Questo testo è completo. |
◄ | 7. La fuga | 9. L'agguato delle pantere | ► |
8.
FRA LA BUFERA E L'ACQUA
I mahari non sono le così dette navi del deserto, navi utilissime, ma d'una lentezza desolante, d'una caparbietà da far perdere la pazienza a qualunque uomo della terra, fuorché all'arabo.
Il cammello a due gobbe è l'asino, o, meglio, il mulo del deserto; il mahari è il cavallo rapido, fedele, affezionato al suo padrone, intelligentissimo.
Specialmente nel Sahara si ottengono delle splendide razze di quei rapidissimi corridori; però anche nella bassa Algeria se ne allevano molti, che non hanno nulla da invidiare a quelli dei Tuareg, i predoni insaziabili e ferocissimi delle sterminate pianure sabbiose.
Hanno le gambe altissime e nervose, il pelame corto e lucido, mentre gli altri lo hanno quasi lanoso, puzzolente ed infestato di pulci e di pidocchi ferocissimi; gli occhi pieni di espressione; il corpo più elegante; la forza straordinaria, poiché nessun cavallo può resistere quanto loro.
Sono mirabilmente adatti all'esistenza arida delle steppe e delle pianure sabbiose.
La tinta del loro pelame, che è giallo-fulva o bruna, va perfettamente d'accordo col colore del terreno che li circonda, ed infatti ad una certa distanza è difficile riconoscere un mahari coricato, colla testa ed il collo distesi. Sovente si scambiano per massi, e le persone, non pratiche del deserto, possono passarvi quasi accanto senza accorgersi della loro presenza.
La sobrietà dei mahari poi è proverbiale. In caso di necessità si nutrono di piante dure e spinose, che spuntano qua e là, fra le sabbie, mostrando anzi una certa compiacenza quando sono rivestite da un leggero strato di sale per le esalazioni del suolo del deserto.
Se possono nutrirsi di piante fresche sopportano benissimo la sete per più d'una settimana, senza mai rallentare il loro impeto ammirabile.
Al pari dei cammelli a doppia gobba, quando giungono ad un pozzo fanno la loro provvista d'acqua e la serbano con cura, guardandosi bene dallo sprecarla.
Nel rumine, notevolmente sviluppato, posseggono due rigonfiamenti, composti di più di ottocento celle piuttosto grosse, le quali sono ordinate in serie parallele e separate da pareti membranose, in cui il tessuto muscolare si è sviluppato tanto bene, da formare dei veri muscoli costrittori che hanno la facoltà di chiudere le coperture delle celle più o meno riempite d'acqua.
Quella provvista di liquido nello stomaco, che i mahari rinnovano rapidamente quando si presenta l'occasione, li rende capaci di stare parecchi giorni senza bere anche nei più ardenti deserti.
Come abbiamo detto, sono fedelissimi ai loro padroni. Mentre i cammelli comuni riconoscono appena i loro proprietari e si vendicano in modo diabolico dei cattivi trattamenti con tiri astutamente combinati e danno sovente prova d'una caparbietà che solo i pazienti orientali possono tollerare, i mahari sono lieti di sonnecchiare presso il loro signore e di fiutare perfino il fumo che esce dalla cannuccia del cibuc.
Nelle guerre mostrano un coraggio ammirabile, caricando vigorosamente ed obbedendo ben attenti al padrone. Se questi cade estinto sul campo di battaglia non fuggono, come farebbe qualunque cavallo; gli si inginocchiano vicino, ed aspettano molte ore colla speranza di vederlo ritornare in vita e di ricondurlo al lontano duar dove la sposa ed i figli lo attenderanno invano.
Come abbiamo detto, i sette mahari di Hassi-el-Biac si erano slanciati a corsa sfrenata coi lunghissimi colli tesi, i fianchi ansanti, passando rapidi come visioni sopra le larghe pozzanghere di fango e sopra le lunghe file di sterpi abbattuti dalla tempesta.
Il moro guidava la corsa seguito subito da Afza e dal conte. Il toscano ed Ani la chiudevano.
Quantunque i due europei non fossero abituati a quel galoppo disordinato, galoppo che finisce per fiaccare le reni a chi per la prima volta monta quegli strani animali, si tenevano abbastanza bene in sella, aggrappati all'altissimo pomo.
Il toscano, però, borbottava sottovoce e anche sagrava, chiedendosi quanto sarebbe durata quella corsa indiavolata che gli faceva sussultare gl'intestini e gli faceva girare la testa.
— Se si trovasse qui il mio povero babbo, scommetterei che proverebbe il mal di mare, lui che era uno dei più gagliardi lupi del Mediterraneo.
E la corsa intanto continuava sempre più veloce, fra tuoni, lampi e rovesci d'acqua, condotta dal formidabile moro, il quale pareva che si ridesse delle folgori che tuonavano in alto e in basso.
Afza, tutta avvolta nel suo pesante caffettano di feltro, taceva; però, di quando in quando guardava il magnate, ed alla luce dei lampi gli sorrideva dolcemente.
Hassi-el-Biac non sorrideva né incoraggiava nessuno; era tutto assorto nell'idea di sottrarre la propria figlia al gravissimo pericolo che allora la minacciava.
Si voltava di frequente indietro e lanciava un rapido ed acutissimo sguardo sulla pianura tramutata ormai quasi in una palude, cercando di scoprire gli spahis.
Pareva però che quegli abilissimi cavalieri avessero preso una falsa traccia o che si fossero ripiegati verso il bled, rimandando l'inseguimento all'indomani, poiché non si vedevano più galoppare né si udivano più le loro grida.
Il moro non era interamente tranquillo, quantunque avesse piena fiducia nei suoi mahari, scelti con cura fra i più agili ed i più resistenti, capaci quindi di sfidare tutti i cavalli dei cacciatori d'Africa.
Dopo un'ora i sette animali, i quali mantenevano una velocità straordinaria senza aver bisogno di essere aizzati, passavano come un uragano dinanzi alle due vaste tende ed ai recinti del duar.
Le due giovani negre si erano collocate dinanzi alle tende di Afza, tenendo in mano due grossi fanali che pareva fossero stati tolti a qualche nave naufragata sulla costa algerina.
— Salute al Raggio dell'Atlante! — gridarono. — Allah guardi Hassi-el-Biac!
— Addio, fanciulle — rispose il moro.
— Salute a voi — aggiunse Afza aizzando il cammello.
— Ehi, conte, non ci fermiamo qui? — chiese il toscano.
— Non mi pare — rispose il magnate.
— Dove corriamo allora?
— Che ne so io?
— Ho le costole spezzate, e temo che se ne vada anche la mia colonna vertebrale.
— Steiner te l'avrebbe già rotta.
— Ma quel furfante non è più qui. Si può domandare ad Hassi dove si corre e fino a quando?
— Vuoi farti riprendere dagli spahis e riprovare le dolcezze del bled?
— Oh no! — esclamò il toscano.
— Allora tieni duro. Guarda come si tiene bene in sella mia moglie.
— Mentre io devo sembrare un ranocchio.
— Hai detto il vero, Enrico — rispose il conte, il quale sembrava di buon umore.
Afza, che si teneva in quel momento fra loro due, e che comprendeva benissimo il francese, li ascoltava sorridendo.
— Per centomila sogliole fritte! — riprese l'eterno chiacchierone, il quale per poco non aveva battuto il naso contro il pomo della sella, a cui si teneva disperatamente aggrappato. — Bisogna che prenda delle lezioni da Ani. Alla prima fermata mi farò insegnare come si cavalcano questi bestioni.
— Sarà tempo perduto, amico — rispose l'ungherese. — Ci vorrà un bel po' prima di fare di te un perfetto cavaliere. Tu non sei un arabo.
— Eppure tu, conte, ti reggi in sella meglio di me.
— Io sono figlio della putza magiara. Là non vi sono, è vero, dei mahari, bensì immense truppe di cavalli, che dobbiamo domare.
— Mentre io non ho imparato a cavalcare che i banchi della scuola ed i pennoni del brick di mio padre, quando però la nave era ben ancorata nel porto, e anche saldamente legata.
— Bada allora di non fare un capitombolo. Potresti romperti l'osso del collo invece della colonna vertebrale.
— Mi guarderò bene — rispose il toscano, stringendo le gambe e forzando i muscoli. — Non voglio mostrare al Raggio dell'Atlante un avvocato bocciato disteso in mezzo al fango come un maialetto.
Uno scoppio di risa argentine di Afza mise fine a quel dialogo.
I mahari intanto non cessavano di slanciarsi attraverso alla pianura inzaccherandosi orribilmente. Piombavano dentro le larghe pozze, si scagliavano in mezzo agli arbusti coll'impeto di un treno lanciato a tutta velocità, poi ripiombavano fra i pantani e le sabbie rese molli dalla grande quantità d'acqua.
L'uragano non era cessato ancora, però accennava a rallentare la sua forza.
Il vento non soffiava che a lunghi intervalli, i lampi diventavano sempre più rari, e la possente voce del tuono si affievoliva smorzandosi sempre più lontana.
Era trascorsa un'altra mezz'ora, ed ormai il duar si trovava lontanissimo, quando Hassi-el-Biac mandò un fischio stridente.
Subito i sette mahari rallentarono la corsa, poi si fermarono stringendosi l'uno contro l'altro.
— Che cosa c'è, Hassi? — disse il magiaro.
— La pianura è inondata dinanzi a noi. Qualche fiume dev'essere straripato.
— Ci troviamo in una bassura?
— Sì, figlia mia — rispose il moro.
— Non possiamo più avanzare?
— I mahari non amano le acque né basse, né alte. Sono i figli delle sabbie ardenti.
— Se vi fosse qui il brick del mio defunto genitore, ci imbarcherebbe e ci porterebbe dall'altra parte senza bagnare i calli delle loro zampacce — disse il toscano, con un sospiro. — E dire che è finito in una sola notte nelle tasche d'un cane d'uno strozzino, alberi e tutto!
— E dunque, Hassi? — chiese l'ungherese al moro il quale osservava attentamente, alla luce dei lampi, la pianura.
Il moro scosse la testa.
— È inutile — disse. — I mahari si lascerebbero ammazzare piuttosto che immergersi in questa palude.
— Sarà profonda l'acqua?
— Lo credo.
— Tu non hai nessuna prova.
— Ed allora si va a provare — saltò su a dire il toscano. — Forse che io non sono il figlio di un marinaio? Suppongo che da un momento all'altro non saranno nati là dentro dei coccodrilli.
— Che cosa vuoi dire, Enrico? — osservò il conte.
— Che se mi lasciate, andrò a fare una nuotata per misurar l'acqua.
— Lascia fare ad Ani, frangi — disse Hassi. — Egli non ha nulla da bagnare.
Il vecchio negro era già balzato a terra come se avesse prevenuta l'intenzione del suo padrone.
Si sbarazzò del gonnellino che gli serrava i fianchi, gettandolo sulla sella del suo mahari e si avanzò verso quel bacino il quale pareva che avesse un'immensa estensione.
— È proprio necessario attraversare questa pianura? — chiese il conte ad Hassi. — Dove volevi condurci?
— Alla cuba di Muley Hari.
— Chi è costui?
— Un affigliato alla setta degli Aissana.
— Uno di quei santoni che si divertono a mangiare serpenti vivi e stritolare pezzi di vetro? — chiese il toscano.
— Sì, — rispose il moro, — ma che sono protetti dalla potentissima setta dei Senussi.
— E credi tu, Hassi, che quella cuba ci proteggerebbe da un inseguimento?
— Oh, no! So che i frangi non si fermano nemmeno dinanzi alle moschee.
— Allora perché perdere del tempo a visitare quell'Aissana?
— Per avere da lui una raccomandazione per i Senussi. Gli uomini dell'Atlante sono sempre in subbuglio e non permetterebbero a te e al tuo compagno di attraversare le loro montagne, e tu sai che i Cabili sono ancora potenti all'estremo sud dell'Algeria.
— E allora andiamo a far colazione da quel santone — disse Enrico. — Gli spahis giungeranno in ritardo, poiché devono essere rimasti molto indietro.
— Non faremo però che una brevissima fermata — disse il conte. — Per parecchi giorni quelli del bled ci daranno una caccia spietata per guadagnarsi il premio che loro spetta, se riescono ad acciuffarci.
— Sono dunque tutti così cattivi, laggiù? — chiese Afza.
— Devono obbedire, amica mia — rispose l'ungherese guardando con intensa affezione la sua giovane sposa. — E poi vorranno vendicare il maresciallo, che tu hai così audacemente pugnalato.
— Non potevo farne a meno, mio signore: io dovevo salvarti.
— Ma se ti avessero presa, ti avrebbero fucilata senza compassione in nostra compagnia, e forse senza nemmeno giudicarci.
— Ringrazia Ribot, mio signore.
— Sì, dobbiamo tutto a lui!
In quel momento comparve Ani, grondante d'acqua.
— Dunque? — chiese Hassi.
— È impossibile, padrone — rispose il vecchio negro. — La bassura è così fangosa, che i nostri animali non potrebbero avanzare senza sprofondarvi dentro fino al ventre... e poi vi sono almeno due metri d'acqua.
Hassi fece un gesto di collera.
— Non mi aspettavo una così brutta sorpresa — disse guardando il conte.
— Giriamo questo pantano — rispose il magiaro.
— E da qual parte? Sapresti dirmelo tu, figlio mio?
— Noi non possiamo rimanere qui in attesa degli spahis. Appena cessato l'uragano riprenderanno la caccia e la condurranno con tutto vigore. Il vice-maresciallo avrà scelto i migliori ed anche i più spietati cavalieri, specialmente indigeni.
— Lo so, ma se noi deviamo verso ponente andremo con probabilità a incontrare il fiume o il torrente che è straripato, e se pieghiamo verso levante, andremo a dar di cozzo contro quelle alture in mezzo alle quali tu hai ucciso i due leoni.
— E perché non potremo trovare lassù un rifugio momentaneo dove attendere che le acque si ritraggano? I mahari non avranno alcuna difficoltà, spero, a spingersi fino lassù.
— Oh, nessuna.
— E noi potremo nasconderci nella profonda forra che serviva d'asilo ai leoni.
Hassi-el-Biac guardò il conte con ammirazione.
— Tu hai un colpo d'occhio più sicuro del mio, — disse poi — si direbbe che tu, figlio, sei nato nel gran deserto.
— Di erbe invece che di sabbia — disse il toscano. — Tutta la differenza sta lì.
— È vero — rispose l'ungherese sorridendo. — La putza magiara non è che un deserto erboso, scorrazzato da cavalli ardentissimi invece che da cammelli.
— Partiamo — disse Hassi.
L'uragano perdeva a poco a poco la sua violenza. Le nubi si erano squarciate in più luoghi e di quando in quando, attraverso quegli strappi, occhieggiava l'astro notturno, lanciando sprazzi di luce azzurrina sulle pozzanghere e sulla distesa d'acqua.
Il vento era ormai affatto cessato, e solo qualche raro lampo illuminava l'orizzonte settentrionale, spengendosi quasi subito.
Gli animali notturni cominciavano a lasciare i loro ricoveri, fuggendo la piena che pareva si avanzasse lenta lenta verso ponente. Non si trattava però che di animali pressoché innocui: jene rigate e macchiate, più pronte a scappare che ad assalire, e sciacalli dalla gualdrappa, mezzi cani selvaggi e mezzi lupi, pericolosi soltanto ai montoni.
I sette mahari, quantunque si trovassero a disagio su quel terreno fangoso che offriva poca presa alle grosse callosità dei loro piedi, fatti esclusivamente per le sabbie e le terre arse dal sole, avevano ripreso lo slancio con molto vigore.
Hassi, per incoraggiarli, aveva intonato una nenia araba, amando, quegli interessanti animali, straordinariamente così il canto come la musica.
— Ecco che il mal di mare ricomincia — disse l'allegro toscano. — Si stava così bene all'ancora! Bordate! A babordo... tribordo... che cosa? Uh, che pessimo marinaio sarei riuscito! Scommetterei che non avrei trovato un cane che mi avrebbe affidato il comando della più minuscola tartana del Tirreno.
— Tu brontoli sempre — disse il conte il quale rideva con Afza.
— Mio padre non mi aveva forse destinato a diventare un avvocato per la mia lunghissima lingua, dopo d'essersi accorto che non sarei mai stato capace di comandare una bordata? Lasciami dunque chiacchierare, conte. Quando stanno zitti gli avvocati?... Talvolta nemmeno quando dormono.
— È vero, Enrico... finché ci tenevano chiusi nella cella di rigore, tu parlavi anche con gli occhi chiusi, citando gli articoli di non so quale codice.
— Quello militare di certo — rispose il toscano. — Si trattava di fucilazione e...
Per la seconda volta i mahari si erano fermati al comando stridente di Hassi.
— Che cosa c'è ancora? — chiese il conte.
— Abbiamo incontrato sicuramente uno scoglio od un banco di sabbia e ci siamo arenati — disse il toscano. — Si vede che anche per terra la navigazione diventa di giorno in giorno più difficile.
— Dunque, Hassi? — chiese di nuovo il conte vedendolo staccare il fucile di sotto la pesante gualdrappa di feltro che doveva averlo protetto contro la pioggia.
— Ho veduta un'ombra tagliarci la via e nascondersi in mezzo a quelle macchie d'arbusto.
— Che occhi meravigliosi! — esclamò il toscano. — Io non vedo nemmeno la punta del mio naso, e lui vede degli elefanti di sicuro.
L'oscurità in quel momento era infatti fittissima, essendosi le nubi richiuse un'altra volta, e addensate in modo da intercettare completamente la luce lunare.
— Che ci sia qui qualche leone? — si domandò a voce alta il conte.
— Non sarebbe da sorprendersene — rispose il moro. — Siamo già lontani dai duar e dai cacciatori del bled.
— Non possiamo deviare?
— Il passo che conduce a quelle alture è qui. Sulla nostra destra abbiamo l'acqua, e sulla sinistra vi sono delle macchie spinose che rovinerebbero i nostri mahari.
— Eccoci fra i frangenti — disse il figlio del defunto capitano, il quale si piccava talora di sapere qualche cosa del mare, pur confessando di essere sempre stato un vero asino marino.
Il conte prese a sua volta il lungo fucile arabo e l'armò risolutamente, dicendo:
— Leone o pantera, noi passeremo nello stesso modo. Non facciamoci sorprendere dagli spahis in questa pianura priva di qualunque rifugio. Almeno lassù, fra i boschi delle colline o dentro i burroni, potremo tenere lontani se non gli uomini almeno i cavalli. Preparate tutte le armi da fuoco.
Il toscano, Afza ed Ani si erano affrettati ad obbedire.
Hassi attese un altro po', per vedere se l'animale si mostrava; poi spinse innanzi il mahari al passo, facendolo marciare quasi sull'orlo della bassura inondata per tenerlo più lontano che fosse possibile dalle macchie.
Se si trattava di una pantera non vi era da temere un assalto improvviso, preferendo quelle belve cacciare all'agguato; se si trattava, invece, d'un leone, la cosa era molto diversa.
Quelli che abitano la bassa Algeria sono i più grossi, i più audaci ed i più feroci di quanti altri popolano l'Africa, e posseggono dei muscoli straordinari. Sono così robusti da saltare una siepe alta perfino due metri, portando in bocca un vitello. Un fulmineo assalto contro qualche mahari, o contro l'uomo che lo montava, era dunque da temersi.
— Peccato non avere gli occhi dei gatti — borbottò Enrico, il quale pareva che non si preoccupasse affatto della presenza del carnivoro.
Si era messo, insieme al conte, a sinistra di Afza per coprirla tutta.
I mahari dovevano aver fiutato il pericolo, perché s'avanzavano con estrema prudenza tendendo e raccorciando i loro lunghissimi colli e aspirando rumorosamente l'aria.
I quattro uomini, ben assicurati sulle dure sì, ma ampie selle, avevano puntati i fucili verso la macchia sospetta.
Che qualche animale vi si fosse nascosto nel mezzo non vi era da dubitare, poiché le cime dei cactus e delle aloè si agitavano, quantunque il vento fosse oramai affatto cessato.
L'assalto temuto però non avvenne. La belva, senza dubbio impressionata da quei cinque fucili pronti a scaricarle addosso una grandine di buone palle coniche, si guardò bene dal lasciare il nascondiglio, e la piccola carovana potè sfilare indisturbata ed oltrepassare felicemente le macchie.
Un istante dopo, i mahari riprendevano la loro corsa velocissima facendo udire, di quando in quando, dei nitriti tremolanti e rauchi.
— Io ho perduto la stima alle bestie feroci algerine — disse il toscano. — Non valgono i sorveglianti del bled, è vero, conte? Quelli non esitano mai quando si tratta di ridurre a mal partito un disciplinario ricalcitrante.
— Il tuo giudizio riservalo a più tardi — rispose il magnate. — Come vi sono degli uomini coraggiosi fino alla follia ed altri invece pusillanimi all'eccesso, così succede anche fra le belve feroci. Ve ne sono alcune audacissime ed altre troppo prudenti. Non ti fidare però mai di loro, se vuoi riportare in Italia la tua pelle intatta.
— Credi tu che io non voglia più assaggiare il delizioso vino delle mie colline del Chianti? Difenderò ferocemente la mia vita, per rivedere e vuotare alcuni di quei fiaschi.
— Che ti hanno fatto girar la testa e perdere le bussole del tuo brick.
— Precisamente, conte.
— Io serberei un profondo rancore al tuo Chianti.
— Ed io niente affatto.
— E perché?
— Perché sarei diventato un avvocato asino senza nemmeno un cliente, ed avrei egualmente divorato il mio brick per non morire di fame.
— Rallentate — disse in quell'istante Hassi. — Le alture stanno dinanzi a noi.