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L’AMERICA
Che piacevole risvegliarsi! Quelle parole “oggi sentiremo la terra sotto i piedi„ nelle quali s’esprimeva il pensiero di tutti, avevan per noi come un suono e una forza nuovi, e si provava a ripeterle una specie di piacer fisico, come quello che si sente stringendo il braccio intorno a una colonna di granito. Oltre che per l’altre ragioni, si desiderava impazientemente d’arrivare anche per questa, che, in fine d’una lunga navigazione, s’è stanchi irritati da non poterne più di quella perpetua danza di linee, di quel continuo accorciarsi, piegarsi e ritorcersi a cui s’è costretti dall’angustia d’ogni cosa, e da quell’eterno odor di salsedine, di catrame e di legno. Che allegrezza sarà riveder le strade, fiutar l’odore della campagna, e coricarsi fra quattro muri verticali, non sentendo più che la casa che ci ricetta ha un palpito di vita propria, da cui dipende la nostra! Per caso, s’era passati a notte fitta davanti alle isole Canarie e a quelle del Capo Verde, e per la stessa ragione non s’era vista nemmeno quella piccola isola di Fernando de Noronha, del Brasile, che desideravano tutti per veder rotta almeno un momento la monotonia di quell'interminabile mare. Non un palmo di terra dallo stretto in poi, in diciotto giorni. Mi pareva che se ne avessi avuto una zolla nelle mani l’avrei rivoltata e odorata con piacere, come un frutto proibito. Infine, tra poche ore ne avremmo avuto da saziarsi: due pezzi di trentotto milioni di chilometri quadrati, in forma di due belle pere allungate, equivalenti ciascuna a una settantina di Italie.
Siccome si credeva d’arrivare a Montevideo di pieno giorno, così, fin dalla mattina all’alba, cominciò fra gli emigranti un lavoro di ripulitura generale, affrettato e rude, chè volevano salvare al possibile il decoro nazionale, non presentandosi all’America in aspetto di pezzenti lerci e selvatici. L’acqua dolce essendo distribuita con profusione, per esser l’ultimo giorno, era un lavamento furioso, come d’una folla di cavatori usciti da una miniera di carbone, un tuffar di teste nelle gamelle, una musica di soffi e di sbuffi, e spruzzi d’acqua da ogni lato, che parea che piovesse. Molti spingevano vigorosamente il pettine a traverso a foreste capillari rimaste vergini da Genova in poi; altri, coi piedi nudi, si pulivan le scarpe a sputi e a cenciate; e chi spazzolava, chi sbatteva, chi passava in rivista i suoi panni spiegazzati e spelati. Il barbiere veneto, imitatore dei cani, aveva aperto bottega all’aria libera, vicino all’opera morta di sinistra, dove gli scorticandi, seduti in lunga fila come i turchi sulle piazze di Stambul, aspettavano il loro turno, grattandosi le guance a due mani e motteggiando fra loro. Si vedevano biancheggiare a centinaia colli e braccia nude di bimbi scamiciati e di donne in gonnella. Alcune si pettinavano l’una coll’altra, o spopolavano la testa ai ragazzi; altre rabbriccicavano in furia giacchette e calzoncini, o vuotavano sacche e valigie logore in cerca di panni freschi o di biancheria, e in quell’allegrezza che aveva ravvivato la cordialità, le famiglie si prestavano mille piccoli servizi, con grande ricambio d’insistenze e di ringraziamenti ad alta voce. Un fremito di vita giovanile correva da tutte le parti E al disopra del mormorìo vivo della folla, s’udivan di tratto in tratto delle grida: — Viva l’America! — o dei trilli acuti in falsetto, come li fanno i popolani dell’alta Italia, in fondo a ogni strofa di canzonetta. Alla colazione, rallegrata da un suon di pifferi e di zampogne, fu fatta una distribuzione straordinaria di galletta, di cui tutti s’empiron le tasche, e il “cambusiere„ mescè senza possa rum e acquavite come un cantiniere di reggimento il giorno della battaglia. Dopo di che, tutti i passeggieri, appoggiati al parapetto o seduti, si voltarono verso occidente, ad aspettare l’apparizione del nuovo mondo.
Ma le ore passarono, e la terra non spuntava. Il cielo era sparso di nuvole, ma l’orizzonte sgombro, e il mare presentava sempre la sua linea azzurra nettissima, senza un’ombra di promessa. Dopo il mezzogiorno i passeggieri cominciarono a dar segni di stanchezza. A quella gente che aveva avuto tanta pazienza per tre settimane, non ne rimaneva più un briciolo per le ultime ore. E molti già s’indispettivano e si lagnavano. Come mai non si vedeva nulla? Gli ufficiali avevan dunque sbagliato i calcoli? La terra si sarebbe già dovuta vedere. Oramai non saremmo più arrivati in giornata. E Dio sa quando si sarebbe arrivati. — Piroscafi italiani! — era tutto detto: fortuna quando s’arrivava dentro l’anno. E facevan delle allusioni maligne, quando passava un ufficiale, guardandolo di mal occhio. Molti, anzi, affettando di non creder più che s’arrivasse, scrollavan le spalle e voltavano la schiena al mare, fingendo di occuparsi d’altro. Ma ogni volta che l’ufficiale del dispaccio, ch’era di guardia sul palco, appuntava il cannocchiale, tutti fissavano gli occhi su di lui, in grande silenzio; e non ricominciava il mormorìo se non quando era tolta ogni speranza dall’atto d’indifferenza con cui egli riabbassava lo strumento. Egli però non si moveva dall’estremità del terrazzino; il che faceva credere che s’aspettasse da un momento all’altro di veder qualche cosa. Il contadino dal naso mozzo, intestato di voler esser il primo ad annunziare l’America, stava ritto a metà della scaletta del palco, pronto a cogliere a volo il primo movimento dell’ufficiale, per lanciare il grido, e ad ogni alzata del cannocchiale faceva con la mano verso la folla un gesto maestosamente buffo, come d’un tribuno che imponga silenzio alla moltitudine in un momento supremo.
A poppa, intanto, tutti pure aspettavano; le signore sedute, rivolte a occidente; gli uomini facendo dei nastri pel cassero, eccitati. La signorina di Mestre stava al suo posto solito, tra il garibaldino e la zia, più pallida in viso, e più sfinita che gli altri giorni; ma non più triste; anzi più accesa e più vivente negli occhi, che non l’avessi mai vista, e con un’espressione di bontà straordinaria, che pareva una bellezza nuova che le fosse venuta, dopo il trabocco di sangue. Per la prima volta era vestita tutta di nero, e la chiarezza diafana delle sue carni pigliava da quel vestito un risalto che metteva sgomento, come una faccia viva che uscisse di sotto a un panno mortuario. Essa e la zia tenevan sulle ginocchia delle carte e dei piccoli involti di panni, che andavano raccomodando con la punta delle dita. C’erano pure la madre della pianista e la signora grassa, sedute alle due estremità opposte del cassero; la prima con la sua solita faccia di isterica, che mostrava i bei denti, con un’espressione di ferocia rincrudita; l’altra col suo faccione benigno, ridipinto di beatitudine alcoolica, come se avesse tutto dimenticato. Tutte le altre signore facevano coi loro vestiti chiari una macchia di colori allegri, come una filza di bandiere marine, spiegate in segno di festa. Ma anche lì si cominciava a manifestar l’impazienza: i piedi stropicciavano il tavolato, le mani tormentavano i ventagli, le teste s’agitavano, le conversazioni andavano pigliando una tinta verdognola, e non si dicevano contro il comando le sciocchezze piccose degli emigranti, ma si pensavano, e schizzavan dagli occhi di tutti.
A una cert’ora, la signorina s’alzò, appoggiandosi al braccio della zia, e tutt’e due, coi loro involti, si diressero verso le terze classi. Sulla piazzetta si unì a loro la cameriera veneta, che le aspettava, tenendo fra le braccia altre robe. Essendo quella l’ultima visita ch’essa faceva a prua, curioso di vedere, presi per la passerella delle seconde classi, e passando per il castello centrale, andai sul palco di comando.
Aveva forse scelto quell’ora per esser meno osservata, essendo tutta l’attenzione dei passeggieri rivolta all’orizzonte. Dal palco potei seguire con gli occhi tutti i suoi giri in mezzo alla folla, e fui maravigliato al vedere quanta gente conosceva, a quanti aveva fatto del bene in quei pochi giorni. Rimise al contadino malato di febbre e a sua moglie il frutto della colletta; diede roba a un’altra famiglia, vicino all’albero di trinchetto: ad altri porse biglietti e lettere; poi s’accostò alla ragazza genovese, e non vidi bene, perchè la gente s’era affollata, ma mi parve che le infilasse un anello nel dito. I ragazzi le correvano incontro da ogni parte, un branco dei più piccoli la seguitava, ed essa passava una mano sulle fronti, e coll’altra dava dolci e soldi. Andò a salutare la famiglia di Mestre, e baciò il piccolo Galileo. Vari uomini le si avvicinarono col cappello basso, e stettero discorrendo un poco con lei, come se le chiedessero consiglio. Qua e là dava strette di mano, e sembrava che si congedasse. Il suo piccolo viso bianco e i suoi capelli di morta si perdevano nella folla, poi riapparivano: si nascose nell’ombra sotto il castello di prua, ricomparve alla porta della “cambusa„ sparì per la scala dell’infermeria, la rividi accanto al verricello, in mezzo a un gruppo di donne che sporgevano verso di lei i bambini lattanti, perchè la toccassero. Dove passava, le faccie ridenti si ricomponevano, quelli che schiamazzavano, abbassavan la voce, tutti si scansavano e si voltavano. E il suo volto mostrava una stanchezza mortale, ma sempre aveva quel sorriso, un tremolio luminoso negli occhi velati e sulle labbra smorte, nel quale pareva che si fosse ridotta tutta la sua vita, come un ultimo luccicore di sole sopra una rosa bianca, già curvata verso terra. Quando fu al passaggio coperto per tornar verso poppa, si fermò un momento e respirò, premendosi una mano sul petto. Lì sopraggiunse la contadina di Mestre che le baciò la manica del vestito, e scappò. Essa riprese il cammino, lentamente.
E la terra non spuntava! Ma già io non avevo più alcuna impazienza. Ed ero stizzito con me stesso perchè, dopo averla tanto sospirata, quell'imminenza dell’arrivo in America non mi destava più alcuna commozione. Era un altro fenomeno morale simile a quello che avevo provato nei primi giorni del viaggio, in faccia al mar giallo; una specie di sincope del sentimento della curiosità e del piacere. Come se non mi rimanesse uno solo dei mille ardenti desideri con cui ero partito, il pensiero della terra nuova non mi dava più che un senso di noia, accompagnato dalla preoccupazione meschina delle seccature dello sbarco, e dalla molestia d’un brucior di gola che m’aveva lasciato un sigaro cattivo. E mi faceva perfino dispetto l’agitazione degli altri, — sciocchi, — che parevano smaniosi di ritornare alle fatiche e agli affanni d’ogni giorno, come se quelle tre settimane di navigazione non fossero siate per tutti uno dei periodi meno tristi della vita. Tanto che, per non vedere, m’andai a sedere nel camerino del Commissario, e vi rimasi un pezzo a rileggere un vecchio numero del Caffaro, maledicendo, tra una colonna e l’altra, ai libri, ai racconti di viaggio, alle stampe e alle conferenze che ci rendono familiari i paesi più lontani, e ci mandano a vederli con la mente già piena e sazia della loro immagine, incapaci d’ogni forte impressione. Dio mio, è così: mi dovrei vergognare di confessarlo: a poche miglia dal continente americano, io mi scervellavo sopra una sciarada del giornale genovese, della quale mi scappava il secondo:
Il secondo è sempre in moto; |
e correvo col pensiero tutti i regni della natura per rintracciar quel segreto, mentre il marinaio gobbo, indifferentissimo egli pure all’America, lustrava la maniglia d’ottone dell’uscio, canterellando una canzonetta ligure
Gh'ëa na votta na bælla figgia |
con una voce strascicata e nasale, che mi addormentava. A un tratto il canto cessò, come se l’attenzione del marinaio fosse improvvisamente attirata altrove, e udii dalla parte del palco un grido altissimo — lungo — interminabile— lamentevole:
— L’America!
Mi corse un brivido per le vene. Fu come l’annunzio d’un grande avvenimento inatteso, la visione immensa e confusa d’un mondo, che mi ridestò tutt’in un punto la curiosità, la maraviglia, l’entusiasmo, la gioia, e mi fece scattare in piedi, con un’ondata di sangue alla fronte.
Un altro grido, ma di mille voci, rispose a quel primo, e nello stesso tempo il piroscafo s’inclinò fortemente a destra sotto il peso della folla accorrente.
Corsi sul cassero, cercai all’orizzonte... Per qualche momento non vidi nulla. Poi, aguzzando lo sguardo, distinsi una striscia rossastra che si perdeva a destra e a sinistra in due lingue sottili, simile a una nuvola leggerissima che lambisse la faccia del mare.
E stetti qualche minuto a guardare, stupito come gli altri, senza sapere di che. Molte esclamazioni proruppero intorno a me. — Estàmos a casa! — Ghe semmo finalmente! — Quatre heures, vingt-cinq minutes! — esclamò il marsigliese, guardando l’orologio: — l’heure que j’avais prevue. — Ecco la vera tierra del progreso — gridò il mugnaio. — Il tenore disse semplicemente, con l’aria di dire una cosa profonda: — L’America! — La signora grassa, sovreccitata, chiamava l’uno e l’altro per nome, fraternamente, per pregarli che guardassero, che facessero festa a quel lembo di terra, ch’essa vedeva forse assai più vasto di noi. La sola faccia che rimaneva chiusa era quella del garibaldino, e al vederlo, provai un nuovo senso di ripulsione per lui, parendomi che fosse troppo, che fosse una miseria ignobile alla fine quella di veder tutto l’universo morto perchè son morte quattro povere illusioni nel nostro povero cuore.
E corsi subito a prua, dove al primo tumulto era seguito un grande silenzio. Tutti stavano con gli occhi fissi su quella striscia di terra nuda, dove non vedevano nulla, immobili e assorti, come davanti alla faccia d’una sfinge, a cui volessero strappare il segreto del proprio avvenire, e come se al di là di quella macchia rossastra apparissero già al loro sguardo le vaste pianure su cui avrebbero curvato la fronte e lasciato le ossa. Pochi parlavano. Il piroscafo volava, la striscia di terra s’alzava e s’allungava. Era la costa dell’Uruguay. Non si vedeva nè vegetazione né abitato. Parecchi che s’aspettavano di scoprire una terra maravigliosa, parevan delusi; dicevano: — Ma è tale quale come i paesi nostri. — In un crocchio parlavano di Garibaldi, che su quella costa aveva combattuto, e si capiva che il trovar dopo tanti giorni di viaggio una terra sconosciuta dove quel nome era vivo come nella patria, ingigantiva smisuratamente la sua gloria nel loro concetto. Una contadina giovane, seduta vicino all’uscio del dormitorio, con un bimbo fra le braccia, piangeva, e suo marito la trattava di fabioca (scimunita), dandole del gomito nella spalla. Domandai a una vicina che cos’avesse. Un’idea, rispose. La vista dell’America, come se soltanto al vederla si fosse persuasa d’aver abbandonato irrevocabilmente il suo paese, le aveva stretto il cuore, e s’era messa a piangere. Mi spinsi oltre, vicino al castello di prua. E trovai due operai torinesi seduti sull’opera morta... Ah! questa non la scorderò mai più. Sulle acque dell’oceano, in faccia al nuovo mondo e al nuovo avvenire, in quel momento solenne, discutevano intorno all’ubicazione precisa della trattoria di Casal Borgone: se fosse sul crocicchio di via del Deposito e di via del Carmine, o di via del Carmine e di via dei Quartieri; e uno di essi s’arrabbiava. In generale, le donne si mostravan più pensierose degli uomini; molte parevano attonite. Di allegri veramente non c’erano che i giovanotti, che per l’allegrezza si pizzicottavano e si tiravan dei calci di traverso. Dei vecchi, alcuni voltavan le spalle al mare, rincantucciati al loro posto solito, nell’atteggiamento di gente che non avesse più nulla da sperare da quel lembo di terra rossa, fuorché di morirvi in pace. I due vecchi coniugi del castello di prua, seduti sulle loro due bitte, dormivano.
Ma poco tempo dopo, cessato il primo effetto dell’apparizione, come se fosse un’intesa, scoppiò a prua un’allegrezza smodata, un coro di canti e di fischi, e un gridìo di gente che s’affollava intorno all’osteria alzando i bicchieri e i bidoni, un bolli bolli da tutte le parti, da parere che in pochi minuti avessero tracannato delle brente di vin generoso. Tutti i belli umori diedero spettacolo. Il vecchio del castello centrale si mise a modulare i suoi gemiti imitativi, accoccolato in mezzo a un cerchio di gente che ridevano con la bocca da un orecchio all’altro; il contadino snasato rifaceva le facce delle donne atterrite dalla tempesta, provocando una tempesta d’applausi; poi sceso il saltimbanco capelluto dal castello di prua, con la sua faccia tetra, a far la ruota sopra coperta, fra due ali di donne in visibilio. E in un accesso di gioia l’ex portinaio dalla testa pelata, stracciato l’album famoso delle sudicerie, ne distribuì i fogli ai suoi compagni, i quali si sparsero tra la folla, formando altrettanti cerchi di curiosi sghignazzanti; di modo che di lì a poco non fu più che un solo accesso clamoroso di grassa ilarità pornografica che scosse tutte leo pance e squarciò tutte le bocche dalla cucina al macello, accompagnato da un chiasso assordante di suon di strumenti, di versi da briachi e di urlate, sul quale s’alzava di tanto in tanto il grido lungo e lamentevole del barbiere, latrante alla luna.
Il sole intanto era andato sotto, diritto davanti a noi, di là dalla terra, e si vedeva un crepuscolo stupendo, bello quanto i più belli che avevamo visto sui tropici; spettacolo frequente in quella parte d’America, per effetto della grande quantità di vapori che s’alzano dalle acque del Plata e dei due fiumi enormi che lo formano; i quali vapori, accumulandosi in alto, quando l’aria è queta, si tingono di luce e la sfumano e la rifrangono con una forza di colori che vince ogni fantasia. Non appariva più all’orizzonte che una zona fiammeggiante, ma rotta in mille forme di cattedrali d’oro, di piramidi di rubini, di torri di ferro rovente e d’archi trionfali di bragia, che si sfasciavano lentamente, per dar luogo ad altre architetture più basse e più bizzarre, le quali finirono con presentare l’aspetto delle rovine ardenti d’una città sterminata, e poi d’una serie di giganteschi occhi sanguigni, che ci guardassero. E di sopra il cielo era oscuro, e il mare di sotto, nero. A quella vista, s’era rifatto il silenzio a prua, e gli emigranti guardavano, trasecolati, come se quello fosse un fenomeno arcano, proprio di quel paese. S’intravvidero alcuni isolotti: Lobos a sinistra, Gorriti a destra, poi l’isola di Flores, poi i fanali dei banchi d’Archimede. Il silenzio era così profondo a prua, che si sentiva distintamente lo strepito della macchina. Il piroscafo filava come una barca sur un lago.
Un emigrante esclamò: — Che bel mare!
— Non siamo più in mare, — osservò un marinaio, ch’era accanto a me. — Siamo nel fiume. L’emigrante e i suoi vicini si voltarono a cercar l’altra riva, e non vedendo che la linea netta dell’orizzonte marino rimasero increduli. Ma navigavamo già di fatto nel Plata, la cui riva destra era a più di cento miglia da noi.
Quando l’ultima luce crepuscolare disparve, vedemmo scintillare i fanali di Montevideo, e una striscia lontana e confusa di case, rischiarata qua e là vagamente, e una selva di bastimenti, di cui non si vedevan che le punte.
Oramai si sapeva che non si sarebbe più sbarcati, e la folla era stanca delle commozioni della giornata; ma tutti rimasero sopra coperta per gustare il piacere della fermata.
Di lì a poco, in fatti, il piroscafo cominciò a rallentare il corso e l’anelito; poi parve appena che si movesse; e infine quel mostruoso cuore di ferro e di fuoco che da ventidue giorni batteva affannosamente, diede l’ultimo palpito, e il colosso s’arrestò, morto. A un fischio che suonò sul palco, le due áncore enormi si staccarono dai suoi fianchi, e caddero fragorosamente, trascinando con la rapidità del fulmine le loro grandi catene, che sollevaron scintille dai due occhi di ferro; il mare gorgogliò sul davanti; il piroscafo tremò, e ritacque. I suoi due giganteschi artigli avevano afferrato il fondo del fiume. Gli emigranti stettero ancora qualche minuto ad assaporare la sensazione nuova dell’immobilità e del silenzio, e poi scesero a lunghe file, lentamente, nei dormitori, e anche i passeggieri di prima, non allettati dal movimento dell’aria, si ritirarono.
Ed io rimasi quasi solo, stupito che, dopo aver tante volte trovato il viaggio insopportabilmente lungo, mi paresse in quel momento così breve, e vago come un sogno, mentre ne ricordavo tante cose. Non avendo mai visto nulla per via, che mi segnasse le distanze nella mente con immagini ben distinte le mie dall’altre, tutte le giornate mi si confondevano all’immaginazione in una sola, e mi pareva d’aver percorso quello spazio sterminato di un volo. Nessun momento del viaggio, fuorché la tempesta, mi rimase come quello stampato nell’anima. Il fiume smisurato era come immobile, quasi che le sue acque riposassero stanche del corso di duemila miglia, che avevan fatto dalle montagne del Brasile; il cielo era oscuro e tranquillo, Montevideo dormiva, nella rada nessun movimento e nessun rumore, il piroscafo muto; un silenzio altissimo pesava su tutte le cose; e mi parea che venisse di lontano, dagli altri grandi fiumi, dalle pianure sterminate, dalle foreste immense, dalle mille cime delle Ande: il silenzio misterioso e formidabile d’un continente assopito.
Mi riscosse dalla meditazione il comandante, che mi passò accanto fregandosi le mani, — cosa insolita, — come se dentro alla sua testa irta d’orso marino pregodesse una notte beata. Fui tentato di ripetergli il suo ritornello: — Porcaie a bordo...
Ma egli mi prevenne domandandomi col viso serio: — Che cosa faranno in casa sua a quest’ora?
Guardai l’orologio e risposi: — A quest’ora la mia casa è al buio, e tutti dormono.
Egli si mise a ridere, fregandosi le mani. — Anche vosciâ scià gh’è cheito! — disse. — (Anche lei c’è cascato.) — A quest’ora in casa sua ci batte il sole, e i suoi ragazzi domandano il caffè e latte.
Non ci avevo pensato.
Ma il buon comandante, che era veramente contento, mi domandò ancora se, prima d’imbarcarmi, avessi pregato l’armatore di avvertire la famiglia appena ricevuto l’annunzio dell’arrivo. Risposi di sì.
— Ebbene, — disse, — fra tre ore la sua famiglia saprà che è arrivato in America in buona salute.
Non avevo pensato neanche a questo, e discesi, contento anch’io, a dormire il mio ultimo sonno nel ventre del Galileo.