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IL MARE DI FUOCO
Ma il battesimo, come la festa dell’equatore, non fu che una breve tregua all’irritazione che serpeggiava a prua per effetto del caldo crescente, in particolar modo fra le donne, le quali erano ogni dì più uggite e stufe di quella maniera di vita tanto lontana da ogni loro consuetudine. Da vari giorni era scoppiata la malattia contagiosa del piccolo ladroneccio, e con questa, la febbre generale del sospetto: gli asciugamani, le scarpette, i cenci sparivano come per incanto, le derubate credevano di riconoscer la roba loro nelle mani dell’una o dell’altra, e ogni momento si vedevan venire dal Commissario due scarmiglione frementi, coi ragazzi per mano, col corpo del delitto sotto il braccio, seguite dai mariti e dai testimoni, a chieder giustizia. E allora avevan luogo processi e dibattimenti in tutte le regole. Si trattava d’un fazzoletto a cui la ladra aveva levato la marca, d’uno stivaletto a cui era stata strappata la fettuccia col nome del calzolaio. L’accusata negava, invocando Gesù e la Madonna; la derubata s’incocciava, tirando giù il resto del calendario: bisognava chiamar due perite che esaminassero la marca sfatta, o un ciabattino per lo stivaletto. Ma la piemontese rifiutava le perite napoletane, la napoletana non le voleva dell’alta Italia, i mariti pigliavnn le parti delle mogli, i testimoni e i curiosi tenevan ciascuno dalla sua provincia. Erano contestazioni interminabili tra montanare testarde che ripetevano cento volte la stessa ragione con la medésima frase, e pianigiane linguacciute che vomitavano torrenti di parole. Spesso anche non si capivan tra loro e bisognava nominare un interprete. Altre volte si doveva ordinare una perquisizione delle robe. Le accusate si mettevano a piangere, i bambini a frignare, i mariti a minacciarsi. — Ci rivedremo a terra, canaglia! — Ti caccerò nelle caldaie della macchina io, pendaglio da forca! — Darò le tue budella ai pesci, nato d’un cane! — Una donna accusava l’altra di bazzicare coi marinai - la notte, l’altra accusava lei d’andar a dormire coi signori di prima. — Voi tutto il bastimento vi conosce! — E voi non vi lava neanche tutta l’acqua del mare! — Il povero Commissario si stillava il cervello per comprendere e per dare delle sentenze giuste; ma comunque giudicasse, gridavano sempre all’ingiustizia. Se condannava una napoletana o una siciliana, questo dicevano: — Già, l’altra è dei paesi vostri. — Se condannava una dei “paesi suoi„ tutte le settentrionali strillavano. — Si sa, quelle ci han sempre modo, e che modo! di farsi dar ragione. — Ed era inutile che cercasse di persuaderle: — Ma sentite, ricordatevi: ieri ho pur dato ragione, perché l’aveva, a una delle vostre parti! — Niente: gliel’aveva data perchè era una bella ragazza, o una donna sola, o perchè perchè: un secondo fine ci doveva essere. E da una parte e dall’altra s’alzava un coro di mormorii: — Già. noi non siamo italiani. — Non parliamo il genovese, noi. — Si sa, ora sono quelli di laggiù che comandano. — Era una cosa che faceva doppia pena, così lontano dalla patria, veder dar fuori in ogni litigio le antipatie di famiglia, sentire con che parole diabolicamente ingegnose si mordevano l’un con l’altro nell’amor proprio municipale, dissotterrando recriminazioni e rancori morti da tanto tempo fra noi, e soffiandovi dentro, pur troppo, per portarli redivivi in America. E dopo ogni lite le due parti si separavano nemiche e gonfie di dispetti, che trasfondevano poi a prua nei loro compaesani dei due sessi; i quali a poco a poco s’andavano dividendo in due schiere, e si guardavano in cagnesco, e s’insultavano, scansandosi a vicenda, come per paura di essere impidocchiati, o affettando di abbottonarsi la giacchetta e di toccarsi in tasca quando si passavano accanto, come per salvare il portamonete o il fazzoletto. Oh miseria il Commissario, per quanto fosse sollecito, non aveva tempo d’ascoltar le querele di tutti, e por quanto fosse paziente, doveva qualche volta piantarsi i denti nella seconda falange dell’indice. La grossa bolognese, la cui alterigia montava con la temperatura, voleva far perquisire tutto il piroscafo perchè le avevan portato via un pettine di tartaruga, e minacciava di far screditare la Società di navigazione da suo fratello giornalista, appena sbarcata in America. La povera signora dal vestito di seta era disperata perchè le avevan rubato una piccola spilla d’argento, un ricordo di sua sorella, diceva; ma non osava di ricorrere al Commissario per timore di qualche vendetta. E c’eran delle donne che non tanto per timore quanto per mostrare una diffidenza ingiuriosa alle vicine, dormivano con tutte le loro robe ammontate fra le braccia e fra le gambe, anche a rischio di provocare la calunnia coi falsi contorni dell’adulterio. Una vera pazzia, insomma, E ancora le quistioni che nascevan da furti veri o mentiti eran le meno difficili. Il peggio era che l’irritazione aveva svegliato in tutti una delicatezza d’amor proprio straordinaria, che s’adombrava d’una mezza parola o d’un mezzo sorriso, tanto che ogni momento si presentava qualcuno al Commissario a lamentarsi d’una mancanza di rispetto, e il Commissariato si dovea convertire in una specie di tribunale per la casistica della dignità e della buona creanza. Il marinaio gobbo diceva che non si potea più campare. — Dixan che gh’è de ladre! (dicono che ci son delle ladre) — esclamava, poiché non parlava mai altro che delle donne; — ma se non s’imbarcassero le ladre, non si farebbero nemmeno più le spese del carbone, che dio le sprofondi! — A come si mettevan le cose c’era da aspettarsi da un’ora all’altra qualche baruffa seria. Già la sera innanzi, dopo il battesimo, due passeggiere s’eran fatte una cappelliera, alla muta, da signore ben educate, in un nugolo oscuro del dormitorio. E la sera del giorno dopo toccò di peggio al povero scrivanello. Essendosi lasciato sfuggire una parola d’indignazione contro due emigranti che facevan degli atti osceni dietro alle spalle della genovese, provocando le risatacce di tutti, quelli gli misero le mani addosso, e stavano per conciarlo male, quando passò di là per caso il garibaldino, e lo liberò, che aveva già la cravatta in brindelli. Tutti effetti del “focolare elettrico del globo.„ E il Commissario seguitava a dirmi: — Ne vedrà di peggio.
Liberato lo scrivanello, il garibaldino salì sul castello centrale, di dove l’avevo visto, e mi passò accanto. Avrei voluto chiedergli dei particolari; ma la sua faccia fredda e dura mi tenne in là, come sempre. Mentre i primi giorni scambiava con me qualche parola, ora faceva appena un cenno di saluto, e qualche volta neppure un cenno. Pareva che l’uggia crescente che metteva in ciascuno quella piccola società forzata del piroscafo, gli inasprisse l’avversione per i propri simili che già portava nel cuore. Quanto più andava innanzi nella familiarità, sempre taciturna e rispettosa, colla signorina dalla croce nera, tanto più diventava solitario e chiuso, come se quella compagnia gentile rabbuiasse, invece di rasserenare, la sua filosofia. Ora non parlava più con nessuno. Passava delle ore a poppa, appoggiato al parapetto, a guardare la scia del Galileo, come un foglio scritto interminabile, che si svolgesse sotto i suoi occhi, narrando la storia del mondo. E la sua selvatichezza sdegnosa aveva prodotto negli altri l’effetto solito: antipatia dapprima e ostentazione di altrettanto disprezzo; poi, quando la costanza della sua condotta mostrò ch’essa derivava da natura e non da proposito, un sentimento di rispetto e di timidezza, il quale si rivelava nella prontezza istantanea con cui lo sguardo dei passeggieri saliva su per gli alberi o fuggiva poi mare, quando egli, discorrendo con la signorina, girava gli occhi su di loro, per vedere se lo guardassero, e con che viso. Sembrava anzi che fosse nata in tutti una certa simpatia per quell’orso orgoglioso, il quale non solo non faceva nulla per guadagnarsela, ma aveva l’aria di far di tutto per suscitare il sentimento contrario. Era perché la tristezza, quand’è congiunta alla bellezza e alla forza, seduce, come indizio d’un nobile disprezzo per le facili soddisfazioni che possono dar l’una o l’altra; oltre di che da tutta la persona di lui, e da quel lume profondo degli occhi, che vien diritto dall’anima, traspariva la virtù che è più a ammirata e più temuta nel mondo, il coraggio. Per me, quanto più mi scansava, e tanto più desideravo di conoscerlo. Provavo per lui quel sentimento di benevolenza, nato dalla stima o dalla soggezione, che rende intollerabile la noncuranza di chi n’è l’oggetto, e che vi farebbe discendere ad un atto d’umiltà per superarla. E questo sentimento si fa vivissimo a bordo, dove è ridestato ad ogni tratto dalla presenza continua della persona, e dove la indifferenza che essa ci dimostra può esser facilmente notata dagli altri, e svilirci nel concetto loro. Lui assente, cercavo di persuadermi che l’animo suo e la sua vita non dovessero corrispondere al suo aspetto e alla mia immaginazione, e che, se l’avessi conosciuto addentro, egli non avrebbe fatto che aggiungere una delusione a quell’altre mille di cui è tessuta la storia delle nostre amicizie. Ma quando lo vedevo, era inutile, avrei giurato che quell’uomo non aveva mai commesso un’azione ignobile, che disprezzava sinceramente ogni vanità umana e che anche allora avrebbe dato la vita, subito e senza un pensiero d’ambizione, per un’idea generosa. Subivo la sua superiorità come una forza magnetica, e mentre ne sentivo un certo tento e quasi un’umiliazione, mi pareva che avrei provato un sollievo a lasciarglielo intendere, e anche a confessarglielo chiaramente. Ma il suo viso era una porta murata per tutti.
E pareva indifferente pure ai grandi spettacoli della natura. Io non gli vidi passare nemmeno un lampo sul viso, quella sera, davanti al tramonto più splendido e più strano che si fosse visto dopo che eravamo entrati nella zona torrida. Il cielo s’era rasserenato a oriente e a occidente, e il sole che stava per tuffarsi nel mare di bragia, enorme, come se si fosse ravvicinato alla terra di milioni di leghe, era attraversato nel mezzo da una striscia di nuvola sottilissima e nera, terminante di qua e di là al contorno del disco, in modo che il globo pareva spaccato in due emisferi paralleli, ma così nettamente e durevolmente, da dar l’illusione d’un prodigio. E nello stesso tempo si stendevano per aria, a un’altezza smisurata, otto meravigliosi raggi d’una luce come velata, ma di colori vaghissimi, che passarono lentamente per varie sfumature, dal bianco al rosa, al verdechiaro, e perdurarono dopo che il disco era sparito, coprendo un terzo quasi della vòlta del cielo, come un’immensa mano luminosa che volesse afferrare la terra. Ma ci maravigliammo assai di più quando, a un cenno del comandante. voltandoci, vedemmo altri otto raggi sterminati dalla parte opposta, riflesso dei primi, meno luminosi, ma sfumati delle stesse tinte, che parevano l’albore d’un sole sconosciuto che sorgesse dalle acque, appena l’altro s’era nascosto. E il mare luccicava di tutti i colori del cielo, che pareva vi galleggiassero miliardi di perle.
Quell’animale d’un avvocato, — egli solo, — non guardava nulla; anzi voltava le spalle al tramonto, e non alzava il viso verso il riflesso, come per far dispetto alla natura: per lui il sole che discendeva nel mare era un sole odioso, per riverbero della cattiva compagnia che frequentava. In mezzo al silenzio ammirativo di tutti, egli si lamentava stizzosamente col Secondo della trascuranza cri-mi-no-sa delle società di navigazione, che non si tenevano al corrente dei progressi dell’arte del salvataggio. Ottanta su cento dei naufraghi, diceva, s’annegano, crepano, per colpa di chi li imbarca. Perchè le società non mettevano sui piroscafi il numero prescritto di salvavite? Perchè non ci avevano che dieci lance, che bastavano appena a salvare un quarto dei passeggeri? Perchè non esercitavano i marinai a costrurre in pochi minuti delle zattere di salvamento? Perchè non avevano delle pompe Gwyn? Perchè non adottavano il doppio ponte del capitano Hurst? Perchè non si provvedevano di life-boats del Peake e di sgabelli nautici del Thompson? Eran loro, le società di navigazione, che affogavano migliaia di galantuomini, e che facevano crepar di fame gli inventori, accogliendo con una scrollata di spalle, deridendo, per avarizia, tutte le proposte di nuovi mezzi per salvare la pre-zio-sa vita dell’uomo!
Quel piccolo barbone spaurito avea una erudizione sbalorditoia nella materia, era un vero scienziato della spaghite. L’agente di cambio, che sapeva tutto, mi manifestò un suo sospetto: che il pover uomo avesse nel camerino un apparecchio di salvataggio straordinario e voluminoso, parecchi forse, tenuti nascosti con gran cura in un cassone segreto, che nessun cameriere aveva mai visto aperto. E diceva anzi che, essendo stato respinto bruscamente una mattina ch’era andato per fargli visita, sospettava che egli stesse provando in quel momento qualche spettacoloso vestiario di guttaperca.
— Sono gli armatori. — continuava intanto l’avvocato, accalorandosi,— che ci mandano in pasto ai pesci-cani. Il codice marittimo è una canzonatura. Ci dovrebbe essere una legge applicata sul serio, che li mandasse a marcire in galera.
Il Secondo ribatteva, ed egli rincalzava con maggior calore, tanto che a poco a poco gli si aggrupparono intorno parecchi, per prendersi spasso di quella battisóffiola morbosa, che la notte calante aggravava.
Ma la conversazione fu troncata improvvisamente dal grido d’un passeggiero di terza, sul castello centrale: — Il mare in fuoco!
Tutti si voltarono verso il mare. Il piroscafo correva in fatti in un mare acceso, facendo schizzare lungo i suoi fianchi zampilli di topazi e di diamanti e lasciando dietro di sè una striscia di fosforo liquido, una strada coperta d’oro bollente, che pareva uscisse dalla sua poppa, come da una miniera in combustione. In alcuni punti era oro, in altri argento; lo spazio luminoso si stendeva a una grande distanza, digradando in una mite chiarezza bianca, che faceva pensare a quello che gli Olandesi chiamano mare di latte o di neve, veduto già da molti navigatori nel Pacifico, nel golfo di Bengala e nell’arcipelago delle Molucche. Ma vicino a noi l’acqua ardeva e viveva, era una bellezza, un inseguirsi e un incrociarsi di fuochi fatui, un tremolio infinito di stelle e di piccoli soli, che si avvicinavano al piroscafo e balzavano lontano, e s’alzavano e s’abbassavano, senza nascondersi, dando alle onde una trasparenza splendida, come d’un mare illuminato di sotto in su dagli astri favolosi di Plutone e di Proserpina, raggianti nell’interno del globo. Si capiva bene allora come i naviganti antichi che vedevano per la prima volta quel mare risplendente ne avessero turbata la ragione. Non se ne poteva staccare lo sguardo: abbagliava, attirava come se portasse a galla tutte le ricchezze dell’universo, metteva voglia di tuffarvi la mano per pigliare una pugnata di gemme, di cacciarvisi dentro per uscirne sfolgoranti come monarchi orientali. Provavamo tutti il bisogno di trovare paragoni fantastici e di dire bizzarrie, sguazzando con l’immaginazione in quell’immensità di tesori ondeggianti, che ci scintillavano intorno come una tentazione e uno scherno. E l'ammirazione crebbe ancora quando, dopo un’ora di quella vista, comparve un branco di delfini, che si misero a guizzare e a saltare in quel fuoco, accompagnando il piroscafo, come per unire la propria alla nostra allegrezza. Allora fu un turbinio di faville, una festa di spume e di spruzzi infiammati, una danza di costellazioni, una follia di splendori che fece prorompere i passeggieri di terza classe in grida acute, in strilli di gioia come una folla di ragazzi.
Il solo malcontento fu il marito della svizzera, che vedemmo comparire sul cassero brontolando. con la faccia rossa e indispettita. Ma, dio buono, se l’era cercata. Era andato sul castello centrale, in mezzo a un crocchio di contadini, a spiegare che quella fosforescenza delle acque era prodotta da una quantità di animaletti microscopici, chiamati con non so che nome dell’altro mondo, o in altri termini, che tutte quelle scintille erano bestie. Questa volta, per verità, l’aveva sballata troppo grossa, ed era stata accolta con una clamorosa risata.
Ma già un nuovo spettacolo attirava l’attenzione di tutti. Essendosi schiarito il cielo da ogni parte, si vedevano per la prima volta all'orizzonte le quattro bellissime stelle della croce del Sud, sconosciute
al settentrïonal vedovo sito. |