vero grande signore africano, gli chiesi se fosse sicuro che si trattasse d'un vero leone.

«"Ti ho detto che il mio servo lo ha veduto," mi rispose.

«"Era grosso?"

«"Come un piccolo toro" mi disse.

«"Va bene," aggiunsi. "Aspettami stasera."

«Quando il sole fu prossimo al tramonto, mi diressi verso il duar di Hassi-el-Biac accompagnato da un beduino che tirava a meraviglia. Il sorvegliante, udendo parlare di una caccia al leone, aveva preferito invece di dormire sulle stuoie stese dinanzi alla tenda.»

— E sorbire una buona tazza di caffè — disse il toscano. — Profumata probabilmente con un pizzico d'ambra, non è vero?

— Precisamente, Enrico — disse il conte. — Figurati la mia sorpresa quando vidi Hassi-el-Biac in compagnia di sua figlia, la quale stringeva fra le mani una splendida carabina di fabbrica inglese.

«"Viene anche Afza?" gli chiesi, stupito.

«"Sì," rispose il moro. "Mia figlia è abituata alle grosse cacce, e poi devo avvertirti che non si tratta d'un solo leone."

«"Ah! Diavolo!" esclamai io.

«"Quest'oggi il mio servo stava scendendo la collina che s'alza laggiù, con un carico di legna, quando giunto in mezzo ad un burrone ingombro di rovi vide il leone. Stava ritto su una piccola altura, in una posa da far rabbrividire, ed a poca distanza si trovava la femmina, la quale pareva che stesse in agguato."

«"E non lo hanno mangiato?" gli chiesi io.

«"No," mi rispose Hassi-el-Biac "si sono contentati di guardarlo e di seguirlo con gli sguardi finché scese nella pianura."

«Ti confesso che cominciavo a preoccuparmi anch'io di quella partita di caccia. Affrontare un leone solo poteva passare, ma trovarsi forse improvvisamente dinanzi a due, vi era da pensarci un po', quantunque fossi in buona compagnia.

«Tuttavia non potevo ormai rifiutarmi.»

— Si capisce — disse il toscano ridendo. — Vi era Afza...

— Hai indovinato, Enrico. Volevo vedere come si sarebbe comportata quella splendida fanciulla dinanzi al terribile pericolo.

— Sfido io! Il cuore cominciava già a batterti, e scommetto che avresti affrontato anche dieci pantere.

— Taci, stregone!

— Sono contento d'aver indovinato, conte. Continua, per mille sogliole fritte e per tutte le code del diavolo! Questo sarebbe un magnifico capitolo d'un romanzo, se potrò scriverlo.

— "Sai dove si trova quel burrone?" chiesi ad Hassi-el-Biac.

«"Sì, ed io ti condurrò là insieme a mia figlia," mi rispose.

«Guardai il Raggio dell'Atlante: era calma, come se si trattasse di andar a tirare alle allodole o alle pernici. Un sangue freddo meraviglioso, te lo assicuro.

«"Andiamo," gli dissi.

«Ci mettemmo in marcia. Il mio arabo era un buon tiratore, e possedeva un ottimo fucile francese quantunque avesse il calcio ripiegato come usano i berberi.

«Erano circa le nove di sera quando giungemmo in mezzo alle boscaglie che coprivano i fianchi delle colline.

«La luna sorgeva allora dietro le lontane ed altissime creste dell'Atlante e s'alzava in mezzo ad un'atmosfera purissima, illuminando i burroni come in pieno giorno.»

— Fulmini delle sogliole! — esclamò il toscano, alzandosi a sedere. — Tu racconti meravigliosamente, conte. Peccato ch'io non abbia una matita e della carta. Amministrazione ladra che non passa nemmeno un pezzaccio di carta ai poveri prigionieri. Mi contenterei anche di quella che serve pel formaggio salato! Avanti, conte.

— Un'auretta fresca spirava da ponente, mormorando fra le foglie dei lauri e dei giganteschi sicomori con un sussurrìo delizioso. Io non pensava già più ai leoni...

— Guardavi gli occhi lucenti del Raggio dell'Atlante illuminati dalla luna. Dovevano essere splendidi quella notte!

— Finiscila, o non saprai la storia dei leoni — disse il conte sorridendo.

— Ed il mio romanzo futuro, allora? Chiudo il becco e non parlo più! Il punto più interessante sta per venire.

— Procedevamo in silenzio, cautamente, — riprese il magnate — potendo darsi che i due leoni si trovassero imboscati in mezzo ai fitti cespugli che fiancheggiavano i burroni e che ci piombassero addosso di sorpresa. Salimmo così per una buona mezz'ora, inoltrandoci sempre più nella foresta, poi giungemmo su una china che era coperta solamente da cespugli bassi ma molto folti, e che scendeva in una specie di burrone, il quale non sembrava che avesse alcuno sbocco.

«"I due leoni sono stati scorti qui," mi disse il padre di Afza.

«Guardai attentamente entro il burrone che era tutto coperto da piante, e mi venne un sospetto.

«"Scommetterei che quei due leoni hanno il loro covo là dentro," dissi ad Hassi-el-Biac.

«"Lo credo anch'io," mi rispose. "Vuoi che proviamo a scendere?"

«"Lascia però qui tua figlia insieme al mio uomo. Sarebbe una grave imprudenza condurla con noi."

«Il moro approvò con un gesto del capo, poi mi disse con voce perfettamente calma:

«"Andiamo, frangi?"

«"Tenete il dito sul grilletto dei vostri fucili," dissi ad Afza ed al mio arabo. "Badate di non far fuoco che a colpo sicuro."

«Io ed Hassi-el-Biac scendemmo adagio adagio, aggrappandoci colla mano sinistra agli sterpi essendo la china molto ripida ed appena raggiunto il fondo del burrone ci fermammo, puntando istintivamente i nostri fucili.

«Dinanzi a noi stava il carcame d'una gazzella che pareva fosse stato spolpato di fresco, essendo le ossa ancora rosse di sangue, e più oltre, sparsi fra i cespugli, scorgemmo altri ossami e dei pezzi di pelle appartenuti ad altri animali e che si decomponevano, spandendo intorno a noi delle esalazioni nauseanti.

«"Tu hai indovinato," mi sussurrò Hassi-el-Biac. "I leoni hanno qui la loro tana."

«"Aspettami," gli risposi, "e appena li vedi, fa' fuoco senza esitare."

«"E tu?"

«"Vado a scovarli."

«Il moro mi guardò, stupito forse del mio coraggio, ma io ero ben deciso di dare una prova della mia audacia.»

— A chi? All'arabo o al Raggio dell'Atlante! — chiese maliziosamente il toscano.

— Lasciami continuare il racconto. Mi avanzai, dunque, seguendo la china del burrone che in quel luogo era ripidissima.

«Avevo percorso venti o trenta metri, quando udii dinanzi a me un leggero fruscio, e nell'istesso tempo scorsi le estremità di alcuni rami oscillare.

«"È là dentro," pensai subito.

«Mi misi in posizione di far fuoco e attesi, sperando che i leoni si mostrassero.

«Non avendo udito più nulla e potendo darsi che quel fruscio fosse stato prodotto da qualche rettile, ripresi il cammino in avanti, allontanandomi sempre più da' miei compagni.

«A un tratto vidi un'ombra sgattaiolare in mezzo ai cespugli, e poco dopo una coda che sferzava poderosamente i rami. Puntai rapidamente il fucile, e feci fuoco più volte.

«Un ruggito spaventevole, che si ripercosse nel burrone come un colpo di tuono, seguì i due spari; poi una massa oscura balzò al di sopra di un cespuglio, cadendo dall'altra parte.

«"L'ho colto!" gridai. "Corri, Hassi!"

«Poi, senza aspettare che il padre di Afza mi fosse vicino, feci il giro della piccola macchia, sicurissimo di aver fulminato la belva.

«D'improvviso indietreggiai, mandando un grido di terrore.

«A cinque passi da me, coricata fra le erbe, giaceva una magnifica leonessa. Vedendomi, mi piantò gli occhi addosso ruggendo sordamente.

«Invece d'averla uccisa, l'avevo solamente ferita, fracassandole le due zampe anteriori.»

— Non vorrei essermi trovato al tuo posto — disse il toscano. — Come te la sei cavata?

— Meglio di quanto potresti supporre — rispose il magnate. — Sapendo per esperienza che l'occhio umano esercita quasi sempre un certo fascino sulle belve, a mia volta fissai la leonessa mentre, di soppiatto, cacciavo dentro il fucile due nuove cartucce.

«Dovevo essere orribilmente pallido in quel momento. Si può essere coraggiosi fino alla follia in un attacco alla baionetta, ma io sono convinto che nessun uomo possa conservarsi calmo dinanzi a uno di quei formidabili carnivori.

«Mi ricordo, come fosse ora, che grosse gocce di sudore mi scendevano lungo le gote. Il mio cuore poi non lo sentivo più battere, tanta era l'angoscia che mi opprimeva in quel terribile momento.»

— Fai venire anche a me la pelle d'oca.

— Guardando sempre la leonessa, che strisciava lentamente fra le erbe per giungere a buona portata ed atterrarmi con una zampata, alzai lentamente la mia carabina, poi feci un salto indietro.

«Vedendo scintillare la canna, che i raggi lunari illuminavano, con uno sforzo disperato si era rizzata, preparandosi a saltarmi addosso.

«Non le lasciai il tempo, poiché fui pronto a fare nuovamente fuoco.

«La belva spiccò un salto in aria mandando un ultimo ruggito, poi si rovesciò sul dorso mentre un'altra palla la colpiva in pieno ventre.

«Hassi-el-Biac era accorso al mio grido e aveva fatto fuoco qualche secondo dopo di me.

«Certi di averla proprio uccisa, ci avvicinammo. La morte era stata istantanea: le mie due ultime palle le avevano fracassato il cranio.

«"Dove sarà il leone?" chiesi allora ad Hassi-el-Biac, il quale si sfogava a percuotere il cadavere col calcio del fucile come se avesse voluto vendicare maggiormente i suoi montoni.

«"Deve esser andato a caccia," mi rispose. "Se si fosse trovato in questi dintorni non avrebbe mancato di accorrere in aiuto della sua compagna."

«"Che si sia recato al tuo duar?"

«Udendo quelle parole, vidi il moro impallidire, poi stringere i denti per la collera.

«"Ah!" mi disse con voce sorda. "Sarei ben lieto d'incontrarlo intorno al mio recinto."

«Percorremmo tutto il burrone senza riuscire a scovare il maschio, sicché fummo d'accordo di tornare al duar per goderci qualche ora di riposo.

«Seguiti da Afza e dal mio uomo, scendemmo la montagnola senza aver fatti cattivi incontri. Non avevamo scorto che qualche jena, la quale si era affrettata a prendere il largo colla solita vigliaccheria che distingue simili animali.

«Era quasi mezzanotte quando giungemmo in vista del duar, e con nostra grande sorpresa scorgemmo numerosi fuochi accesi intorno alle due tende. Nel medesimo tempo ci giunsero agli orecchi dei lamenti lugubri, annuncianti una qualche disgrazia.

«Affrettammo il passo in preda a una viva inquietudine e non tardammo ad avere la spiegazione di tutto quel trambusto. Il leone ne aveva fatta un'altra delle sue. Mentre noi davamo la caccia alla sua compagna, era sceso nella pianura e aveva sorpreso un servo di Hassi addormentato fuori dalla tenda, gli aveva aperto il petto con un poderoso colpo di artigli, poi era scappato senza aver potuto portar via la preda.»

— Ah! Furfante! — esclamò il toscano, il quale ascoltava il conte a bocca aperta.

— "Vuoi che lo vendichiamo?" mi chiese Hassi, il quale scattava di rabbia. "Il leone a quest'ora deve essere tornato nella sua tana, e sono sicuro che non uscirà fino a domani sera. Questo è il vero momento di andarlo a scovare; e se tu mi aiuti a ucciderlo, signore, ti prometto dieci montoni."

«La notte ormai era perduta, quindi non mi feci pregare due volte, e ripartimmo. Anche questa volta Afza, malgrado le nostre preghiere, ci volle seguire perché diceva di voler vedere come i frangi cacciano.

«Erano quasi le due del mattino, quando giungemmo sull'orlo del cupo burrone, molto cupo poiché la luna era tramontata.

«"Scendiamo," dissi ad Hassi. "Afza e il mio uomo rimangano in vedetta."

«Stavamo per calarci giù dal pendìo quando scorgemmo alcuni piccoli animali balzare fuori dai cespugli e fuggire a tutte gambe.

«"Degli sciacalli," disse il moro. "Buon segno."

«"Che cosa vuol dire?" gli chiesi.

«"Quegli animali seguono sempre il leone quando caccia per divorare gli avanzi delle prede abbattute. Vedrai che la belva non è lontana."

«In quel momento, come per confermare le parole del moro, udimmo un ruggito formidabile alzarsi fra i fitti cespugli che coprivano l'estremità del burrone.

«Ci separammo subito per accerchiare la belva e impedirle di uscire da quella specie di trappola.

«Io mi ero messo a seguire la parete rocciosa, la quale, come già ti ho detto, cadeva quasi a picco.

«M'inoltrai risolutamente, essendo deciso di finirla e certo di abbatterla di colpo, tanto in quel momento ero sicuro di me.

«Mi avanzai così per una cinquantina di passi, poi a un certo momento mi fermai, sorpreso dì non udire il ruggito della fiera, né di vedermela comparire dinanzi, eppure avevo percorso quasi tutto il burrone.

«Stavo chiedendomi se per caso fosse passato dinanzi ad Hassi senza farsi notare, quando udii sopra di me un ruggito terribile.

«Quel ruggito veniva dall'alto!

«Alzai la testa e vidi il leone salire la roccia, aggrappandosi a cespugli che spuntavano qua e là attraverso i crepacci.

«Il furfante era salito fin là senza che nessuno se ne fosse accorto, e stava per toccare l'orlo superiore del burrone.

«In quel momento vidi una forma umana comparire e curvarsi sulla parete rocciosa: era Afza.

«Fu un lampo! Il leone con un ultimo slancio raggiunse la cima e si precipitò sulla disgraziata ragazza, atterrandola.

«Quella caduta fu la salvezza della mia futura moglie, poiché se fosse rimasta ritta io non avrei potuto far fuoco.

«In quel momento, fortunatamente, il mio braccio non tremò. Il leone mi mostrava il dorso. Lasciai partire i due colpi e gli fracassai la spina dorsale facendolo rotolare fulminato nel burrone.»

— E Afza? — chiese il toscano con apprensione.

— Non aveva avuto che le vesti lacerate — disse il conte. — Se io avessi tardato un solo istante non so che cosa sarebbe avvenuto del suo grazioso visino. Da quella sera i nostri due cuori cominciarono a battere insieme, e due mesi dopo il Raggio dell'Atlante si chiamava la contessa di Sawa...

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