< Sull'Oceano
Questo testo è stato riletto e controllato.
Gli originali di prua
L'Oceano giallo Il dormitorio delle donne

GLI ORIGINALI DI PRUA


Altri piovaschi ci si rovesciarono addosso il di seguente, e in grazia all’ultimo io potei parlare per la prima volta con la signorina di Mestre, che mi trovai accanto nel passaggio coperto di destra, dove s’era rifugiata, già fradicia e tremante dal freddo. Le sue prime parole, i primi movimenti del suo viso, veduto così da vicino, in mezzo alla folla che ci stringeva, mi rivelarono l’animo suo meglio che non l'avessero fatto fino allora tutti i suoi atti. Da certi guizzi involontari delle sue labbra bianche e da certi tremiti intimi della voce, s’indovinava sotto a quella compostezza gentile un grande vigore di passione, ed era una pietà ardente per le miserie umane, il cui spettacolo le riusciva intollerabile e la rendeva infelice, un amore violento per tutti quelli che soffrivano, dal quale le era nata non so che idea di socialismo religioso, confusa nella sua mente, ma fiammeggiante nel suo cuore, che la consumava. Per la prima volta in vita sua essa vedeva molta miseria e molti dolori accumulati, per così dire, e frementi sotto la sua mano; e n’era sconvolta nel più profondo dell’anima. Non capii bene il suo pensiero, perché, o per difficoltà di esprimersi o per stanchezza, non finiva mai la sua frase, e l’ultime sue parole volavan via come rapite dal vento. — Non si fa abbastanza per chi soffre, — disse; — eppure... non c’è altro da fare al mondo... tutto è lì. — Se le fossero bastate le forze del corpo, avrebbe certo consacrato la vita a qualche grande apostolato di carità, e in quello sarebbe morta: lo diceva l’espressione della sua bocca tenerissima, e quella della sua fronte risoluta, sulla quale passava ogni tanto un’ombra leggiera, come il pensiero dell’egoismo e della tristizia umana, ch’ella doveva aver piuttosto indovinato che esperimentato nella sua breve esistenza. E nonostante le grandi dissomiglianze, mi passava per la mente, guardandola, il viso bianco e ispirato d’una di quelle fanciulle nichiliste che dipinse lo Stepniak, divorate dall’ardore della loro fede e pronte a morir per essa. Parlava con gli ocelli all’orizzonte, con una voce d’una dolcezza inesprimibile, accarezzando con una mano la sua croce nera, e quel povero alito di bambina inferma che gli usciva dalla bocca pareva anche più tenue e compassionevole davanti a quel soffio immenso di vita che le mandava in fronte l’oceano. Aveva coscienza del suo stato? Argomentai di sì dall’indifferenza che dimostrava, come se già vivesse in un altro mondo, per le sue compagne di viaggio e per gli altri passeggieri di prima, che confondeva gli uni cogli altri, domandando:— Chi? Quale? — e facendo uno sforzo per ricordarseli. Ed era rassegnata veramente? Cercai di scoprirlo poco dopo, mentre discorreva con la bella ragazza genovese, a cui aveva portato in regalo un piccolo astuccio di cuoio, con gli strumenti da cucire. Cercai nei suoi occhi, nel momento che la fissava, se la vista di quella bella gioventù salda e florida, e quasi risplendente di vita, le destasse un sentimento anche sfuggevole di invidia, un rimpianto, il pensiero triste del paragone. Nulla. La grande rinunzia era già fatta, senza dubbio. L’amore e il desiderio della vita, partiti prima di lei, eran già nel sepolcro. In quel punto sentii dietro di me un fruscìo vivo di gonnelle e una risatina trillante. Era la signora bionda, vestita di color celeste, incipriata da una parte sola e profumata come un mazzo di fiori, che veniva per la prima volta a visitar la prua, in compagnia del Secondo, un giovialone color di rosa, alto due metri, col quale pareva già in domestichezza. Passò, sfringuellando, e guardando qua e là; ma si vedeva che non vedeva nulla di nulla, che per lei poppa, prua, macchine, emigranti, miseria, Atlantico e Mediterraneo, eran tutte cose che non la riguardavano, che non la distraevano neppure un momento dalla sua gaia coscienza di bella donnetta scervellata, libera e felice nel pieno esercizio delle sue funzioni. E osservai allora il senso acuto che hanno gli uomini del popolo nel giudicare lì per lì anche le donne della “signoria.„ Non l’avevano mai vista; ma la riconobbero al fiuto; e non si scansavano apposta, i sornioni, per farsi strisciare le ginocchia dal vestito celeste; le facevan dietro il verso di chi sorbe un’ostrica, o si baciavan la palma della mano, ridacchiando. Si scansarono invece, ma di mala grazia, davanti alla signora della spazzola, che le veniva dietro, sola, portando un pacco in mano, vestita con eleganza stridente. Da due giorni essa aveva preso a scimmiottare la signorina veneta, e faceva distribuzione di confetti e frutta ai ragazzi. Ma, Dio mio! aveva l’aria d’una ispettrice, il sorriso rassegato; e mentre con la mano porgeva il dolce, con l'occhio si guardava dai contatti: tutta la sua persona rivelava la borghesuccia impastata d’invidia per chi le sta sopra e di disprezzo per chi le sta sotto, capace di commettere una vigliaccheria per entrare in relazione con una marchesa, e di dimezzare il pane ai figliuoli per strascicare del velluto sui marciapiedi. I piccini accettavano, ma le occhiate che le tiravano i grandi esprimevano la più cordiale avversione. Mentre la seguitavo con gli occhi in mezzo alla folla, vidi venire innanzi, con la sua ragazzina, quella tal signora “decaduta„ delle terze classi, che il Commissario m’aveva indicato nei primi giorni: malandata di salute peggio d’allora, e resa più miserevole all’aspetto da un vestito di seta nera sciupato e sgualcito. Ci sono delle piccole umiliazioni nella sventura che fanno più pietà della sventura stessa. Tutte e due, madre e ragazza, timidamente, chi sa dopo quanta esitazione, s’accostarono a uno dei cernieri dell’acqua dolce, e vergognandosi un poco, dopo essersi guardate intorno, si chinarono a succhiare i bocchini di ferro, nell’atteggiamento delle bestie all’abbeveratoio, come facevan tutte le altre: poi, vedendo che tornava in qua la signora svizzera, si ritirarono in fretta col capo basso, e scomparvero nella calca. Alcuni emigranti che avevan notato quella scena, ne risero a voce alta, con ironia. La signora bionda, intanto, a un cenno del Secondo, s’era soffermata a guardare la genovese, la cui fama di “bellezza virtuosa„ le doveva già essere arrivata all’orecchio. E mi parve che la trovasse bella. Ma nel suo sguardo ridente e benevolo vidi come balenare una espressione di pietà: la pietà con cui un ardito e fortunato industriale guarderebbe un ricco inetto che tenesse a dormire nella cassa forte un capitale prezioso. Poi se n’andò, salutando con un cenno della mano suo marito, che stava in alto, — sul terrazzino del palco di comando, — a esaminare la struttura del fanale rosso.

Povera genovese! Il Commissario, passando là per verificare la rottura dei bocchini d’un cerniere, mi mise al fatto d’una storia deplorevole. Intorno a quella bella e buona ragazza s’era venuto formando un cerchio d’antipatie e di rancori che non le davan più pace. Tutti gli spasimanti non guardati o ributtati con uno sguardo o con un atto di disgusto, le eran diventati nemici, e quel suo contegno dignitoso e immutabile gli aveva inaspriti a poco a poco fino all’odio. Dicevano che era “stupida come una scarpa„, un pezzo di carne senza sangue, tutta mani e piedi, imbottita di cotone davanti, e certi denti! Al dispetto degli uomini s’era aggiunta la gelosia delle donne, rabbiose di vederle ai fianchi cento “imbecilli„ in adorazione. La bolognese e le due coriste, in ispecie, le lanciavano delle occhiate da bollarla a fuoco. Avevano cominciato con chiamarla, per sarcasmo, la principessa; poi a dire che tutta quella modestia di monachina era un’impostura; e infine a mettere in giro a suo carico ogni specie di calunnie. Non si può dire la sudiceria dei discorsi che le si tenevano intorno, la turpitudine delle osservazioni che si facevano sulla sua persona, ad alta voce, provocando delle risataccie insolenti, di cui non le poteva sfuggire il significato. Era un vero fiore in mezzo a un letamaio. L’avrebbero insultata a faccia aperta, le avrebbero messo le mani addosso, non per altro che per avvilirla, se non fosse stato il timore delle autorità di bordo. Il cuoco medesimo era diventato furioso, e non mostrava più al finestrino che la faccia terribile d’un sultano offeso. Per due o tre giorni le aveva ronzato intorno il toscanello di prima classe, s’era già fin anche messo in relazione col padre; e tutte quelle canaglie avevan già dato il mercato concluso e l’affare fatto; ma poi aveva smesso tutt’à un tratto, senza che si sapesse perchè. Il solo rimasto devoto, innamorato più che mai, preso fino al midollo delle ossa, poveretto, era quel tale giovane mingherlino, con una borsa di cuoio alla cintura, che pareva preso alla pania; — un modenese, scrivano di professione, — solo, — del quale s’era incapriccita pubblicamente una brutta loschetta di terza, coi capelli rossi e il viso cruscoso, ch’egli non curava. La sua passione, cresciuta fino all’istupidimento, era diventata lo spasso di tutti: gli tiravano dei sospironi a raglio dietro le spalle, gli cantavano


sei troppo piccolo
per fare all’amor.


Ma egli era tanto innamorato che non badava a nulla, e se ne stava fermo al suo posto per dell’ore, con un gomito sul ginocchio e il mento nella mano, a guardarla, come in estasi; felice quando quegli occhi azzurri e limpidi, girando uno sguardo intorno, incontravano i suoi, per puro caso. Ed era là anche allora, mentre il Commissario parlava di lui, immobile, con un atteggiamento del viso, con cert’occhi, da far capire che per una parola avrebbe dato la sua borsa di cuoio, la sua penna, il passaporto, l’America, l’universo. Metteva pietà. Certo, prima dell’arrivo, avrebbe finito di perder la testa e fatto qualche grossa corbelleria.


Quello era l’“innamorato„, un personaggio che a bordo non manca mai, come diceva il Commissario, e spesso anche che n’è vari: d’innamorati del cuore, s’intende, chè gli altri non si contano. Ma sul Galileo c’era una collezione d’altri originali assai più curiosi; ciascuno dei quali, in quei dodici giorni, aveva avuto campo di mettersi in luce, e godeva già d’una certa celebrità nella repubblica di prua. C’erano i capi ameni e i personaggi seri. Questi stavano di preferenza sul castello di prua, ch’era una specie di Monte Aventino, dove si raccoglievano gli spiriti riottosi e i filosofi di umor tetro; e il più popolare di essi era il vecchio toscano dal gabbano verde, che aveva mostrato il pugno a Genova, la sera della partenza. Costui aveva il diavolo in corpo; dalla mattina alla sera declamava con la voce rauca, girando per aria l’indice minaccioso, e il suo uditorio ingrossava di giorno in giorno: avrebbe voluto iniziare la rivoluzione sociale sul Galileo, predicava contro i signori di poppa, incitava i passeggieri a protestare contro l’immondizia dei dormitorii e la schifezza del vitto, e qualche volta, per dar l’esempio, buttava per aria la sua porzione, e inveiva urlando contro le cucine. E l’uditorio approvava, ma mangiava, e allora, fuor di sè, egli trattava tutti di “venduti„ e di “schiavi.„ Uno solo non piegava il capo davanti a lui, un sedicente contrabbandiere, piccolo e secco, con un gran ciuffo nero sopra la fronte e due occhi di girifalco, il quale s’era fatto da sè e godeva di tenersi viva intorno una riputazione tenebrosa di gran delinquente, carico d’omicidi misteriosi, e pronto a tutto: non altro che un Capitan Fracassa del delitto, forse; ma abilissimo a recitar la sua parte, tanto che era temuto da tutti, benché non avesse ancora torto un capello a nessuno, e le donne se lo segnavano a dito, dicendo che portava un lungo pugnale sotto la giacchetta, e che prima della fin del viaggio avrebbe certamente fatto una strage. Egli passeggiava tra la folla, a braccia incrociate e a capo alto, e non voleva esser fissato in viso da alcuno. Se qualcuno lo fissava, si fermava subito, piantando gli occhi in faccia al temerario, come per domandargli se era stanco di vivere; ma tra per paura e per prudenza, tutti voltavan il capo dall’altra parte. Da questa pretesa in fuori, pago della sua gloria sanguinaria, non dava noia ad anima viva, ed ostentava per il vecchio toscano il disprezzo dell’uomo d’armi per l’uomo di toga. Con questi due faceva la triade sul castello di prua quella strana figura del saltimbanco, dai’ capelli lunghi e dalle braccia tatuate, del quale nessuno aveva mai sentito la voce, tanto che si diceva che fosse muto: ed era capace di stare cinque ore immobile all’estrema punta del piroscafo, con quegli occhi verdi per aria, come se fissasse una stella visibile a lui solo, assorto in immaginazioni sovrumane.

I belli umori, invece, si raccoglievan quasi tutti sul castello centrale, che offriva maggior spazio a far bullonate, ed era come una piazza di villaggio, un luogo di passo, comodo ai crocchi e al pettegolezzo. Qui, nell’angolo a sinistra, vicino al palco di comando, c’era conversazione e chiasso dal levar del sole fino a notte. Il buffone della brigata era un contadino del Monferrato, quello stesso che aveva fatto la supposizione scandalosa sul borsone della bolognese: una faccia di brighella, a cui mancava il naso. Tutta la terza classe sapeva come l’avesse perso: gliel’aveva portato via con una sciabolata un carabiniere briaco, che egli, stracotto pure, aveva provocato una notte, in un vicolo del suo villaggio; ma il comico stava in questo, che la mattina dopo, sperando di trar partito di quello snasamento, egli aveva ricorso, per farsi risarcire dei danni, alle Autorità, a cui il carabiniere s’era ben guardato di far rapporto; e frutto del ricorso eran stati varii giorni di carcere, dopo molte corse al tribunale del circondario, e cento lire di multa. Costui aveva sbagliato mestiere: era un pagliaccio nato: contraeva e allungava il muso come una bestia, ballava dei balli grotteschi di sua invenzione, contraffaceva la gente in maniera maravigliosa, e quando passava un’autorità di bordo, salutava con un atto di finto rispetto, che faceva crepar dalle risa. Dopo di lui, il più famigerato era un ometto dalla testa pelata, con un grosso orzaiolo a un occhio, un ex portinaio, il quale si teneva sempre accanto una gabbia con due merli, che curava molto, contando di venderli a Buenos Ayres a ottanta lire l’uno: affare tentato da molti altri. E doveva la sua popolarità a un tesoro pornografico che aveva ereditato da un parente: un grosso quaderno tutto pieno di caricature oscene, di sciarade sporche o di aneddoti, i quali, letti a pagina piegata, eran brani di vite di santi, e a pagina aperta, troiate dell’altro mondo. Costui aveva sempre intorno un gruppo di dilettanti di grasso, che rileggevano cento volte al giorno le stesse lordure, buttandosi a traverso alle panche dal ridere, con gli occhi lacrimanti di gioia. E allora egli alzava la fronte come un attore applaudito, felice. Un terzo, un cuoco d’osteria, era un tipo frequentissimo a bordo: il sapientone che, per essere già stato una volta in America, s’arroga una superiorità professorale sui suoi compagni di viaggio, spiega a modo suo tutti i fenomeni marini e celesti, sdottora di meccanica navale, parla del nuovo mondo come di casa sua, e a tutti spaccia consigli, e dà di villano ignorante a chi non gli crede: il Commissario l’aveva sorpreso una volta che spiegava il movimento rotatorio della terra, con una mela in mano, schiantando spropositi da far fermare il bastimento. A tempo perso, sonava anche l’ocarina. C’era infine un barbiere veneto che brillava per la sua abilità d’imitare la voce del can da pagliaio che abbaia alla luna: un ululato lamentevole che straziava i nervi, ma che avrebbe ingannato tutti i cani d’Italia. Ma già tutti gli “specialisti„ eran stati scovati e costretti a dar saggio di sè: un vecchio giardiniere, fra gli altri, s’accoccolava dietro una stia e imitava l’anelito rabbioso d’uno per cui volere non è potere, con una perfezione insuperabile: un vero artista, dicevano, ed era tenuto in gran conto. Lì poi giocavano a tarocchi, a pila e croce e alla tombola, e cantavano per ore intere; giocavano perfino a mosca cieca, dei lanternoni coi capelli grigi, e a guancialin d’oro, come rimbambiti. Il grande spettacolo, poi, era quando ci veniva da prua, preso da un estro di mattoide, il saltimbanco tatuato, e camminava con le gambe per aria, faceva il serpente o la ruota, in mezzo a un subisso di applausi, sempre torvo nel viso, come se facesse quello per castigo; dopo di che se n’andava senza far parola, com’era venuto. Ma quell’allegria pareva spesso più voluta che spontanea, e quasi una specie di ubriachezza a digiuno che si procurassero per scacciare i ricordi tristi e i presentimenti cattivi; poiché era veramente un furore come coglievano a volo ogni minimo pretesto per stordirsi col baccano. Si gittavano alle volte in cento contro il parapetto o s’affollavano in cerchio precipitatamente, levando un rumor di grida, di fischi, di miagolii, di chicchiricchì, che si spandeva per tutto il piroscafo e faceva voltare il viso inquieto agli ufficiali: ed era per un cappello caduto in mare, o perchè un di loro s’era tinto il naso di nero, cadendo sopra la boccaporta d’una carboniera. E quando passava in mezzo a loro una ragazza o una donna che non appartenesse a nessuno, era un coro di schiocchi di lingua, di trilli d’uccelli, di voci onomatopeiche d’ogni intonazione e significato, che obbligava la disgraziata a darsela a gambe. La serva negra dei brasiliani, sopra tutto, quando passava di là per andar a mangiare o a dormire nelle terze, mostrando il bianco degli occhi e dei denti come per mordere, suscitava una tal musica di versi d’amore animaleschi, che pareva di sentire l’urlio d’un serraglio in calore. E avevamo il fatto nostro noi pure. E di fatti, tolta la vernice, a chi l’aveva, della buona educazione e della cultura, c’era poi una gran differenza tra il castello centrale e il cassero di poppa? Come si sarebbero trovati facilmente i tipi gemelli e le analogie delle conversazioni! È incredibile come ci conoscevano, e con quanto fondamento di vero spettegolavano alle nostre spalle, scoprendo il lato ridicolo di tutti noi. Per via indiretta lo venivamo tutti a risapere. Conoscevano qualche cosa dell’indole e delle abitudini di ciascuno, per mezzo dei camerieri di bordo e dei servitori privati dei passeggieri ed erano al corrente della nostra piccola cronaca quotidiana, come segue nelle botteghe e nelle soffitte riguardo ai casigliani dei piani signorili, e quel che non sapevano indovinavano, e commentavano ogni cosa. Ad alcuni avevano messo dei soprannomi, di altri contraffacevano l’andatura e la voce. Voltandoci indietro all’improvviso quando si passava di là, sorprendevamo sempre tre o quattro che si ammiccavano, o ricomponevano in fretta il viso da una smorfia di canzonatura. Quelle eran le nostre Forche caudine.

Quella sera appunto tutto il piroscafo fu rallegrato da una celia superlativa fatta a uno di quella brigata: un passeggiero di terza che, avendo pagato il supplemento, desinava in seconda, ma passava la giornata fra i crocchianti del castello centrale. Era un ometto tra le duo età, con la faccia rugosa come una mela cotta, un buon diavolo, vestito come un sagrestano e che si dava aria di borghese agiato; ma semplice e credenzone come un fanciullo, e accarezzato da tutti perchè possessore d’una cassetta di bottiglie di vino, che portava a un fratello in America, e che difendeva gelosamente da ogni insidia come un deposito sacro. La mattina, salendo in coperta, aveva fissato l’attenzione sul quadrante telegrafico del palco di comando, che trasmette i segnali alla macchina, e come sul palco c’era il quarto ufficiale, che desinava nelle seconde con lui, gli domandò che cosa fosse quel meccanismo.

Quegli rispose che era il telegrafo.

Il buon uomo rimase stupito. — Il telegrafo! — esclamò. Per telegrafare?

L’ufficiale capi a volo: era un piccolo genovese, fino come la triaca, gran maestro di corbellature, e sempre serio.

— Per telegrafare, — rispose; — s’intende. o a che cosa deve servire? Per mezzo d’un filo mobile noi ci teniamo in continua comunicazione col cavo sottomarino, e mandiamo notizie all’armatore di quattro in quattr’ore.

L’ometto espresse la sua ammirazione; poi disse timidamente, avendo già il suo pensiero: — Già... non servirà che per uso del piroscafo.

— In via di favore. — rispose l’uffiziale, — serve anche per i passeggieri.

— Ma allora, — esclamò l’altro con espansione, — io manderei un telegramma a mia moglie!

Un momento fu trattenuto dal pensiero della spesa; ma inteso che, per esser quella un’eccezione, si sarebbero attenuti alla tariffa ordinaria, fu tutto contento, e scrisse il dispaccio. — Sto bene. Mar buono. Metà strada. Ti abbraccio, ecc.— E domandò se sua moglie avrebbe potuto rispondere. Sì, certo poteva rispondere. — Perchè la conosco, — disse; — è donna da levarsi il pan di bocca per mandarmi una buona parola.— E voleva pagare; ma l’ufficiale non volle: doveva fare il calcolo dei centesimi addizionali: avrebbe pagato la sera, verso le quattro, ritornando a vedere se ci fosse risposta.

Felice, il buon diavolo se ne va, lasciando il foglio. Ritorna alle tre: niente. Alle tre e mezzo: niente. Alle quattro trova dieci benedette parole: — Grazie. Bene. Dio ti accompagni. Prego per te. Torna presto.

Fuor di sè, legge due volte, bacia il foglio, vuol pagare. — Ma che! — dice l’ufficiale. — È una miseria da non parlarne. E poi, farò passare il dispaccio come di servizio. Piuttosto, poiché ha delle buone bottiglie in cassetta, ne stapperà una a tavola, e saremo pari. — E come no? Ne stapperò una, ne stapperò due! Si dovrà star allegri. Ah! la scienza dell’uomo a che cosa è arrivata! — Per farla breve, alle quattro, a tavola, le due bottiglie furono stappate e bevute, e il povero uomo s’esilarò tanto, che ne fece stappare una terza, una quarta, e tutta la cassetta, così ostinatamente difesa fin allora, fu asciugata. La notizia, frattanto, s’era già sparsa, e quando egli uscì di tavola, eccitato, rosso, trionfante, e salì sul castello centrale per fare il chilo, fu ricevuto con una chiassata di carnevale. Non capi subito perché lo beffassero; ma quando capi, mentre tutti s’aspettavano di vederlo restar fulminato, si mise a ridere di compassione, e se ne tornò verso le seconde, esclamando: — Ignorantoni!... Bestioni!... Asinoni!...— beato, imperturbabile in mezzo al concerto di latrati, di gnauli e di canti di gallo che l’accompagnava.

E quella scenata seguiva davanti a uno degli aspetti più stupendi che offrano l’oceano e il cielo nella regione dei tropici. Essendosi squarciato poco innanzi al tramonto il velo fitto di vapori che ci avvolgeva da tre giorni, il sole calava nel mare come un rubino enorme, gettando sulle acque tranquille una lunghissima striscia purpurea abbagliante come un torrente di lava accesa che corresse a incenerire il Galileo. E quando il sole toccò l’orizzonte, le nuvole, infocate dei più pomposi colori, cominciarono a svolgersi lentamente, presentando mille forme maravigliose, che ci facevano stare a bocca aperta, e sciamare man mano che si cangiavano: — Che peccato! — come allo svanire d’un sogno incantevole. Erano monti d’oro, da cui precipitavano fiumi di sangue, fontane immense di metalli in fusione, padiglioni sublimi, sfolgoranti di sotto d’una così gloriosa luce, che, a fissarvi lo sguardo, la mente vacillava un momento, e s’aspettava con un senso quasi di trepidazione l’ultima visione di Dante, i tre giri di tre colori e d’una contenenza, dipinti dell’effigie umana, davanti a cui mancò possa all’alta fantasia.


Questa voce è stata pubblicata da Wikisource. Il testo è rilasciato in base alla licenza Creative Commons Attribuzione-Condividi allo stesso modo. Potrebbero essere applicate clausole aggiuntive per i file multimediali.