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IL MORTO
Ancora cinque giorni! Era l’esclamazione di tutti quella mattina, e parevan più lunghi i cinque giorni che restavano dei diciassette ch’eran passati. Perchè è da osservare che, in virtù di non so che legge d’inerzia psichica, il lento accrescersi del tedio e della stanchezza generale proseguiva, latente, anche negli intervalli di tempo sereno e di buon umore; cessati i quali, ciascuno si risentiva l’odioso carico aggravato a proporzione del tempo trascorso, senza il più piccolo ammanco di peso, come se si fosse sempre seccato. E quel diciottesimo giorno prometteva male. Delle nuvole nere e grigie facevano una volta schiacciata sopra il mare, il quale in una parte aveva color d’olio sbattuto, in un’altra pareva di cenere immollata, e qua e là, d’un bitume nerastro, che gonfiava e risedeva, come la pegola della bolgia dei barattieri. A prua e a poppa si formavano molti capannelli e circolava una notizia: nella notte era morto il vecchio contadino piemontese, malato di polmonite: l’atto di morte era stato steso e firmato da due testimoni, la mattina all’alba, nella camera nautica, dopo la verificazione dovuta del medico. Quell’avvenimento, benchè si sapesse che in quei lunghi viaggi, fra tanta gente, non era raro, destava una tristezza inquieta, come se fosse una minaccia per tutti. Il medico fu fermato sulla “piazzetta„ dalle signore, che volevan sapere, e con la sua faccia placida di Nicotera ammansito, raccontò. Era stata una scena dolorosa. Il vecchio, prima di morire, aveva voluto rivedere la signorina di Mestre, per rimetterle i suoi pochi soldi e le carte, che le facesse recapitare al suo figliolo. Ma aveva avuto un’agonia disperata. Il prete non era riuscito a fargli accettar la morte con rassegnazione. Negli sguardi che girava sugli astanti, e intorno, su quello strano ospedale, si vedeva un’angoscia immensa, uno sgomento di fanciullo di dover morir là, in mezzo all’oceano, e di non aver sepoltura; e si afferrava con tutt’e due le mani al braccio della signorina, non dicendo più che: — Oh me fleul! Oh me pover fleul! — e scotendo il capo in atto di desolazione infinita. Morto, era rimasto col viso contratto in un’espressione di spavento, e ancora inondato di lagrime. La signorina, l’avevan dovuta quasi portare in coperta, e a stento s’era potuta trascinare fino a poppa.
Andai a prua. V’era l’agitazione che si vede la mattina in una piazza, dove sia stato commesso un delitto la notte: un aggrupparsi e un chiacchierar fitto e sommesso di donne, che mostravan sotto la maschera della tristezza il piacere d’aver un fatto straordinario da commentare, e quello che si prova sempre all’annunzio d’una morte: un sentimento più acuto e gradevole della vita. Discorrevano della sepoltura: quando si sarebbe fatta, in che modo; da che parte l’avrebbero gettato fuori, e se coi piedi avanti o con la testa. E facevano le supposizioni più strambe: che sarebbe stato buttato giù nudo, con una palla da cannone legata al collo; che l’avrebbero abbandonato al mare chiuso in una cassa incatramata, per preservarlo dai pesci, com’era prescritto dalla legge. Alcune dicevano che s’eran già visti avvicinarsi al bastimento dei pescicani, attirati dall’odor del cadavere; e parecchie guardavano in mare, per vedere. Molta gente s’accalcava alla porta dell’infermeria, per scendere a visitare il morto; ma un marinaio, messo là di guardia, impediva il passo. Intanto sul castello di prua, in mezzo al cerchio solito, il vecchio dal gabbano verde faceva un’orazione imprecatoria agitando l’indice in alto: — Uno di meno! Andiamo avanti. La carne dei poveri si butta ai pesci. Quello lì, per esempio; era già condannato dal primo giorno. Sfido io, non lo nutrivano! — Diceva che invece di buon brodo gli mandavano della lavatura di piatti e che l’avevan lasciato morire senza un cuscino sotto il capo. E si riseppe la sera dai soffioni ch’egli insinuava anche il sospetto che non fosse quello il primo morto durante il viaggio; ma che gli altri li avessero saputi tener nascosti, e poi scaricati in mare nel cuore della notte, dal cassero di poppa. — Ma ha da venire — disse a voce alta — il giorno del giudizio! — E lui e i suoi uditori mi fulminarono delle occhiate, che mi fecero rinunziare a sentir altro. Andai a chiedere notizie del piccolo Galileo.
Trovai sull’uscio del camerino di seconda il padre, seduto sopra una valigia, con uno dei gemelli fra le ginocchia, e la pipa in bocca. — El fantolin sta ben —, mi disse, con la sua solita faccia ridente. E poi, strizzando gli occhi verso il vecchio del castello di prua, di cui arrivava la voce fin là, mi disse a bassa voce: — Ghe xè dele teste calde.
Poi soggiunse: — Per mi, dal momento che se va sul mondo novo, cossa ne importa a deventar mati perchè va mal le façende nel mondo vecio?
Questa domanda era come una tastata ch’egli mi dava per vedere s’io fossi un signore intrattabile, o uno di quelli con cui si può ragionare. Ma senza ch’io rispondessi altro che con un cenno del capo, mi parve che il mio viso gl’inspirasse fiducia, perchè, facendo un salto, disse francamente:
— Per conto mio de mi, mi scusi, un torto che hanno i signori è di sparpagnar tante fandonie sull’America, e che muoion tutti di fame, e che tornati più disparai di prima, e che c’è la peste, e che i governi di là son tutti spotiçi e traditori, e cussì via. Cosa succede allora? Succede che quando poi arriva una lettera d’uno di laggiù che fa saper che sta bene e che el fa bessi, allora non si crede più niente di quello che i siori dicono, neanche quello che è vero, e sospettano che sia tutto un inganno, e che anzi sia vero tutto il contrario, e i parte a mile a la volta.
Gli dissi che aveva ragione e che se non si fosse detto altro che la verità, forse ne sarebbero partiti meno. — E voi andate con buona speranza? — domandai.
— Mi? — rispose. — Mi razono in sta maniera. Di peggio di come stavo non mi può capitare. Tutt’al più mi toccherà di patir la fame laggiù come la pativo a casa. Dighio ben?
Poi ricaricando la pipa, continuò:
— I ga un bel dir: No emigré, no emigré. Mi faceva ridar il cavalier Careti (chi sarà stato questo cavalier Careti?): voi fate male, voi fate male. Mi diceva che ogni emigrante che parte porta via al paese un capitale di quattrocento franchi. Tu vai a consumare e a produr fuori, tu fai un danno al tuo paese. Cossa ghe par a lù de sta maniera de razonar, la me diga? Mi diceva anche che avevo torto di lamentarmi delle tasse perchè più che le tasse son forti, tanto più il contadino lavora, e così tanto più produce. Piavolae, la me scusa, diga mi. Io non so niente di queste cose, gli rispondevo. Mi so che me copo a lavorar, e che no cavo gnanca da viver, mi e mia muger. Mi emigro per magnar. Lù me consegiava de spetar, che i gh’avaria bonificà la Sardegna e la maremma, e messo a man a l’agro romano, che i gavaria verto i forni conomiçi e le banche, e che el governo gera a drio a megiorar l’agricoltura. Ma se intanto mi no magno! Oh crose de din e de dia! Come se ga da far a spetar co’ no se magna?
Incoraggiato dal mio consenso, allargò il campo del discorso, e cominciò a metter fuori quelle idee generali, che ogni uomo del popolo d’oggi ha più o meno confuse nel capo, intorno alle cause del malo andamento delle cose: si spende tutto a mantener soldati, milioni a mucchi in cannoni e in bastimenti, e quindi zo tasse, e alla povera gente nessuno ci pensa: le cose solite; ma che non paiono mai tanto vere e tristi come quando si senton dire da uno, che ne esperimenta gli effetti nella miseria propria, e a cui nessuna consolazione si può dare, neppur di parole. E giusto io pensavo, mentre egli mi diceva che dopo una giornata di fatiche non trovava sulla tavola che una zuppa di brodo di cipolle, e che la notte si svegliava per l’appetito, ma non si aresegava a mangiare per non scemare il pane ai figliuoli, che già l’avevano scarso, pensavo a che cosa m’avrebbero servito tutte le alte ragioni, che mi s’affacciavano alla mente, di necessità storiche, di sacrifizio del presente all’avvenire e di dignità nazionale. La società, che in nome di queste cose gli chiedeva tanti sacrifizi, non gli aveva neppure insegnato a comprenderle, e mi sarebbe parso, dicendogliele, d’insultare la sua miseria. E lo stavo a sentire con quell’aspetto quasi vergognato col quale tutti oramai ascoltiamo le querele delle classi povere, compresi del sentimento d’una grande ingiustizia, alla quale non troviamo riparo nemmeno nell’immaginazione, ma di cui tutti, vagamente, ci sentiamo rimorder la coscienza, come d’una colpa ereditata.
— Ah no! — disse scrollando il capo. — Come che xè el mondo adesso, la xè una roba che no pol durar. La ghe va massa mal a tropa zente. — E mi parlò delle miserie che si vedeva intorno, delle storie compassionevoli che sentiva a prua, appetto alle quali gli pareva ancora di essere dei meno sfortunati. Ce n’eran di quelli che non avevan più mangiato un pezzo di carne da anni, che da anni non portavan più camicia fuor che i giorni di festa, che non avevan mai posato le ossa sopra un letto, e pure avevan sempre lavorato con l’arco della schiena. Ce n’era che, fatte le spese del viaggio, sarebbero arrivati in America con due scudi in tasca, e che ogni giorno mettevano da parte in una sacca un poco di galletta, per aver qualche cosa da rodere a terra, e non dover chieder l’elemosina, quando non avessero trovato lavoro nei primi giorni. Ne conosceva più d’uno, che per non arrivare in America scalzo, teneva legato intorno ai piedi con un filo di spago quell’unico paio di scarpe in pezzi che gli rimaneva, e ci metteva la testa sopra di notte, per paura che gliele portassero via.
— E la senta — soggiunse — ghe xè de quelli che i gh’ha fato tanto cativa vita, che i xè partii tropo tardi, e i va in America a farse soterar. — E m’indicò un contadino sui quarant’anni, seduto poco discosto da lui, col capo scoperto e grondante di sudore, chinato nelle mani scarne, che gli tremavano. Aveva una febbraccia che non lo lasciava mai, presa nelle risaie, e non reggeva più nulla sullo stomaco. Una notte (ma non doveva risaperlo nessuno) egli l’aveva afferrato, che si voleva buttare in mare, e sporgeva giù con tutto il busto di fuori; e dopo d’allora sua moglie non lo perdeva più d’occhio: una disgraziata che faceva più compassione di lui.— La varda ela, che robète! — (Guardi lei, che cose!) E diceva tutto questo con tristezza, ma senza acrimonia, non per ossequio a me, ma per quella coscienza confusa, comune a molti tra ’l popolo, e derivata in parte dall’idea religiosa, in parte da intuizione propria, che la miseria del maggior numero sia più che altro effetto d’una legge del mondo, come la morte e il dolore, una condizione necessaria dell’esistenza del genere umano, che nessun ordinamento sociale potrebbe radicalmente mutare.
— Basta — , concluse, rimettendo la pipa in tasca, e posando le mani sul capo del suo bambino — , che il Signore me la mandi buona. Se in America trovassi almeno la brava zente che ho trovato qui a bordo! Perchè senta, sior paron, se quella povera putela inferma non va in paradiso vuol dire che non ci lasciano entrar più nessuno. Lei fa portar le minestrine alle donne da late, lei dà bessi ai poveri, lei regala biancheria a chi non ne ha, lei è la benedizione di tutti. Ma co’ ghe digo mi che el mondo va mal. Un anzolo compagno, ghe tocarà morir zovene. Vegno, ciaccolona! — gridò verso il camerino. — Con parmeso, paron. Mia muger me ciama. La se varda, che a momenti se verze le catarate! — Tutt’ad un tratto, infatti, venne giù dal cielo grigio un rovescio di goccioloni come chicchi d’uva, e subito dopo una pioggia scrosciante fittissima, che coperse tutto d’un velo, come se il piroscafo fosse entrato dentro a una nuvola. Un’onda di passeggieri irruppe urlando nel passaggio coperto dov’io mi trovavo, e respingendomi indietro d’una decina di passi, mi avvolse e mi imprigionò lì al buio, in uno stretto cerchio di giacchette inzuppate, in mezzo a un odore acuto di povera gente. E lì seguì una scena da raccontarsi. Erano appena scorsi dieci minuti, che da un ondeggiamento della folla serrata, e da uno scoppio di risa e di fischi, mi accorsi che s’era attaccata una rissa; e, alzandomi in punta di piedi, vidi una mano per aria che cadeva con movimento rapido e regolare, come un maglio, sopra una nuca invisibile. — Chi è? Cos’è? — Tutti vociavano, non si capiva nulla; due marinai accorsero; sopraggiunso il Commissario, i litiganti furono spartiti e condotti via, tra le urlate. Immaginando che andassero alla “pretura„ ci corsi anch’ io, pigliando per le cucine di terza classe, e arrivato là nel momento che entravano, fui molto maravigliato al vedere che i due arrestati erano il padre della genovese, sbuffante di collera, e lo scrivanello di Modena, smorto, senza cappello, con una faccia che era una vera quietanza di scapaccioni. Un corteo di facce sghignazzanti li seguitava. Gli arrestati entrarono nel camerino del Commissario; il corteo s’affollò davanti all’uscio.
Era accaduto questo. Scoppiato l’acquazzone, lo scrivano s’era gittato con gli altri nel passaggio coperto, ed era rimasto chiuso egli pure nella calca, come un’acciuga in un barile. Ma per fortuna insieme e per disgrazia, s’era dato il caso che, proprio davanti a lui, con le trecce contro al suo viso, con la schiena contro al suo petto, si trovasse imprigionata nella folla la ragazza genovese, e dietro di lui, non veduto, l’altro, ahimè! lo suocero dei suoi sogni. Il povero giovane, innamorato morto da diciassette giorni, inebbriato dal profumo, bruciato dal contatto, tentato dall’oscurità, aveva perso il lume della ragione, e s’era messo a inchiodar baci su baci sul collo e sulle spalle del suo idolo, con tal furia, con tale forsennatezza d’amore, che non aveva neppure sentito la prima scarica delle vigorosissime pacche paterne. Alla seconda era rientrato in sè, come chi rinviene da un delirio, e s’era creduto spacciato. Il giudizio fu una scena di commedia impagabile.
Il padre, fuori dei gangheri, inveiva ancora: — Mascarson! Faccia de galea! Porco d’un ase! Te veuggio rompe o müro! - E allungava le mani per acciuffarlo.
L’altro metteva pietà, non negava nulla, diceva d’aver perso la testa, domandava scusa, affermava di essere un giovane onesto, voleva mostrare una lettera del sindaco del suo paese, (Chiozzola, mi pare) e si pigliava la testa fra le mani, piangendo come un castoro, facendo degli atti di disperazione da Massinelli in vacanza. — Ma se dico che ho perso la testa... son stato una bestia... giuro sul mio onore... non avevo l’intenzione... sono pronto a dare il mio sangue... — E sotto al suo dolore sincero e alla vergogna, traspariva la forza della passione non ignobile che gli aveva fatto far lo sproposito, uno di quei violenti amori che divampano nei mingherlini, come fiammate di gas dentro agli scartocci di vetro.
Ma il padre non si lasciava commovere, sdegnato anche più, e come offeso nell’orgoglio paterno, che un tale atto d’audacia fosse stato commesso da un così meschino personaggio, da quel mezz’uomo che reggeva l’anima coi denti, e che poi s’avviliva a quel modo. E continuava a gridare: - Bruttò! Strason che no’ sei atro! A mae figgia! E ghe vêu da faccia! — E Voleva picchiare daccapo.
E allora quello allargava le braccia, sconsolato, in atto di dire: — Son qui, fate di me quel che volete. — E poi tornava a giurare che era un galantuomo, a domandar scusa, a offrire la lettera del sindaco.
Il Commissario era molto imbarazzato a concludere. Io gli vidi passar negli occhi un sorriso che doveva rispondere alla tentazione teatrale di proporre un matrimonio. Ma il padre non aveva l’aria di accettare uno scherzo. In fine, se la cavò facendo una grande intemerata al giovane sul rispetto dovuto alle donne, e ordinandogli di non lasciarsi vedere per un po’ di tempo sopra coperta; e raccomandò all’altro di quetarsi, chè la cosa non intaccava punto la reputazione della sua figliuola, che era stimata da tutti, e via dicendo. Poi li mise fuori tutti e due, pregando il padre di tornare a prua per il primo. Questi s’allontanò, voltandosi ancora indietro a minacciar con la mano, e a lanciar due o tre aggettivi genovesi, assortiti. Il giovane, rimasto solo davanti al Commissario, si mise una mano sul petto, e disse con accento drmmatico: — Creda. signor Commissario... parola di giovine d’onore... è stata una disgrazia... un momento di... — Ma qui l’amore gli gonfiò il petto e gli strozzò la voce, e alzando gli occhi al cielo, con un’espressione comica, ma sincerissima, che riassumeva tutta la storia della sua passione oceanina, esclamò: — ...Se sapesse! — Ma non potè dir altro, e se n’andò a capo basso, con la sua freccia a traverso al cuore.
La figura di quel povero innamorato che s’allontanava per il passaggio coperto, rimase legata nella mia memoria a un aspetto nuovo del mare e del cielo, che s’erano schiariti dopo l’acquazzone: il cielo tutto a grandi squarci d’un sereno purissimo, come lavato e rinfrescato, e corso da nuvole inquiete; il mare verde per vasti spazi, fra i quali si stendevano larghe strisce d’un azzurro cupo; in modo che pareva di vedere una prateria immensa, dove s’intersecassero canali smisurati, colmi fino agli orli; e si aveva l’illusione strana d’essere entrati in un continente metà terra e metà acqua, abbandonato dagli abitanti sotto la imminenza d’una inondazione, e veniva fatto di cercar cogli occhi all’orizzonte le punte dei campanili e delle torri, come nelle grandi pianure dell’Olanda. E poi, essendosi increspate alquanto le acque, che diedero a quel verde l’aspetto d’una vegetazione più forte, l’illusione mutò, e mi venne alla mente quell’amplo spazio d’oceano, coperto d’un fitto tappeto d’alghe, di fuchi natanti e di traghi del tropico, che impigliò per venti giorni le navi e spaventò i marinai di Colombo. Alcuni uccelli bianchi rigavano il cielo, lontano; il sole faceva scintillare qua e là come delle isolette coperte di smeraldi, e nell’aria spirava un tepore di primavera, in cui pareva di sentire delle fragranze terrestri, che parlavano all’anima, come un’eco di voci lontanissime, portate dai venti della pampa.
Ma il mar verde e l’episodio dell’innamorato non schiarirono che per pochi minuti la faccia scura che aveva quel giorno il 'Galileo. Solamente la signora bionda trillava d’allegrezza sul cassero, passeggiando a braccetto a suo marito, che andava accarezzando con la voce, con lo sguardo e col ventaglio, come una sposa di sette giorni, forse per compensarlo di qualche grave iattura che gli preparava per più tardi, e di cui le luccicava il pensiero nell’azzurro delle pupille infantili; mentre lui, al solito, arrotondava la schiena, e facea con gli occhi socchiusi e la punta della lingua quel leggerissimo sorriso canzonatorio per sè, per lei, per gli altri, per l’universo, che era come la smorfia simbolica della sua quieta filosofia. Su tutti gli altri pareva che gittasse un’ombra di tristezza il pensiero di quel morto che s’aveva a bordo, e che si doveva buttare in mare la notte; e tutti gli occhi si volgevano ogni tanto a prua, inquieti, come se tutti avessero temuto di vederlo apparir da un momento all’altro, resuscitato, per maledire alla sua spaventevole sepoltura. Ed era l’argomento di tutti i discorsi, i quali si facevan gradatamente più neri, come se via via che cresceva l’oscurità, quel corpo si allungasse, e dovesse a notte fitta arrivare coi piedi fino a poppa, a urtare negli usci dei camerini. E il pranzo fu poco allegro. S’impegnò tra il comandante e il vecchio chileno una discussione lugubre su questo soggetto: se il cadavere buttato in mare con un peso ai piedi, sarebbe arrivato al fondo intero; o se per effetto della pressione enorme delle acque disfacendosi e staccandosi i tessuti, non sarebbe arrivato che lo scheletro. 11 comandante era del secondo parere. Il chileno, invece, sosteneva il contrario, dicendo che la pressione della massa d’acqua soprastante essendo trasmessa da quella che impregnava il corpo, in maniera da esser sentita in tutte le direzioni e oppostamente in tutti i punti, ne seguiva che il corpo avrebbe dovuto scendere illeso. Poi, accordandosi sulla velocità iniziale, sull’aumento di velocità nella discesa e sulla profondità massima dell’Atlantico, calcolarono che il cadavere avrebbe impiegato un’ora a compiere il suo viaggio verticale. — Adagio, però, — disse il chileno, — il cadavere può trovar delle correnti che lo risospingano in su ad una grande altezza. A quest’immagine del cadavere che tornava in su, m’accorsi che il mio vicino avvocato cominciava a fremere. Nondimeno stette fermo lì, coraggiosamente. Ma il genovese ebbe la cattiva ispirazione di riferire la descrizione, letta in un giornale di New-York, della discesa d’un palombaro, il quale aveva trovato dentro alla carcassa d’un piroscafo andato a picco i cadaveri dei naufraghi mostruosamente gonfiati, ritti nell’acqua, con gli occhi fuor della fronte e con le labbra cadenti, così orrendi a vedersi al lume della lampada, che gli s’era agghiacciato il sangue nel cuore ed egli avea preso la fuga come un pazzo; e a quell’uscita l’avvocato non potè più reggere: balzò in piedi, e sbattendo la forchetta sul piatto: — Un po’ di riguardo, signori! — esclamò, e prese l’uscio. Il comandante, stizzito di quella scena, non parlò più, e il desinare finì nel silenzio. Ma al momento di alzarci, il genovese mi s’avvicinò col viso allegro, e mi disse all’orecchio: — È per mezzanotte!
La sepoltura era stata fissata segretamente per mezzanotte, per evitare un affollamento dei passeggieri di terza, fra i quali il Commissario aveva fatto correre la voce che sarebbe stata alle quattro della mattina.
A mezzanotte, il tempo s’era rioscurato, e non rimaneva che una lunga e sottilissima striscia chiara all’orizzonte d’occidente, come uno spiraglio lasciato aperto dalla immensa cappa nera del cielo, prima di chiudersi sul globo, per fare buio fitto: un mar d’inchiostro, l’aria morta. Se non eran quei pochi fanali sopra coperta, si sarebbe dovuto camminare a tentoni, come nella stiva.
Andando verso prua, sentii nell’oscurità la voce del marsigliese che parlava con accento enfatico della poesia d’esser sepolti nell’oceano, d’andar a dormire in quella solitudine infinita, e diceva: — J’aimerais ça, moi! — Alcuni passeggieri uscivano dal dormitorio di terza, in silenzio, guardandosi intorno. Sotto il passaggio coperto raggiunsi il prete napoletano, in cotta e stola, che andava a passi lunghi e lenti, preceduto da un marinaio, che portava l’acqua benedetta in una scodella.
A prua, vicino al dormitorio delle donne, trovai un crocchio, rischiarato di sotto in su da una lanterna, che teneva il gobbo: v’erano il comandante e il Commissario, con pochi passeggieri di prima; più in là qualche marinaio; una ventina di emigranti stavano accanto all’osteria, come rimpiattati, e qualche figura appariva confusamente sul castello di prua. Quando il prete arrivò, tutti si mossero, come per disporsi in semicerchio, e in disparte comparve il viso di cera del frate. Nello stesso momento sentii un fruscio dietro di me, e voltandomi, vidi la signorina di Mestre e la zia, che si arrestarono sotto il palco di comando, all’oscuro.
Credendo che, secondo l’uso, si gettasse il cadavere dalla punta del castello di prua, non comprendevo perchè tutti restassero lì; quando a un cenno del comandante due marinai apersero lo sportello laterale dell’opera morta, e compresi.
Intanto pareva che il piroscafo andasse rallentando il cammino; dopo pochi minuti, con mio stupore, si fermò. Non sapevo che si buttassero fuori i cadaveri a bastimento fermo per evitare che il risucchio dell’acque rotte li travolga sotto alla ruota dell’elice.
Allora tutti tacquero, e vidi al lume della lanterna il viso rosso e insonnito del comandante, che pareva irritato di dover assistere a quella cerimonia, e teneva gli occhi fissi sopra una lunga asse distesa ai suoi piedi, davanti all’apertura dello sportello.
S’intese una voce, tutti si voltarono; brillò un lume sotto il castello di prua, e subito dopo si videro uscire dalla porta dell’infermeria tre marinai che portavano una cosa informe, come un letto spezzato.
Tutti fecero largo, quelli vennero innanzi e fecero l’atto di deporre il carico sull’asse. Ma s’eran messi di traverso.
Il Comandante disse a voce bassa: — Per drito, brüttoi.
Ci si misero meglio, e deposero adagio il cadavere, coi piedi rivolti verso il mare: le grosse spranghe di ferro che gli avevano attaccato ai piedi picchiarono sonoramente sul tavolato.
Il morto era stato ravvolto in un lenzuolo bianco, cucito a modo d’un sacco, che gli copriva il capo, e poi disteso sulla sua materassa ripiegata in su dai due lati, e legata tutt’in giro con una corda: le spranghe sporgevano fuori dell’ involto. Il tutto presentava l’aspetto miserando d’una balla di mercanzia, affastellata in furia per uno sgombero. Il corpo pareva così rimpiccolito e accorciato, che j’avrei creduto d’un ragazzo. Da una scucitura del lenzuolo, in fondo, sporgevano le dita nude d’un piede. Il naso adunco e il mento, che facevan punta sotto la tela, mi ricordarono l’espressione di attenzione premurosa con cui quell’infelice aveva cercato l’indirizzo del figliuolo, la prima volta che l’avevo visto nella sua cuccetta. E forse il figliuolo dormiva a quell’ora in qualche baracca di legno, vicino alla sua strada ferrata, e sognava con piacere che avrebbe riveduto tra pochi giorni il suo povero vecchio. Tutti tenevan gli occhi fissi sulla forma di quel viso, come se avessero aspettato di vederla muovere. Il silenzio e la quiete d’ogni cosa intorno erano così profondi e solenni, che ci pareva d’esser noi soli viventi nel mondo.
— A lei, reverendo! — disse il comandante.
Il prete si fece vicino allo sportello, e tuffata la mano nella scodella del marinaio, asperse il cadavere e diede la benedizione.
Tutti intorno si scoprirono, alcuni passeggieri di terza si misero in ginocchio. Mi voltai indietro: s’era inginocchiata anche la signorina, col viso tra le mani, nell’ombra.
Il prete incominciò a recitare in fretta: — De profundis clamavi ad te, Domine; exaudi voce meam.
Molte voci risposero: — Amen.
Le due lanterne tenute dai marinai gettavano una luce rossiccia sui visi immobili e tristi, dietro ai quali era una tenebra infinita. Fra gli altri, vidi in seconda fila il garibaldino, e fui come ferito di trovar quel viso chiuso e duro come sempre, che non mostrava il più leggiero senso di pietà, come se si stesse per gittar nel mare un sacco di zavorra; e tornai a domandarmi come fosse possibile che l’amicizia di quella santa creatura inginocchiata là dietro non avesse potuto nulla ancora sull’animo suo; e provai vergogna d’essermi ancora una volta così puerilmente ingannato, immaginando che vi fosse una grand’anima nel petto di quell’uomo senza cuore.
Il prete mormorò con rapidità crescente gli altri versetti del De profundis e l’oremus absolve. Poi asperse un’altra volta il morto d’acqua benedetta. Al requiem æternam tutti s’alzarono,
— Andemmo, — disse il comandante, Due marinai, presa l’asse alle due estremità, la sollevarono lentamente, e la posarono sull’orlo del piroscafo, spingendola un poco innanzi, in modo che sporgesse fuori d’un quarto.
Nell’atto che l’alzavano, vidi muovere qualche cosa di nero sul petto del morto, e avvicinandomi. riconobbi la croce nera della signorina.
Le lanterne s’alzarono.
I due marinai afferrarono l’asse dalla parte del capo, e presero a sollevarla dolcemente: il corpo cominciò a scorrere....
In quel punto mi suonarono dentro quelle parole desolate del moribondo, come se fossero gridate a voce altissima, con un grido immenso che coprisse l’oceano: — Oh me fieul! Oh me pover fieul!
II corpo scivolò, disparve nelle tenebre, fece un tonfo profondo. Allora i marinai chiusero in fretta lo sportello e tutti sparirono di qua e di là, come ombre. Prima che fossimo rientrati a poppa, il piroscafo aveva ripreso il cammino, e il povero vecchio proseguiva già assai lontano da noi la sua discesa solitaria verso l’abisso.