< Sull'Oceano
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In extremis L'America

DOMANI!


La mattina seguente il cielo e il mare erano splendidi, e tutta la popolazione del Galileo si dava moto, perchè se il tempo durava bello, si sarebbe arrivati in America la sera dopo, forse ancora in tempo per isbarcare, e bisognava preparar le robe con comodo, e intendersi un po’ tra amici e conoscenti intorno al da farsi. L’affare più grave era l’iscrizione per lo sbarco, il decidere, cioè, se convenisse di andare o no dal Commissario a farsi notare fra coloro che intendevan di valersi delle offerte del Governo argentino, il quale pagava le spese dello sbarco agli immigranti che lo chiedessero, e dava loro vitto e ricovero per cinque giorni, e a quelli che si recavano nelle provincie dell’interno, il viaggio gratuito. Quell’atto di farsi o non farsi iscrivere era chiamato dagli emigranti “dichiarar di voler essere o no con l’emigrazione.„ Certo, i vantaggi erano grandi; ma eran grandi anche le diffidenze, poichè quella generosità del Governo (era un Governo!) dava a sospettare che vi si celasse qualche tranello, e che l’accettarla, fra l’altre cose, fosse un vincolare fin d’allora la propria libertà riguardo alla scelta dei luoghi e alle condizioni dei contratti. Ciò non ostante, i più accettavano, e v’era una processione continua all’uffizio del Commissario, che pareva ridotto un’agenzia. Entravano e, dando il nome, stroppiavano in cento modi quell’unica parola difficile che avevan da dire: — Mi noti con l’amigrazione. — Accetto l’anmigrazione. — Vado con l’inimigrazione. — O pure, senz’altro: — Tal dei tali, migrazione. — Molti, peraltro, ci andavano senz’aver anche preso una risoluzione, come si va a chiedere un parere a un uomo di legge, e dopo essersi fatti dare molti ragguagli, rifiutavano. Le più perplesse erano le donne, le quali, quasi tutte, si fermavano a riflettere ancora una volta sull’uscio, grattandosi la fronte, come se si fosse trattato del destino di tutta la loro vita; e alcune, dato il nome ed uscite, ritornavano in fretta mezz’ora dopo a farsi cancellare, perchè avevan saputo che il governo tradiva. E con questi, era un affollarsi d’altri emigranti che venivano a chiedere informazioni intorno alla dogana, se per la tal cosa avrebbero dovuto pagare o no, e quanto, e anche se ci fosse modo di scansar la visita, per via di favore o d’astuzia. E commoveva il sentire di che povere cose si trattasse, di regali, per lo più, che portavano a parenti o ad amici d’America: chi una bottiglia di vino particolare, chi un caciocavallo, chi un salame, o un chilogramma di paste di Genova e di Napoli, un litro d’olio, una scatola di fichi secchi, perfino una grembialata di fagiuoli, ma di casa propria, di quel tal angolo dell’orto, di cui il parente o l’amico si doveva ricordare sicuramente. E venivano a domandare se fosse soggetto a dazio un piffero, una zampogna, un merlo, una cassapanca piena di padelle e di pentole usate. Tutti parevano compresi dal terrore della dogana di Montevideo e di Buenos Ayres, della quale avevano udite raccontare cose favolose, e ne parlavano come d’un passaggio di foresta di mala fama, dove fosse appostata una banda, che li avrebbe ridotti in camicia. Ma quelli che mettevan più compassione erano i malaticci, e certi vecchi soli: gli uni timorosi che la loro brutta cera desse nell’occhio al medico americano, alla visita dell’arrivo, e che questi li facesse cacciare in un lazzaretto; gli altri tormentati dal dubbio che non salissero a bordo in tempo, secondo l’intesa, il figliuolo o un parente prossimo, che doveva far garanzia dei loro mezzi di sussistenza: senza di che, giusta la legge argentina, che respinge le bocche inutili di sessant’anni, non avrebbero potuto sbarcare. Gli uni e gli altri venivano a domandare al Commissario, ansiosi, che cosa sarebbe accaduto di loro in quei due casi di disgrazia, e uscivano crollando il capo, tristamente.

E il Commissario scriveva e scriveva, e si vedeva ripassar dinanzi l’un dopo l’altro i protestanti della montagna a cui aveva fatto delle reprimende, le ragazze che gli avevan rotto la testa con gli amori, le mamme che l’avevano infastidito con le gelosie, gli innamorati impudenti, le comari mettiscandoli, i rissanti che era stato costretto a spartire e a punire; e a ciascuno mostrava di riconoscerlo con un sorriso, o con un scotimento di capo, o con una buona parola. Ed io. accanto a lui, non mi stancavo di riguardar quel camerino pieno di registri e di tabelle, pensando a quanti racconti di miserie e bugie romanzesche di ragazze e ire di litiganti e pianti di donne aveva già intesi. E più che altro mi attiravano i sacchi della posta, accumulati in un canto, legati e suggellati. Poiché v’eran là dentro i frammenti del dialogo di due mondi: ehi sa quante lettere di donne che per la terza o quarta volta chiedevano dolorosamente notizie del figliuolo, o del marito, che non si facevan vivi da anni; e supplicazioni perchè tornassero o le chiamassero a raggiungerli; domande di soccorso, annunzi di malattie, e di morti; e ritratti di ragazzi che i padri non avrebbero più riconosciuti, e richiami desolati di fidanzate e menzogne impudenti di mogli infedeli e ultimi consigli di vecchi: tutto questo mescolato a letteroni irti di cifre di banchieri, a epistole amorose di ballerine e di coriste, a prospetti di negozianti di vérmut, a fasci di giornali aspettati dalla colonia italiana, avida di notizie della patria; forse anche l'ultima poesia del Carducci e il nuovo romanzo del Verga: una confusione di fogli di tutti i colori, scritti in capanne, in palazzi, in officine, in soffitte, ridendo, piangendo, fremendo. E tutti quei sacchi si sarebbero sparpagliati fra pochi giorni dalle foci del Plata ai confini del Brasile e della Bolivia e fino alle rive del Pacifico e nell’interno del Paraguay e su per i fianchi delle Ande, a suscitare allegrezze, rimorsi, dolori, timori; i quali poi, alla volta loro, pigiati in altri sacchi, avrebbero fatto in direzione opposta il medesimo viaggio, ammucchiati in un altro camerino come quello, dove avrebbero visto passare altre processioni di povere genti, che se ne ritornavano al mondo vecchio, forse meno poveri, ma non più felici di quando l’avevano abbandonato con la speranza d’una sorte migliore.

Intanto la processione continuava. — Tal di tali: sta col Governo. — Tizio: con la migrazione. — Caio: disambarco ed asilo. — il lavoro fu interrotto da un’apparizione improvvisa della bolognese, che veniva con tutte le furie addosso a lagnarsi d’una nuova sanguinosa offesa d’un canaglia d’erbóff, il quale, passandole accanto e toccandole la borsa misteriosa, le aveva detto, con evidente allusione a quel certo supposto irripetibile: — Pagano dogana. — Essa lo voleva vedere sul palco di comando coi ferri ai piedi e alle mani, o avrebbe proclamato davanti a tutti i Consoli d’America che gli ufficiali del piroscafo tenevano mano a tutti i più sfacciati boletàri di terza per avvilire le ragazze onorate. Essendo vicina l’America, non parlava più del parente giornalista. Il Commissario la rimbeccò, senz’alterarsi, promise che, finita l’iscrizione, avrebbe fatto giustizia, e si voltò in tronco verso due contadini irritati, i quali ritornavano a farsi cancellare dall’elenco, per non cadere nelle mani di quei boia de lader che si offrivano di sbarcare gratis gli emigranti per essere i primi a spogliarli e a far delle proposte sporche alle loro donne. Erano evidentemente notizie raccolte calde calde a prua, dove degli agitatori lavoravano a scaldare le teste. Andato là, in fatti, vidi sul castello il vecchio dal gabbano verde che perorava in mezzo a un uditorio più numeroso del solito, appoggiandosi, forse per simpatia politica pel color rosso, all’áncora di speranza, e scotendo al vento i capelli grigi. La sbarbazzata del comandante per la protesta dei quarantasette non l’aveva punto intimidito; egli aveva risposto che si sarebbe fatto sentire sui giornali. Ora poi la vicinanza della terra della libertà lo imbaldanziva anche più, e non solo non abbassava più la voce quando qualche dissanguatore del popolo passava da quelle parti, ma la gonfiava, rauca e rude come il suono d’un trombone, tendendo le corde del collo da far crepare la pelle. Egli dava degli ammonimenti da cui si capiva che non faceva quel viaggio per la prima volta: che si guardassero dagli argentini, dai faccendieri della colonia italiana, dai Consoli, dai protettori di tutte le tinte, ch’eran tutti d’accordo, tutti farabutti che tiravano a ingrassarsi a spese dell’immigrazione. Badassero sopra tutto, sbarcando, ai bagagli, ch’eran rubati a man salva; tenessero d’occhio le mogli e le figliuole, chè s’eran dati dei casi nefandi, delle violenze consumate dagli agenti del governo, alla faccia del sole, sotto gli occhi dei padri e delle madri. E niente asili, ch’eran baracche sconquassate, dove ci pioveva nei letti, e non davano da sfamarsi, o mettevan nella minestra delle porcherie che istupidivano, che riducevano un uomo a non saper più fare il più semplice conto, e allora venivano innanzi le birbe a proporre i contratti. — All’erta, figliuoli! — gridava, — all’erta bene. o sarete assassinati peggio che in patria! Guai a chi si fida! — Ma non era il solo che arringasse: altri crocchi qua e là stavano intenti ad altri oratori, sorti lì per lì, quella mattina. Sul castello centrale teneva conferenza l’ex cuoco dottore, dilettante d’ocarina. Egli ne aveva visto d’ogni colore, sapeva ogni cosa, aveva un consiglio franco e sicuro per tutti, in qualunque parte dell’America andassero, come se in ogni parte fosse vissuto molti anni, e avesse esercitato tutti i mestieri. Diceva dei tiri scellerati che si tacevano agli emigranti che avevan qualche cosa: cessioni di terre lontane per un boccon di pane; terre fertili e irrigate, dove si sarebbero fatti ricconi in dieci anni; e i merli, vuotata la borsa e partiti, trovavan poi dei deserti di sabbia, un’aria miasmatica, gli indiani a poche miglia, i leoni in volta la notte, e dei serpenti di cinque metri che s’infilavano nelle case. E costretti a scappare dalla fame, dovevano viaggiare a piedi per centinaia di miglia prima di trovare un luogo abitabile, flagellati dalla pioggia per settimane intere, e portati via da venti d’inferno, che travolgevano i cani e le vacche come foglie secche. A quei discorsi alcuni, sospettando l’esagerazione, alzavan le spalle, e se ne andavano; ma molti bevevan tutto, e rimanevano pensierosi, con gli occhi al tavolato. In altri crocchi, però, predicavano degli ottimisti: un mondo nuovo, non più tasse, non più leva, non più tirannie: la terra germogliava a toccarla appena con l’aratro, la carne a cinquanta centesimi il chilogrammo, paesi di quattromila anime dove non si vedeva la grinta d’un “signore.„ E citavano casi di rapide fortune, i granai ricolmi, i lavoratori dei campi che pagavano un professore apposta per i loro figliuoli. “ Viva l’America! Finirete di tribolare, sangue d’un cane!„

In quella preoccupazione generale si riconosceva a primo sguardo che l’eterno femminino era passato in seconda fila, che molti amori dovevano esser stati lasciati in asso: non si vedevano più tutti quegli adoratori a occhi fìssi, che covavano per dell’ore la loro bella, o le giravano intorno mezza giornata per cogliere il momento di metterle una parola nell’orecchio o un livido nel braccio. Ma quella preoccupazione appunto lasciava più liberi i pochi rimasti fedeli. Tra questi notai il povero scrivano modenese, ch’era ritornato all’antica contemplazione, appostato un po’ più lontano che per l’addietro, ma più immobile, più estatico, più spasimatamente innamorato di prima, come se i mali trattamenti, i cappiotti e le umiliazioni, poveretto, non avessero fatto che rendergli più bello e più caro l’oggetto adorato per cui aveva tutto sofferto. Io l’osservai per un pezzo dal palco di comando, e non gli vidi nè mover collo, nè piegar costa, nè sviar gli occhi, se non per la durata d’un attimo, dalla ragazza, la quale stava seduta al posto solito, facendo la calza, accanto al piccolo fratello, ritta sul suo bel torso di vergine sana e robusta, più bianca, più pulita, più fresca che mai. E aveva sempre quel suo viso placido, che da vari giorni era leggermente adombrato; ma non tardai ad accorgermi che quell’umile e infaticabile adorazione di quel povero ragazzo solo, debole, brutto, deriso, le dovevano avere destato un sentimento di pietà e di benevolenza d’amica e di sorella, che ella forse si credeva in debito di lasciar trasparire, per gratitudine; perchè nel punto che stavo per allontanarmi, mentre essa girava intorno quel solito sguardo tranquillo, vidi i suoi occhi fissarsi per qualche momento, con una espressione chiarissima di bontà e di simpatia, — e non mi parve che dovess’essere la prima volta, — su quel viso. Ah! Dei del cielo! Quegli lampeggiò come uno specchio al sole, s’invermigliò, si riscosse tutto, e poi tirò un grande respiro, passandosi la mano sulla fronte e guardando intorno, come stupito che tutto il piroscafo non si fosse accorto del prodigioso avvenimento che era accaduto.

Ma nessuno intorno gli badava. E quella fissità di tutti in un pensiero solo fruttò a me pure di poter girare un pezzo, liberamente, in mezzo alla folla, e di cogliere a volo molti discorsi. Quella imminenza dell’arrivo aveva finalmente svegliato in quasi tutti una certa curiosità di sapere qualche cosa delle città e delle province dove si dovevano andar a stabilire; e molti interrogavano ora un ufficiale or un altro, o i passeggieri più istruiti di prua, tirando fuori le lettere sgualcite dei parenti e degli amici, e gesticolandovi su, e dandole a leggere e rileggendole insieme essi pure, con quella considerazione straordinaria che mostran le persone illetterate o quasi per ogni specie di documento scritto, in cui suppongono sempre la possibilità di varie e sottili interpretazioni. E sentivo pronunciare da molti quei nomi di colonie agricole, che poi mi dovevano essere così cari, Esperanza, Pilar, Cavour, Garibaldi, Nuova Torino, Candelaria. Ma, Dio santo, era una pena a veder la ignoranza tenebrosa in cui brancolavano quasi tutti, la nessuna idea della divisione degli Stati e delle distanze, come se l’America del Sud fosse un’isola di cento miglia di circuito, dove tutti i paesi si trovassero a un trar di fucile l’un dall’altro. Buenos-Aires, Tucuman, Mendoza, Asuncion, Montevideo, Entre-Rios, Chili, Stati Uniti, formavan nella mente dei più un indescrivibile e inestricabile imbroglio di idee false od oscure, dove il più accorto e paziente uomo del mondo non avrebbe saputo da che parte rifarsi per mettere un principio d’ordine e un barlume di luce. E il pensiero che pure molti di loro, dei più giovani, erano andati a scuola, e avevano imparato a leggere e a scrivere, mi faceva cascare le braccia. Qua e là, nei crocchi di famiglia, calcolavan le spese sulle dita. — Dunque, cinque per lo sbarco, tre all’osteria, mettiamo per il primo giorno.... — Più in là: — Vapurino pe Rrusario, quatto pezz’e mèza, tanto; nu muorz’e pane pe’ u viaggio, restano cinche ducate, senza cuntà ’e scarpe pe Ciccillo. — Sentii, fra l’altre cose, che correvan cattive notizie della signorina di Mestre, alla quale più d’uno contava di rivolgersi per aver consigli e raccomandazioni. Parlavano d’una caduta grave; alcuni la credevano addirittura moribonda; certe donne dicevano che era già morta, ma che lo tenevan segreto, perchè ci aveva colpa (in che modo non sapevano) il comandante. Il contadino di Mestre me ne domandò notizie ansiosamente. Tutta la sua famiglia s’era tornata a rincantucciare nell’antico posto, tra la stia e la botte, sotto una tenda di fasce stese ad asciugare, all’ombra delle quali il piccolo Galileo, rosso come un gambero, poppava come un vitello, tra le braccia della mamma sorridente. — Ah! povareta!esclamò il contadino. — Vardemo se quela disgrassia ghe doveva capitar a un anzolo come quela! La xé tropo bona, no la pol far vita lunga. — E la donna soggiunse: — La ghe diga che pregheremo per ela, a la nostra santola, che Dio la benedissa! — Lui aveva fede nel governo, s’era iscritto con l’amigrazion, non poteva credere a tutte quelle pantalonae che andavan dicendo quei mati del castello di prua. — Poi mi domandò se era vero quello che diceva l’ex cuoco sapiente del castello centrale, che dall’equatore in giù l’acqua in cui si navigava la xera bona da bévar, per via del gran fiume d’America che ributtava indietro le onde del mare. Ma s’interruppe per esclamare: — Ecco i nostri novi paroni!

Erano i cinque argentini, in compagnia del prete napoletano, che venivano per la prima volta a prua a dare un’occhiata ai loro ospiti. Il prete doveva spiegare al deputato un qualche suo progetto d’impresa finanziaria, perchè gli dicea forte, agitando la mano come un ventaglio: — ... si se encontràran los accionistas para un gran banco agricola-colonizador... — Ed io mi unii a loro, spinto da una più viva simpatia, in quegli ultimi giorni, per i figli di quel paese a cui tanti miei concittadini stavano per affidare le sorti della propria vita. E cercavo sul loro viso le impressioni dell’animo. Ma essi guardavano e non dicevano nulla. Gli occhi loro, per altro, e ogni minimo atto rivelavan la soddisfazione d’orgoglio ch’ei risentivano al veder tutta quella gente, la quale andava a chieder sostentamento alla loro patria, la maggior parte per sempre, e i cui figliuoli a venire, nati cittadini della repubblica, avrebbero parlato la loro lingua e non più imparato la propria, e mostrato forse vergogna, come troppo spesso accade, della loro origine straniera. Essi forse, guardandoli, si rappresentavano con l’immaginazione tutti quei mangiatori di terra e trafficanti liguri all’opera, e vedevan guizzare le barche cariche sulle acque del Parami e dell’Uruguay, allungarsi a traverso alle foreste le nuove strade ferrate degli stati tropicali, alzarsi i canneti di zucchero nei campi di Tucuman, e i vigneti sui colli di Mendoza, e le piantagioni di tabacco nel Gran Chaco, e le case e i palazzi sorgere a mille a mille, e miriametri quadrati di deserto verdeggiare e indorarsi sotto la pioggia dei loro sudori. Un’onda di cose mi venne allora alla bocca, da dir loro. Voi accoglierete bene questa gente, non è vero? Sono volontari valorosi che vanno a ingrossare l’esercito col quale voi conquistate un mondo. Son buoni, credetelo; sono operosi, lo vedrete, e sobrii, e pazienti, che non emigrano per arricchire, ma per trovar da mangiare ai loro figliuoli, e che s’affezioneranno facilmente alla terra che darà loro da vivere. Sono poveri, ma non per non aver lavorato; sono incolti, ma non per colpa loro, e orgogliosi quando si tocca il loro paese, ma perchè hanno la coscienza confusa d’una grandezza e d’una gloria antica: e qualche volta sono violenti; ma voi pure, nipoti dei conquistatori del Messico e del Perù, siete violenti. E lasciate che amino ancora e vantino da lontano la loro patria, perchè se fossero capaci di rinnegar la propria, non sarebbero capaci d’amar la vostra. Proteggeteli dai trafficanti disonesti, rendete loro giustizia quando la chiedono, e non fate sentir loro, povera gente, che sono intrusi e tollerati in mezzo a voi. Trattateli con bontà e con amorevolezza. Ve ne saremo tanto grati! Sono nostro sangue, li amiamo, siete una razza generosa, ve li raccomandiamo con tutta l’anima nostra!

E non so che riserbo sciocco. — che in quel caso era peggio che sciocco, vile — mi trattenne dal dire quelle cose. Essi m’avrebbero ascoltato con stupore, certo; ma forse non senza commozione. Il mare era così bello! E pareva che ognuno lo dovesse rispecchiare dentro di sé. Fin dal mattino s’eran visti all’orizzonte dei velieri e dei piroscafi di paesi diversi, diretti al Plata, e vari stormi d’uccelli erano venuti intorno al Galileo a gridargli il ben arrivato. Finito quel rimescolio per l’iscrizione, tutti s’erano quetati, e si mostravano inclinati alla benevolenza. Parecchi emigranti che avevano ottenuto di entrare in prima classe a cercar sottoscrizioni per due lotterie, d’un orologio d’argento e d’una vecchia incisione della Madonna, a benefizio di due famiglie povere, raccolsero un monte di firme a sessanta centesimi: la estrazione, diceva il foglio, si sarebbe fatta la mattina del giorno dopo con le “garanzie volute, davanti al macello.„ Dopo mezzodì, non nacque più alcun diverbio a bordo. Le terze classi ebbero un piatto di braciole con patate che raddolcì molti cuori. E anche il nostro desinare fu tale da far brillare di soddisfazione perfin l'occhio unico del genovese, e reso più saporito anche dall’idea di quel “qualche cosa dopo„ che dice il Brillat-Savarin dover essere nell’aspettazione dei commensali, perchè un pranzo riesca davvero piacevole: e questo era per noi il pensiero dello spettacolo che ci avrebbe offerto il piroscafo il giorno dopo, all’apparire della terra. I discorsi, che subivano già la forza d’attrazione dell’America, s’aggirarono tutti sui paesi vicini, come se già vi fossimo stati. Fra tre giorni si sarebbe sentito il Poliuto al teatro Colon, e al Solis Crispino e la Comare, col Baldelli. Si discusse il disegno della nuova piazza Vittoria a Buenos Ayres e quello del nuovo Ospedale italiano a Montevideo. I presidenti delle due repubbliche furono notomizzati fibra per fibra, e si fecero molti commenti minuti e calorosi sui giornali benevoli e ostili alla nostra immigrazione nelle due capitali. Solamente il garibaldino taceva, con un velo di tristezza sul viso, più fitto che gli altri giorni. E tacevano anche i miei due vicini di camerino. Ma sui loro visi c’era qualche cosa d’insolito: l’espressione dell’odio, come sempre; ma animata da un pensiero nuovo, come se al loro arrivo avesse a seguire qualche avvenimento, che ciascuno dei due sperava favorevole a sè e spiacevole all’altro, e da cui dovesse, in certo modo, esser decisa la loro contesa; e non si guardavano in faccia, ma s’indovinava una lotta muta e concitata fra loro, come se si pungessero i fianchi a pugnalate sotto la tovaglia, senza farsi scorgere. Avendo steso la mano tutti e due insieme per prendere una saliera, e previsto a tempo che le loro mani si sarebber toccate, le ritirarono tutti e due nello stesso punto, e continuarono a mangiar senza sale. E anche l’idea che, arrivato in America, non avrei più avuto davanti agli occhi quello spettacolo miserando, mi rallegrava.

A un certo punto osservai che mancavano la signora della Chartreuse e la madre della pianista, e non potendo supporre che con quel tempo patissero il mal di mare, ne domandai notizie all’agente, che sedeva tra me e l’avvocato. Ma come! Non sapevo nulla? Avevo già la testa in America, dunque. Oh! una scena da teatro. Da vari giorni la “domatrice„ aveva sentore che quell'altra sparlasse di lei, e indovinava l’argomento della maldicenza: lo vedeva riflesso nel viso di certi passeggieri, che a certe ore la guardavan sorridendo, e che mettevan gli occhi allo spiraglio dell’uscio, passando davanti al suo camerino. Ma quel giorno la sua cameriera, incaricata di spiare, avea sentito tutto: quella serpe in gonnella la diceva affetta d’incipiente delirium tremens, e faceva delle descrizioni abbominevoli del suo camerino, — dove era pur stata varie volte a succhiarle il maraschino di Zara, — una vera cantina di liquorista, con le bottiglie fin sotto il cuscino del letto, dei bicchierini sporchi in tutti gli angoli, e una collezione completa di acque minerali, di polveri e di pasticche, per riparare la mattina agli sconcerti gastrici prodotti dalle bevute del giorno. Ma oramai diceva che non v’era più riparo possibile, perché il male era troppo avanzato, e citava un giudizio desolante del medico, raccomandando ai signori di non passarle vicino col sigaro acceso. Intesa questa relazione, in un momento appunto che aveva i fumi alla testa, la grossa signora non aveva fatto altro che correre difilata verso il camerino della buona amica, e incontratala a mezzo del corridoio, in presenza di parecchi, gliene aveva dette, a voce spiccata, tre — non più di tre — ma con l'accento lo sguardo della sua professione, e di quelle che può ispirare soltanto la Chartreuse stagionata, quella vera autentica dei Frati benemeriti, quando è bevuta in dose conveniente. L’altra, con una faccia imperterrita, gliene aveva risposto una sola, trisillabica, ma che valeva quelle tre messe in mazzo. E allora... le cameriere erano accorse, e le contendenti, convulse, erano rientrate tempestando ciascuna nel proprio camerino, dove erano svenute, mezz’ora dopo. Ma, dicendo questo, l’agente pensava ad altro, e pareva che stesse osservando una corrispondenza di sguardi fra due persone lontane della tavola. E infatti, dopo qualche minuto, gli intesi modulare a bassa voce il lungo grido di Amleto davanti al teatrino della reggia: — Oooòoo profetica anima mia! — E subito mi afferrò per il braccio e mi confidò all’orecchio la sua meravigliosa scoperta. — Guardi dunque, senza farsi scorgere, — mi disse poi. Ed io guardai, e non tardai ad accertarmi del fatto. Ogni due o tre minuti i begli ocelli azzurri e vuoti della signora bionda si fissavano per qualche momento sul comandante, e sul largo faccione rosso e burbero di costui balenava un lampo, un impercettibile sorriso mezzo nascosto dalle sopracciglia aggrottate e dai baffi ispidi, somigliante a un piccolissimo tratto azzurro apparente per lo squarcio d’un cielo nuvoloso, e subito ricoperto; ma gli occhi azzurri rifissandolo, lo squarcio si riapriva e l’azzurro si rimostrava; e non c’era il menomo dubbio: il gioco gentile si ripeteva regolarmente, c’era una intesa fra il capetto biondo e il testone rosso, la sirena aveva cantato, l’orso polare aveva dato ascolto, il Galileo s’era arreso. — Ah! ora capisco, — diceva l’agente, piccato, — perché la scena è andata in fumo! Ah! Porcaie a bordo no ne vggio! Ah! pezzo d’un tartufo marino! Questo è troppo! — Ma in fondo era soddisfatto di essersi liberato dall’incubo di quel mistero, e quando salimmo sul cassero, si fregò le mani, dicendo: — E uno! Non resta più che a scoprire il fortunato a cui la signorina dedicherà il suo prossimo colpo di forbici... se le rimane ancora qualche cosa da tagliare. —

E lui e gli altri si spassarono di tutto cuore, più tardi, accennandosi la schiena rotonda del professore che, appoggiato al parapetto, dava delle spiegazioni al prete sulla costellazione dell’Orione. Era una notte incantevole, un ridentissimo augurio per il buon termine del viaggio. A occidente, sul cielo splendidamente stellato, s’alzava la luce zodiacale, in forma d’una grande piramide biancheggiante, che toccava quasi lo zenit col vertice, e abbracciava circa a un quarto dell’orizzonte. Il tratto di via lattea che corre fra lo Scorpione e il Centauro e i quattro diamanti bellissimi della Croce del Sud, appariva mirabilmente vivo. E le nubi di Magellano, le vaste nebulose solitarie che facevano battere il cuore e brillar la penna dell’Humboldt, formavano intorno al polo australe due maravigliose macchie bianche, sfumate nell’infinito. E si vedevano stelle cadenti a ogni tratto, come una pioggia rada di fiori di fuoco, che strisciavano il cielo di luce argentea, rossigna, dorata, azzurra; ma più grandi assai in apparenza, per effetto della maggior purezza atmosferica, di quel che si vedano sul nostro orizzonte. La chiarezza del cielo era tale che il bastimento vi disegnava netti i suoi cordami e i suoi alberi neri, e guardando dalla piazzetta, si vedevano stelle fra le sartie, stelle fra i paterazzi, nei vani delle griselle, intorno alle antenne; e stelle pure si riflettevano nel mare quieto, in modo che non pareva di navigare, ma di volare sopra un naviglio aereo dentro agli splendori del firmamento. Eppure quasi nessuno guardava. Ciascuno di quei mille e settecento atomi viventi aveva dentro di sé una speranza, o un timore, o un rammarico, appetto al quale tutti quei milioni di mondi non gl’importavan di più d’un nuvoletto di polvere sollevato da terra col piede.

A prua, infatti, si sentiva un mormorio vivissimo di conversazioni; ma più raccolto e più eguale dell’altre sere; e non canti nè grida: si capiva che tutti parlavano d’interessi, di faccende, di cose serie. Al momento della separazione delle donne dagli uomini, si udirono dei: — Buona notte! — pieni di sottintesi, e cento voci vibranti: — A domani, dunque! — È l’ultima notte! — Domani a terra! — Fra ventiquattr’ore in America! — Ed eran sia tutti sotto da un pezzo, che dalle scale dei dormitori veniva su ancora un bisbiglio sonoro e come la respirazione d’una moltitudine commossa. Era il flusso d’un mare d’anime prodotto dall’avvicinarsi d’un mondo.

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