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IL DORMITORIO DELLE DONNE
E mare, mare, mare. A momenti c’era da immaginare che fossero scomparse le terre dalla superficie del globo, e che noi navigassimo sull’oceano universale, senz’approdare mai più. Non eran più le acque gialle dei giorni innanzi; ma il cielo bianco, il sole bianco, un mare che pareva un’immensa lastra di piombo, e sul piroscafo tutto quello che si toccava, scottava. E il caldo cocente non era il peggio: era un puzzo d’aria fracida e ammorbata, che dalla boccaporta spalancata dei dormitori maschili ci saliva su a zaffate fin sul cassero, un lezzume da metter pietà a considerare che veniva da creature umane, e da far spavento a pensare che cosa sarebbe seguito se fosse scoppiata a bordo una malattia contagiosa. Eppure, ci dicevano, non v’eran più passeggieri di quanti la legge consente che s’imbarchino in relazione con lo spazio. Eh! che m’importa, se non si respira! Ha torto la legge. Essa permette che si occupi sui piroscafi italiani uno spazio maggiore quasi d’un terzo di quello che è concesso sui piroscafi inglesi e americani; e non è là a vedere se il tutto bene trovato dalla polizia alla partenza, sia mantenuto poi durante il viaggio; a impedire, per esempio, che s’imbarchino in altri porti più passeggieri di quello che rimanga di posti, e che si caccino viaggiatori sani nello spazio riservato agl’infermi, e che s’improvvisino dei dormitori alla bella diana. Quanto rimane da fare ancora dentro a questi bei piroscafi che il giorno della partenza si vedono luccicare come palazzi di principi! Sulla maggior parte, i marinai e i fuochisti ci stanno come cani, l’infermeria è un bugigattolo, i luoghi che dovrebbero essere più puliti, fanno orrore, e per mille e cinquecento viaggiatori di terza classe, non c’è un bagno! E dican quello che vogliono gli igienisti che han fissato il numero necessario dei metri cubi d’aria: la carne umana è troppo ammassata, e che una volta si facesse peggio, non scusa: oggi ancora è una cosa che fa compassione e muove a sdegno Intanto, man mano che s’alzava la colonna termometrica, crescevano per il Commissario le occupazioni e i fastidi; principalissimo dei quali era il dormitorio delle donne, in cui doveva scendere molto sovente, di giorno e di notte, per ristabilire il buon ordine o vegliare alla pulizia. Anche a non tener conto del da fare, sarebbe bastato quello spettacolo obbligatorio a disamorare dell’ufficio qualunque galantuomo. S’immaginino due piani sotto coperta, come due vastissimi mezzanini, rischiarati da una luce di cantina, e in ciascuno di essi tre ordini di cuccette posti l’un sull’altro, tutto intorno alle pareti e nel mezzo, e lì circa a quattrocento tra donne e bambini poppanti e spoppati, e trentadue gradi di calore. Qui, nella cuccetta più bassa, dormiva una donna incinta con un bimbo di due anni, sopra di lei una vecchia settantenne, sopra di questa una giovinetta sul primo fiore; là s’allungava una cafona calabrese accanto a una signora caduta nell’indigenza; più oltre un’avventuriera di città, che si dava il belletto al buio, a fianco d’una contadinella timorata di Dio, che dormiva con la corona del rosario tra le mani. A scender là di notte, si vedevano spenzolare dalle cuccette capigliature grigie, trecce bionde, fasce di lattanti, orribili stinchi senili e belle gambe di ragazze, e un cenciume di scialli, di vestiti e di sottane di tutti i colori naturali e acquisiti immaginabili e possibili, come bandiere dell’esercito infinito della miseria; e sul tavolato dei mucchi confusi di stivaletti, di zoccoli, di ciabatte, di legacci, di scarpettine, di calze, da metter sgomento a pensare ch’eran mucchi di quistioni e di battibecchi preparati per il domani, all’ora della levata. Molte non dormivano. Il Commissario s’avanzava in mezzo a un cicaleccio fitto di conversazioni, rotto da risa represse, da vagiti, da sospiri di ragazze, da gemiti di donne oppresse dal caldo, da mormorii di vecchie, che non potendo chiuder occhio, masticavano paternostri e avemmarie. Tratto tratto era chiamato da una mano o da una voce sommessa, e doveva chinarsi o levarsi in punta di piedi per ascoltare un lamento o una protesta. — Signor Commissario, le diceva una nell’orecchio, ci metta rimedio lei; c’è quella ragazza del numero 25 che è uno scandalo; ci ho qua sotto due ragazzetti; le dica di stare a dovere; o in che luogo siamo? — Un’altra voleva che avvertisse le due vicine di sopra di non mettere i piedi fuori e di parlar più pulito. Le vecchie, in particolar modo, lo tormentavano per la buona morale, e denunziavano le colpevoli, in gran segretezza, rabbiose. — Ci ponga un po’ mente lei, signor Commissario. Loro non vedono niente, mi scusi. C’è il numero 77, quella bionda, che ogni notte al tocco sale in coperta e non torna più che alle quattro. È una porcheria che deve finire. — Altre volevano cambiar di posto, a cagione d’una vicina asmatica, o perchè la ragazza che avevano a lato, un poco di che, senza dubbio, spandeva un puzzo di muschio da mandar la testa per aria. E il Commissario doveva quietarle: — Vedremo, provvederemo, dormite intanto, riposate, datevi pace. — E andando innanzi così al chiarore fioco delle lanterne, intravvedeva delle madri addormentate che si stringevano i bimbi al petto, respirando affannosamente, col viso contratto da un sogno doloroso o spaventevole; dei seni giovanili non scoperti per caso; delle bocche senza denti spalancate nel sonno come se urlassero; degli occhi che luccicavano nell’ombra, fissandolo, con un sorriso che faceva un’offerta. E qualche volta, per le corsie, s’abbatteva in un viso sospetto, che doveva sottoporre a un interrogatorio. — Dove andate a quest’ora? — Su (naturalmente) per un’occorrenza. — Con quegli occhi in solluchero? Vi do tempo cinque minuti, e poi vi tasterò il polso. — Un po’ più in là, s’arrestava a fare un’ammonizione: — Ve lo dico per l’ultima volta, se non vi trovo domani con la camicia cambiata, ve la taglio! Non avete vergogna?— E la rimproverata rispondeva qualche volta il vero, pur troppo: — Non ne ho altra, signorino!— E avanti, di corsia in corsia; da una parte rimetteva sul cuscino il capo d’una bimba nuda che sporgeva troppo in fuori: dall’altra faceva tacere due comari bracone che si scanagliavano a bassa voce per una quistione nata la mattina alla ripartizione della galletta; e quattro passi più giù faceva coraggio a una povera donna sola che, presa dalla malinconia, piangeva sul capezzale, dicendo che aveva il presentimento di non trovar più suo marito in America. E a furia di passare e di ripassare conosceva il modo di dormire di tutti. La bolognese, che stava coricata di fianco, toccava quasi con l’anca enorme la cuccetta di sopra; la bella contadina di Capracotta si rivoltolava come uno scoiattolo; quelle due ciuffone di coriste dormivan con le gambe e le braccia buttate di qua e di là come le aste d’un X; e la signora “decaduta„ si teneva disteso addosso quel povero vestito di seta nera, come il drappo funebre della sua antica fortuna. La più bella e tranquilla era anche nel sonno la ragazza genovese, che riposava supina, lunga, tutta coperta, come una statua di regina, distesa sulla sua tomba di marmo. Ma la vista di tutto quelle canizie misere, di tutte quelle madri senza casa o senza pane, dormenti sopra l’oceano, a migliaia di miglia dalla patria abbandonata e dalla terra promessa, gli teneva lontano dalla mente ogni pensiero sensuale, anche davanti alle molto nudità ostentate o inconsapevoli che gli occorreva di vedere. Egli passava là sotto come un medico in un ospedale, non meno inaccessibile a ogni tentazione di quello che lo fosse quel povero vecchio annaspo di marinaio, che l’accompagnava con una lanterna alla mano. Infelice gobbetto! Per lui, non protetto dalla dignità della carica, il mestiere era ben più duro; tanto più quando, uscito il commissario, egli rimaneva solo nel dormitorio, col secchiolino dell’acqua e il ramaiolo a disposizione di tutte le assetate. — Vien qua, vecio — A mi, omm di persi — Dessédet, pivel! — Acqua! — Ægua! — Eva! — De bev! — Da baver! — In presenza sua, leticavano forte, infischiandosi del regolamento, e ridevan di lui; e quando le redarguiva, lo rimpolpettavano in tutte le regole; qualcuna anche, per disprezzo, le mostrava la faccia a cui si danno gli schiaffi coi piedi; di levata, soprattutto, quando si trattava di pescar la roba in quel guazzabuglio, gli facevan perder la testa, e allora scappava come da un vespaio, e si rifugiava in coperta, tutto sudato e ansimante. E quella mattina appunto, all’ora critica, lo trovai davanti alla porta del dormitorio, con l’anima per traverso. — Ebbene, — gli dissi, — vi fanno fare il sangue verde, non è vero? — Ah! — rispose, buttando via con dispetto la cicca, — No ne posso ciù! — Ed è così in ogni viaggio? — domandai. — Eh no, grazie a Dio! — rispose. — Va a viaggi. Alle volte, per combinazione, capita un carego di brave donne. Altre volte.... questa volta, per esempio, a l’è na raffega de donne maleduchæ 1, un vero carego d’açidenti!— Poi, ripigliando la sua compostezza filosofica e alzando l’indice, mi disse confidenzialmente nell'orecchio: — Scià sente (stia a sentire). Scià no piggie moggè! (non prenda moglie). E voltatomi lo scrigno, tirò via.
La mattina stessa era seguito nel dormitorio un grosso scandalo, ch’io non seppi che più tardi, stando col Commissario sul palco del comando a vedere il gran ballo dei denti di mezzogiorno; il quale somigliava allo spettacolo che si vede a certe feste di santuari campestri, dove cento famiglie merendano all’aria aperta, in un prato: un bulicame d’accampamento, dello centinaia di gruppi d’uomini, di donne, di ragazzi, seduti, inginocchiati, accucciati in mille atteggiamenti; in alto, in basso, su tutte le sporgenze e in tutti i buchi, coi piatti in mano, tra le gambe e in mezzo ai piedi, coi capi coperti di fazzoletti, di grembiali, di cappelli di carta, di gonnelle arrovesciate, perfin di cestini, per ripararsi dal sole che bruciava, e in mezzo ai gruppi, fra l’osteria e le cucine, un andare e venire frettoloso di innumerevoli capi-rancio, coi pani sotto il braccio, coi bidoni e le gamelle alla mano, accompagnati da mille occhi, chiamati da mille mani, apostrofati da mille bocche. Accanto al Commissario c’era il garibaldino, che girava sulla folla uno sguardo lento e senza benevolenza, e a destra la signorina di Mestre e la zia, appoggiate alla ringhiera, tutte intente a guardar la ragazza genovese, che stava disotto. Questa tagliava la carne al fratello, dava da bere a suo padre, e porgeva ad altre due donne e a un ragazzo, che appartenevano al suo rancio, ora un oggetto ora un altro, con la grazia solita; ma non con la solita serenità. Non mangiava, e le tremavan le mani. La signorina osservò che aveva gli occhi rossi, e pensando che avesse pianto, domandò al Commissario se ne sapesse il perchè.
Lo sapeva, e raccontò. Da quel viperaio di odi che da vari giorni le fischiava attorno, s’era finalmente rizzata una testa che l’aveva morsa nel cuore. Riscendendo quella mattina nel dormitorio, dopo aver accompagnato in coperta il fratello, aveva trovato una folla di donne davanti alla sua cuccetta, dov’era attaccata con mollica di pane una striscia di carta, strappata da un giornale sporco, sulla quale erano scarabocchiate a matita, in grossi caratteri, una decina di parole. Appena letto, s’era messe le mani sul viso, e aveva dato in uno scroscio di pianto. Erano una decina di aggettivi nudi e crudi, che si possono immaginare, ma non scrivere. Allora le donne, che pure non avevan pensato a strappare il foglio, s’eran date a consolarla, a modo loro; e una di esse, d’incarico d’una terza, le aveva soffiato all’orecchio il nome della colpevole, una cialtrona, una fetente, che aveva attaccato quella sudiceria di scappata, in un momento che nel dormitorio non c’era quasi nessuno, non tanto alla svelta, però, da non esser veduta da un ragazzo, il quale parea che dormisse, e vegliava, per rifischiar la cosa a sua madre. — Portate il foglio al comandante — le avevan detto. — Fatela chiamare dal Commissario. — La metteranno ai ferri. La manderanno alla berlina sul ponte. — La condanneranno al tribunale d’America. — Allora essa aveva staccata la carta, singhiozzando, e aveva aspettato che la calunniatrice comparisse. Questa era discesa poco dopo, ed era la loschetta cruscosa dal pelo rosso, incapricciata dello scrivanello, e gelosa come una bestia. Al primo: — Eccola là, — la genovese le era corsa incontro, seguitata dalle comari, affamate d’una scenaccia. Quella s’era fatta bianca, alzando il capo, nondimeno, in atto di sfida. Ma la buona ragazza non aveva fatto altro che porgerle il foglio dicendo con voce tremante: — E ben, cose v’ho faeto? (Ebbene, cosa v’ho fatto?) La prontezza con cui l’altra aveva afferrato e stracciato il corpo del delitto, era una confessione involontaria, che rendeva doppiamente inutili le sue denegazioni. Ma la genovese, senza aggiunger parola, era risalita, sconvolta e piangente, sopra coperta, e non s’era lagnata con nessuno. Il Commissario, risaputa la cosa e chiamata in ufficio la rea, che giurava colle mani e coi piedi d’essere innocente, s’era dovuto contentare di minacciarle i ferri, e che un’altra volta l’avrebbe cacciata In fondo alla stiva, a farsi rosicchiare dai topi.
La signorina, che aveva ascoltato il racconto senza staccar lo sguardo della ragazza, ripetè lentamente, come tra sè, col suo accento veneto: — E ben, cosa v’ho faeto? — E gli occhi le luccicarono di lagrime.
Il Commissario aveva raccolto qualche notizia intorno a quella ragazza e alla sua famiglia. Era di Levanto. Suo padre, che teneva una botteguccia di non so che cosa, avendo fatto cattivi affari, s’era deciso a andare in America, dove lo chiamava un cugino avviato bene; ma trovandosi senza un soldo, era stato costretto a rimandar la partenza di un anno; e il danaro per il viaggio gliel’aveva messo insieme la figliuola, centesimo per centesimo, vendendo tutte le sue bricciche, assistendo di notte una signora tedesca malata, e stirando di giorno per lo stabilimento dei bagni. Un gran segno nero che aveva sopra una mano, e che si vedeva dal ponte, doveva esser la traccia d’una scottatura.
Fosse per sospetto o per caso, in quel momento essa alzò il viso, e comprendendo che si parlava di lei, si fece tutta di porpora; ma rassicurata dallo sguardo dolce della signorina. la fissò coi suoi grandi occhi azzurri e ancora umidi, e sorrise. Poi ripiegò il capo per badare al fratello, e non vedemmo più che il mucchio d’oro delle sue trecce, e il bel collo, su cui s’era sparso il rossore.
La signorina toccò col ventaglio il braccio del garibaldino, e accennandogli la ragazza, gli disse con la sua voce dolce e triste: — Ecco la virtù, signore.
Quello fu come un lampo per me sulla natura e il fine dei discorsi ch’essa gli doveva tenere usualmente, e curioso di vedere a che punto fosse dell’opera sua, mi girai a guardare in viso il suo compagno; ma egli s’era già voltato verso il mare, dove tutti i passeggieri di terza, alzatisi in piedi come a un comando, fissavano gli occhi, facendo un gran mormorio.
C’era una vela all’orizzonte, sulla nostra destra. Il piccolo uffiziale del dispaccio, ch’era di guardia, l’aveva già segnalata da un pezzo. Non si vedeva che una macchietta bianca della forma d’un trapezio, colorito da un raggio pallido di sole, in mezzo all’immensità grigia; e un piovasco lontano, facendole dietro un fondo nero nel cielo e sulle acque, le dava una bianchezza vivissima, e la faceva parere ad un tempo una ancor più misera cosa, con quell'immagine d'un corruccio dell’oceano che pareva minacciasse lei sola. Eppure non si può dire che vita, che gaiezza improvvisa spandesse sulla solitudine sconfinata quella umile insegna dell’umanità: pareva che il mondo abitato ci si fosse avvicinato in un tratto. L’ufficiale si fece portare le bandierine dell’alfabeto nautico, e appuntò il cannocchiale. Quando fummo più vicini, il legno a vela salutò per il primo con la bandiera.
Il Galileo rese il saluto.
Allora cominciò tra il piroscafo e il veliere un dialogo affrettato, che l’ufficiale traduceva a voce per noi, e che gli emigranti seguitavano con gli occhi, in silenzio, come se capissero.
Era un bastimento italiano, tenuto là immobile dalle calme equatoriali.
Per prima cosa, disse il nome dell’armatore: Antonio Paganetti.
Poi: — proveniente da Valparaiso, diretto a Genova.
— Da quanti giorni in viaggio?
— Da due mesi.
— Da quanti giorni fermo?
— Da diciotto.
— Quello pittin! (Quel poco!) — esclamò l’ufficiale. E l’altro: — Prego di annunziare la nostra presenza al rappresentante del nostro armatore a Montevideo. Nessuna avaria. Tutti bene.
— Bisogno di nulla?
— Grazie.
— Buon viaggio.
— Buon viaggio.
Quanto ci parve grande, veloce, allegro il Galileo in confronto a quel piccolo legno immobile, con forse dieci o dodici uomini d’equipaggio, condannato a galleggiare come una cosa morta, chi sa per quanto altro tempo, sotto il raggio terribile del sole dell’equatore! Con un sentimento di pietà lo vedemmo a poco a poco rimpiccolire, diventare un punto bianco, e nascondersi dietro l’orizzonte; ma di pietà da egoisti, simile a quella dei viaggiatori che dai vagoni ampi e comodi d’un treno di strada ferrata lanciato a tutta forza, vedon di sfuggita la carrozza barcollante sotto la pioggia, tirata da un cavallo sfinito, per una via fangosa della campagna. E non da altra cosa che da quel confronto nacque una corrente di buon umore che si diffuse da prua a poppa, e durò fino a sera.
Ma quello era il giorno delle novità. A desinare, prima di sedersi, il comandante disse a voce alta: — Scignori, abbiamo a bordo un passeggiere di più.
Molti non capirono.
— Un bel maschiotto, — soggiunse, — che ha appena un’ora e tre quarti.
Tutti si rallegrarono ridendo e commentando. Da un leggiero rossore che passò sul viso della signorina di Mestre, capii che doveva aver partorito la contadina del suo paese.
— È nato nell’emisfero boreale, — concluse il comandante; — ma lo battezzeranno nell’altro. Domani si passa l’equatore.
- ↑ Una raffica di donne maleducate.