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L'imbarco degli emigranti
Sull'Oceano Nel golfo del Leone

L’IMBARCO DEGLI EMIGRANTI


Quando arrivai, verso sera, l’imbarco degli emigranti era già cominciato da un’ora, e il Galileo1, congiunto alla calata da un piccolo ponte mobile, continuava a insaccar miseria: una processione interminabile di gente che usciva a gruppi dall’edifizio dirimpetto, dove un delegato della Questura esaminava i passaporti. La maggior parte, avendo passato una o due notti all’aria aperta, accucciati come cani per le strade di Genova, erano stanchi e pieni di sonno. Operai, contadini, donne con bambini alla mammella, ragazzetti che avevano ancora attaccata al petto la piastrina di latta dell’asilo infantile passavano, portando quasi tutti una seggiola pieghevole sotto il braccio, sacche e valigie d’ogni forma alla mano o sul capo, bracciate di materasse e di coperte, e il biglietto col numero della cuccetta stretto fra le labbra. Delle povere donne che avevano un bambino da ciascuna mano, reggevano i loro grossi fagotti coi denti; delle vecchie contadine in zoccoli, alzando la gonnella per non inciampare nelle traversine del ponte, mostravano le gambe nude e stecchite; molti erano scalzi, e portavan le scarpe appese al collo. Di tratto in tratto passavano tra quella miseria signori vestiti di spolverine eleganti, preti, signore con grandi cappelli piumati, che tenevano in mano o un cagnolino, o una cappelliera, o un fascio di romanzi francesi illustrati, dell’antica edizione Lévy. Poi, improvvisamente, la processione umana era interrotta, e veniva avanti sotto una tempesta di legnate e di bestemmie un branco di bovi e di montoni, i quali, arrivati a bordo, sviandosi di qua o di là, e spaventandosi, confondevano i muggiti e i belati coi nitriti dei cavalli di prua, con le grida dei marinai e dei facchini, con lo strepito assordante della gru a vapore, che sollevava per aria mucchi di bauli e di casse. Dopo di che la sfilata degli emigranti ricominciava: visi e vestiti d’ogni parte d’Italia, robusti lavoratori dagli occhi tristi, vecchi cenciosi e sporchi, donne gravide, ragazze allegre, giovanotti brilli, villani in maniche di camicia, e ragazzi dietro ragazzi, che, messo appena il piede in coperta, in mezzo a quella confusione di passeggieri, di camerieri, d’ufficiali, d’impiegati della Società e di guardie di dogana, rimanevano attoniti, o si smarrivano come in una piazza affollata. Due ore dopo che era cominciato l'imbarco, il grande piroscafo, sempre immobile, come un cetaceo enorme che addentasse la riva, succhiava ancora sangue italiano.

Via via che salivano, gli emigranti passavano davanti a un tavolino, a cui era seduto l’ufficiale Commissario; il quale li riuniva in gruppi di mezza dozzina, chiamati ranci, inscrivendo i nomi sopra un foglio stampato, che rimetteva al passeggiere più anziano, perchè andasse con quello a prendere il mangiare in cucina, all’ore dei pasti. Le famiglie minori di sei persone si facevano inscrivere con un conoscente o col primo venuto; e durante quel lavoro dell’inscrizione traspariva in tutti un vivo timore d’essere ingannati nel conto dei mezzi posti e dei quarti di posto per i ragazzi e per i bambini, la diffidenza invincibile che inspira al contadino ogni uomo che tenga la penna in mano e un registro davanti. Nascevan contestazioni, s’udivano lamenti e proteste. Poi le famiglie si separavano: gli uomini da una parte, dall’altra le donne e i ragazzi erano condotti ai loro dormitori. Ed era una pietà veder quelle donne scendere stentatamente per le scalette ripide, e avanzarsi tentoni per quei dormitori vasti o bassi, tra quelle innumerevoli cuccette disposte a piani come i palchi delle bigattiere, e le une, affannate, domandar conto d’un involto smarrito a un marinaio che non le capiva, le altre buttarsi a sedere dove si fosse, spossate, e come sbalordite, e molte andar e venire a caso, guardando con inquietudine tutte quelle compagne di viaggio sconosciute, inquiete come loro, confuse anch’esse da quell’affollamento e da quel disordine. Alcune, discese al primo piano, vedendo altre scalette che andavano giù nel buio, si rifiutavano di discendere ancora. Dalla boccaporta spalancata vidi una donna che singhiozzava forte, col viso nella cuccetta: intesi dire che poche ore prima d’imbarcarsi le era morta quasi all’improvviso una bambina, e che suo marito aveva dovuto lasciare il cadavere all'ufficio di Pubblica Sicurezza del porto, perchè lo facessero portare all’ospedale. Delle donne, le più rimanevano sotto; gli uomini, invece, deposte le loro robe, risalivano, o s’appoggiavano ai parapetti. Curioso! Quasi tutti si trovavano per la prima volta sopra un grande piroscafo che avrebbe dovuto essere per loro come un nuovo mondo, pieno di maraviglie e di misteri; e non uno guardava intorno o in alto o s’arrestava a considerare una sola delle cento cose mirabili che non aveva mai viste. Alcuni guardavano con molta attenzione un oggetto qualunque, come la valigia o la seggiola d’un vicino, o un numero scritto sopra una cassa; altri rosicchiavano una mela o sbocconcellavano una pagnotta, esaminandola a ogni morso, placidissimamente, come avrebbero fatto davanti all’uscio della loro stalla. Qualche donna aveva gli occhi rossi. Dei giovanotti sghignazzavano; ma, in alcuni, si capiva che l’allegria era forzata. Il maggior numero non mostrava che stanchezza o apatia. Il cielo era rannuvolato e cominciava a imbrunire.

A un tratto s’udiron delle grida furiose dall’ufficio dei passaporti e si vide accorrer gente. Si seppe poi che era un contadino, con la moglie e quattro figliuoli, che il medico aveva riconosciuti affetti di pellagra. Alle prime interrogazioni, il padre s’era rivelato matto, ed essendogli stato negato l’imbarco, aveva dato in ismanie.

Sulla calata v’era un centinaio di persone: parenti degli emigranti, pochissimi; i più, curiosi, e molti amici e parenti della gente d’equipaggio, assuefatti a quelle separazioni.

Installati tutti i passeggieri, seguì sopra il piroscafo una certa quiete, che lasciava sentire il brontolio sordo della macchina a vapore. Quasi tutti erano in coperta, affollati e silenziosi. Quegli ultimi momenti d’aspettazione parevano eterni.

Finalmente s’udiron gridare i marinai a poppa e a prua ad un tempo: — Chi non è passeggiere, a terra!

Queste parole fecero correre un fremito da un capo all’altro del Galileo. In pochi minuti tutti gli estranei discesero, il ponte fu levato, le gomene tolte, la scala alzata: s’udì un fischio, e il piroscafo si cominciò a movere. Allora delle donne scoppiarono in pianto, dei giovani che ridevano si fecero seri, e si vide qualche uomo barbuto, fino allora impassibile, passarsi una mano sugli occhi. A questa commozione contrastava stranamente la pacatezza dei saluti che scambiavano i marinai e gli ufficiali con gli amici e i parenti raccolti sulla calata, come se si partisse per la Spezia. — Tante cose. — Mi raccomando per queel pacco. — Dirai a Gigia che farò la commissione. — Impostala a Montevideo. — Siamo intesi per il vino. — Buona passeggiata. — Sta bene. — Alcuni, arrivati allora allora, fecero ancora in tempo a gettare dei mazzi di sigari e delle arance, che furon colte per aria a bordo; ma le ultime caddero in mare. Nella città brillavano già dei lumi. Il piroscafo scivolava pian piano nella mezza oscurità del porto, quasi furtivamente, come se portasse via un carico di carne umana rubata. Io mi spinsi fino a prua, nel più fitto della gente, ch’era tutta rivolta verso terra, a guardar l’anfiteatro di Genova, che s’andava rapidamente illuminando. Pochi parlavano, a bassa voce. Vedevo qua e là, tra ’l buio, delle donne sedute, coi bambini stretti al petto, con la testa abbandonata fra le mani. Vicino al castello di prua una voce rauca e solitaria gridò in tuono di sarcasmo: — Viva l’Italia! — e alzando gli occhi, vidi un vecchio lungo che mostrava il pugno alla patria. Quando fummo fuori del porto, era notte. Rattristato da quello spettacolo, tornai a poppa, e discesi nel dormitorio di prima classe, a cercare il mio camerino. Bisogna dire che la prima discesa in questa specie di alberghi sottomarini somiglia deplorevolmente ad una prima entrata nelle carceri cellulari. In quei corridoi stretti e schiacciati, impregnati delle esalazioni saline dei legnami, di puzzo di lumi a olio, d’odor di pelle di bulgaro o di profumi di signore, mi ritrovai in mezzo a un andirivieni di gente affaccendata, che si disputavano i camerieri e le cameriere con quell’egoismo villano che è proprio dei viaggiatori nella furia del primo installamento. In quella confusione, rischiarata inegualmente qua e là, vidi di sfuggita il viso ridente d’una bella signora bionda, tre o quattro barboni neri, un prete altissimo, e una larga faccia tosta di cameriera irritata, e udii parole genovesi, francesi, italiane, spagnuole. Allo svolto d’un corridoio m’imbattei in una negra. Da un camerino usciva il solfeggio d’una voce di tenore. E di faccia a quel camerino trovai il mio, un gabbiotto di una mezza dozzina di metri cubi, con un letto di Procuste da un lato, un divano dall’altro, e nel terzo uno specchio da barbiere, posto sopra una catinella incastrata nella parete, accanto a un lume a bilico,
che dondolava con l’aria di dirmi: Che matta idea t’è venuta d’andare in America! Sopra il divano luccicava un finestrino rotondo somigliante a un grand’occhio di vetro, in cui mi venne fatto di fissare lo sguardo, come in un occhio umano, che mi ammiccasse, con un’espressione di canzonatura. E in fatti, l’idea di aver da dormire ventiquattro notti in quel cubicolo soffocante, il presentimento dell’uggia e dei calori della zona torrida, e delle capate che avrei dato nelle pareti i giorni di cattivo tempo, e dei mille pensieri inquieti o tristi che avrei dovuto ruminare là dentro per lo spazio di seimila miglia... Ma oramai non valeva pentirsi. Guardai le mie valigie, che mi dicevano tante cose in quei momenti, e le palpai come avrei fatto di cani fedeli, ultimi resti viventi della mia casa; pregai Dominedio che non mi facesse pentire d’aver rifiutato le proposte d’un impiegato di una Società d’assicurazione, che era venuto a tentarmi il giorno prima della partenza; e benedicendo nel mio cuore i buoni e fidi amici che m’erano stati accanto fino all’ultimo momento, cullato dal caro mare della mia patria, m’addormentai.


  1. Non è il Galileo della Società di Navigazione generale.
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