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La giornata del diavolo
Il morto In extremis

LA GIORNATA DEL DIAVOLO


Se è vero che in ogni lunga navigazione v’è una così detta “giornata del diavolo„ in cui tutto va alla peggio, e il piroscafo diventa un inferno, io credo che il Galileo abbia avuto la sua il giorno dopo di quella sepoltura, almeno per tre quarti, poichè, grazie al cielo, non finì com’era incominciata. Ci può aver contribuito quella morte a bordo, il sapere che da due giorni si faceva poco cammino, e un brutto mare somigliante ad una immensa lastra di platino, la quale rifletteva una vòlta di nuvole senza colore, donde pareva che piovessero falde dilatate di fuoco, come sopra i bestemmiatori dell’inferno dantesco. Ma tutto questo non basta a dar ragione d’una giornataccia compagna, e bisogna proprio ammettere un influsso misterioso del tropico del Capricorno, che si doveva passare nelle ventiquattr’ore.

Appena svegliato, sentii che l’aria era carica d’elettricità: una sfuriata di gelosia della cameriera genovese, portata via dalla passione a tal segno, che inveiva a voce alta per i corridoi contro il Ruy Blas infido, ripetendogli cento volte il nome dell’animale nero, senza un rispetto al mondo, come se fosse stata nel bel mezzo di piazza Caricamento: a fatica riuscì l’agente di cambio a farle chiudere la fontana degli improperi, minacciandola di andar diritto dal comandante. Salgo su: trovo il comandante fuor della grazia di Dio, che agitava per aria un foglio, interrogando il Commissario, e minacciando di correr lui in persona a piggiali a pê in to cu tutti e quarantasette. Gli avevan fatto ricapitare poco prima una lettera, firmata alla meglio da quarantasette passeggieri di terza classe, i quali si lagnavano del vitto, sollecitando in special modo “una maggior varietà nella guernizione dei piatti di carne„ che era sempre la medesima; il che, diceva la protesta, deve cessare. La protesta era stata promossa dal vecchio toscano dal gabbano verde, e scritta sur un foglio di carta che rivelava un istintivo abborrimento del lavatoio in tutti quanti i sottoscrittori: la qual cosa inaspriva incredibilmente la collera del comandante, che sospettava in quella sudiceria una intenzione d’offesa, e voleva dare una lezione esemplare. Intanto ordinava un’inchiesta. Di più, il Commissario gli riferiva che durante la notte non si sapeva quali passeggiere di terza avevan tagliuzzato colle forbici il vestito di seta nera di quella certa signora, senza motivo alcuno, per pura malvagità, e che questa volta la povera donna, stata paziente e timida tino a quel giorno in mezzo a ogni sorta di sgarbi, aveva perso il lume degli occhi, ed era corsa a chiedere giustizia, singhiozzando, soffocata dall’angoscia e dall’ira. Si trattava di scoprir le colpevoli. Ma c’era altro. Non si sapeva chi, per non essere costretto a succhiare e costringere i marinai a dar l’acqua a bidoni, aveva spezzati tutti i bocchini dei cernieri dell’acqua dolce. Ma s’era sulle tracce dei rei. Si trattava di stabilire il castigo. La giornata s’annunziava male.

Salii sul cassero, dov’eran quasi tutti i passeggieri: tutti visi di gente che avessero passato la notte sui pettini di lino. Le antipatie reciproche erano salite fino a quell'ultimo limite che separa il silenzio sprezzante dall’ingiuria aperta. Si passavan sui piedi gli uni a gli altri senza salutarsi. La stessa “domatrice„ che da vari giorni viveva in una specie d’effervescenza d’amor materno per tutti, se ne stava in disparte, abbattuta come se le girasse sul cuore tutta la Chartreuse della sua dispensa segreta. Il genovese mi venne incontro con una faccia truce, e fissandomi in viso il suo occhio unico, mi disse di mala grazia: — Sa lei che c’è di nuovo questa mattina?... Niente ghiaccio! S’è rotta la macchina, e il marinaio s’è sciupato una mano. È la seconda volta. Un’infamia! — Era nero. E fece per allontanarsi, ma tornò indietro, e mi domandò, guardandomi di sbieco; — E quel fritto misto d’ieri sera? — E fatta una risata ironica, tirò via. Anche il mio vicino di camerino, appoggiato all’albero di mezzana, era più stravolto del solito, e nel viso e nel vestito mostrava tutti i segni d’aver passato la notte sul cassero per non esser torturato sotto dalla sua aguzzina. Perfino gli sposi, seduti l’uno accanto all’altro sur un sofà di ferro, avevan l’aria acciucchita, e stavan muti come se per la prima volta fossero stanchi e irritati di quel letto di Procuste, in cui erano costretti a studiar lo spagnuolo da tre settimane. Che sorridessero non c’era che la signora argentina, vestita d’un bellissimo vestito verde carico, il cui colore si rifletteva come in uno specchio sul viso della madre della pianista; e la signorina di Mestre, che andava in giro con quel suo viso dolce e malinconico, e con un foglio tra le mani, a cercar oblatori a benefizio del contadino febbricitante, e di sua moglie, perchè non arrivassero in America senza panni e senza scarpe. Ed era una cosa che metteva pietà per lei e faceva sdegno il vedere con che facce fredde e quasi arcigne era ricevuta, e con che stento scortese, dopo molte parole, scrivevano la maggior parte il loro nome. Pochi parlavano, e questi pochi, si capiva dalle loro guardatacce oblique che dicevano corna di qualche cosa o di qualcheduno, con l’acrimonia della gente che ha i nervi sossopra. Intesi fra gli altri il mugnaio, il quale si lamentava che a bordo d’un piroscafo come quello si permettesse ai passeggieri di salire sopra coperta in pantofole; e accennava con gli occhi il prete napoletano, che strascicava coi piedi due vere gondole di Venezia, con cui giungeva alle spalle della gente inaspettato, come uno spettro: ciò che indispettiva più d’uno. L’impudenza di quel rinnegato mangiafarina mi fece voltar le spalle a tutta quell’uggiosa compagnia. E me n’andai a prua.

Ma qui trovai di peggio. L’afa e il puzzo avevan cacciati tutti su, non ci avevo mai visto tanta gente: era una folla densa dalle cucine fino alla punta di prua, e tutti irrequieti, come se aspettassero un avvenimento, e straordinariamente arruffati, scomposti nei vestiti, e sudici, come se da vari giorni non fossero più andati a dormire. Si vedeva che n’avevan tutti fin sopra ai capelli del mare, del piroscafo, della cucina e del regolamento, e che sarebbe bastato un nulla a farli uscire dai gangheri. Nessuno giocava, non si sentiva cantare. Perfino il gruppo dei belli umori del castello centrale era muto: il contadino snasato dormiva, il cuoco enciclopedico passeggiava solo, l’album pornografico del portinaio non aveva lettori: soltanto il barbiere veneto faceva sentire di tratto in tratto il suo ululato lamentevole di cane abbaiante alla luna, col quale pareva che esprimesse il sentimento comune di quella moltitudine. E gli emigranti affollati verso poppa guardavano le porte del salone e i passeggieri di prima con un occhio più torvo del consueto, in cui si leggeva che quella mattina ci avrebbero fatto peggio che delle spostature. Perchè, insomma, eravamo noi che rubavamo loro tanta parte del piroscafo, ingombrando noi soli, tra men di cento, quasi altrettanto spazio di quello che occupavan essi, che erano un popolo; eravamo noi che ingollavamo tutti quei piatti fini, ch’essi vedevano passare sulla piazzetta due volte al giorno, e di cui ricevevano il fumo nel naso; e per noi correvano e s’affaccendavano tutti quei camerieri in vestito nero, mentre essi erano costretti a rigovernarsi le gamelle all’aquaio, e a tender la mano in cucina, come mendicanti. E in fondo erano scusabili. Noi avremmo guardato con egual dispetto... eguale! peggiore forse, una classe primissima, se ci fosse stata, di passeggieri milionari rimpinzati di fagiani e ubbriacati di Johannisberg. Essi erano stufi alla fine di quel lungo contatto forzato con l’agiatezza spensierata, di sentirsi come pigiati nella propria miseria, dentro a quella gran piccionaia piena di stracci e di cattivi odori. E non potendo picchiare noi, si picchiavan tra loro. Già la mattina alle otto s’eran presi a schiaffi e a calci i due contadini gelosi della negra, e il comandante’ li aveva mandati tutti e due alla gogna sul terrazzino del palco di comando, obbligandoli a star ritti, l’uno in faccia all’altro, coi nasi che si toccavano; ed essendosi tamburati anche là, erano stati chiusi in due ripostigli. Poi la bolognese, offesa d’una rispostaccia del panattiere di bordo, gli aveva rifilato un ceffone maiuscolo, per cui era stata chiamata dal Commissario. E come accade sempre, essendo contagioso l’esempio, erano accadute altre baruffe: parecchie donne avevano le trecce disfatte e il viso graffiato. Poi i ragazzi s’accapigliavano, aggrovigliandosi otto o dieci insieme, e rotolavano sul tavolato in gruppi confusi, che i parenti accorrevano a districare, prodigando sculacciate e scarpate alla cieca, e caricandosi fra loro di contumelie. L’irritazione aveva invaso perfin la cucina, dove, per rivalità di vendite di contrabbando, era scoppiato un accanito diverbio fra il cuoco e i suoi aiutanti, che si sentiva per tutta la prua, accompagnato da uno strepito furioso di cazzaruole.

Per noi di prima le cose si guastarono ancora alla colazione, che fu cattiva, e resa peggiore dal silenzio e dal cipiglio addirittura tragico del comandante, il quale avea sul cuore un affare, oltre a quello dei quarantasette, assai grave. Un’ora prima gli s’era presentata con molta dignità la madre della pianista, e gli avea sfoderata una protesta in tutte le forme contro gli svolazzamenti notturni della signora svizzera, la quale, a ore incredibili, passava in abbigliamenti leggerissimi davanti al suo camerino, attiguo a quello di lei, con molto scandalo della ragazza; quando pure lo scandalo non era peggio; il che accadeva tutte le volte ch’essa mandava il marito su, a studiare il cielo stellato, e nel camerino non restava sola. Ci doveva essere di balla qualche persona di servizio; oramai non si parlava d’altro a poppa; era una cosa che non poteva durare; il signor comandante ci avrebbe dovuto metter riparo. E il comandante, stuzzicato nel suo debole, aveva gettato fuoco e fiamme, e promesso in so zuamento1 di dir quattro parole delle sue a quel barbagianni di professore, e alla signora, se fosse occorso, e anche a quell’altro o a quegli altri, chè il bastimento non era quello che credevano, e che avrebbe fatto rispettare la decenza, perdio, da tutti quanti, a costo di mettere i marinai di sentinella nei corridoi. E aveva concluso solennemente: Porcaie a bordo no ne veuggio. C’era dunque da aspettarsi una scenata. Durante tutta la colazione, intanto, egli saettò occhiate da Torquemada sulla signora bionda, che molti altri guardavano, parlandosi nell’orecchio, senza che ella s’avvedesse di nulla. Stringata in una deliziosa veste color di tortora, più fresca e più vispa che mai, empiva l’orecchio a suo marito di cinguettii e di trilli, sorridendo a tutti i suoi amici coi suoi dolci occhi senza pensiero, simili a due belle finestre d’una sala vuota, mostrando in mille modi i denti bianchi, le mani piccole, il braccio tornito, l’anima misericordiosa. E dopo colazione ricominciò il suo va e vieni sul cassero, interrotto da scomparse improvvise a cui seguivano riapparizioni aspettate, inconsapevole, poveretta, della spada di Damocle che le pendeva sui riccioli biondi; anzi sempre più gaia e più viva, quanto più le cresceva la noia d’intorno, e come animata da un ardore d’eroina che allattasse degli assediati sfiniti, dicendo con gli occhi che non era sua colpa se non poteva fare di più in sollievo dell’umanità sofferente, ma che faceva tutto quel che poteva. Fuor d’ogui dubbio, s’era rimessa sul serio con l’argentino; ma il tenore e il toscano non erano abbandonati, e il Perù pareva che stesse per entrare nella confederazione.

Ma verso le tre essa discese per non più risalire, ed essendo scomparsa quell’unica faccia allegra, l’uggia ricascò sul cassero più soffocante di prima. Per un momento, nondimeno, ci distrasse un’avventura comica seguita all’avvocato. Vincendo la sua ripugnanza istintiva per l’acqua salsa, era andato a fare un bagno; ed entrato nella tinozza, s’era lasciato salir l’acqua fino al petto; ma quando poi allungò la mano per chiudere la chiavetta, sia che questa non giocasse bene, o che per turbamento egli non la girasse per il suo verso e la guastasse, il fatto è che non riuscì ad altro che a sprigionare un getto più forte, una vera colonna d’acqua impetuosa, la quale in pochi minuti colmò il recipiente, allagò il camerino, gl’infradiciò i panni e lo fece scappar fuori mezzo svestito, con la barba sgocciolante e una pauraccia di naufragato. Noi lo vedemmo passare di gran corsa sulla piazzetta, gridando ai camerieri che corressero a chiudere, chè il bastimento calava a fondo. Ma questo non fu che un lampo che fece appena sorridere cinque o sei passeggieri. Il caldo essendo cresciuto, e il lezzo che veniva dai dormitori di terza diventato pestifero, la maggior parte trasportarono il corpo di calza sfatta dal cassero al salone, e si abbandonavano qua e là pei divani e intorno ai tavolini. Oh l’insopportabile gente! Conoscevo già gli atteggiamenti e i più piccoli gesti abituali di tutti, o i titoli di tutti i romanzi che leggicchiavano da due settimane, e la nota musicale dello sbadiglio di ciascheduno: mi pareva di assistere per la centesima volta a una stupida rappresentazione d’un teatro meccanico. Non era più tedio, ma una vera malinconia, che stringeva il cuore. Non si vedevan che facce allungate, fronti appoggiate sulle mani, occhi velati e immobili. La pianista sonava sul pianoforte non so che musica di funerale: il brasiliano venne a pregarla rispettosamente di smettere, perchè sua moglie, coricata in cuccetta, soffriva un mal di nervi terribile: la ragazza chiuse il pianoforte con un colpo secco, e se n’andò. L’agente mi disse che la signora grassa singhiozzava nel suo camerino. Perché? Non lo sapeva. Effetti del Capricorno. Anche una signorina della famiglia in lutto, su nella seconda classe, piangeva. Una discussione acre nacque improvvisamente in un angolo tra un argentino e il marsigliese, dicendo il primo, con ragione, che dall’osservatorio di Marsiglia non si potevan vedere del Centauro altro che due stelle, quelle che segnan la testa e la spalla; mentre l’altro sosteneva che si vedevan tutte. — Toutes les sept, monsieur, toutes les sept! — Ma è assurdo! — Mais, monsieur, vous avez une façon.... La comparsa del comandante, che cercava qualcuno intorno con un brutto sguardo, li quietò. Il salone ricadde in un silenzio di cripta.

Non ci potendo più reggere, uscii per andare sul palco di comando. Ma non ero ancora in fondo al passaggio coperto, che udii un grido di terrore, e vidi molta gente affollarsi ai piedi di una delle scalette del palco. Un bambino, salito fin sull’ultimo scalino, era precipitato di lassù, dando del capo sul tavolato. Sua madre, credendolo morto, gli si gettò sopra disperatamente, e strettolo fra le braccia, cominciò a urlare come una pazza: — Me lo jettano ammare! Me lo jettano ammare! U peccirillo mio! A criatura mìa! — e faceva l’atto di difenderlo, minacciando, digrignando i denti, respingendo la folla. Il medico accorse, e menò madre e bimbo all’infermeria. Quest’accidente suscitò un gran fermento di lamentazioni contro il piroscafo, che era pien di pericoli, e contro il Comando, che non metteva un marinaio di guardia alle scale. Il vecchio dal gabbano verde prese a declamare rabbiosamente, coi capelli al vento e l’indice in aria, dal castello di prua. Ma un altro guaio era seguito poco prima. Lo scrivanello, a cui il fatto dei baci aveva rialzato il credito a prua, perchè lo consideravano come uno sfregio fatto “alla principessa„, era da due giorni assediato di congratulazioni burlesche, come se fosse andato più innanzi di quanto era vero, e si può pensare fin dove; ed egli s’arrovellava, negava, s’addolorava. Finalmente, a una congratulazione più brutale dell’altre, gli aveva dato il sangue alla testa, e s’era messo a sprangar calci e pugni come un matto furioso; ma, poveretto, per aver la peggio, perché gli s’eran stretti intorno tre o quattro, e impedendogli le braccia e le gambe, gli avevano strofinata la faccia col cappello, ed era stato fortuna che potesse scappare nel dormitorio, col naso scoriato. Cercai la genovese: era al solito posto, che lavorava, bella e composta come sempre, ma con un’ombra di sdegno negli occhi; poiché oramai indovinava l’insolenza oscena dei discorsi e sentiva le occhiate d’odio che le vibravano d’intorno, e da due giorni il padre le faceva la guardia accanto, in piedi, risoluto a romper la testa a qualcuno. Ma il prurito alle mani l’avevan tutti. Ogni mezz’ora si formava un attruppamento intorno a due passeggieri che si mettevan le mani sul muso o si agguantavano per la cravatta. Quando la presenza d’un ufficiale impediva loro di venire alle mani, si sfidavano con le debite forme: — A prua! — A prua! — Questa sera a notte! — A notte! — Il castello di prua era il campo chiuso prescelto solitamente dai cavalieri. Tre o quattro volte, per altro, se le diedero subito e di santa ragione, prima due, poi tre, poi una mezza dozzina, producendo un ondeggiamento in tutta la folla, e dovettero accorrere gli ufficiali e i marinai. Due ubbriachi, che avevano il vino triste, s’avvinghiarono come due belve, e s’ammaccarono le costole cascando tutti e due insieme sopra le ruote del verricello. E questa volta accorse il comandante, furibondo, col proposito manifesto di dare qualche masca memoranda, per rifarsi la mano. Ma non giunse in tempo. Le cose erano al punto ch’io m’aspettavo di veder prima di sera tutta quella massa di gente avviticchiarsi e accavallarsi in un monte informe di membra, come nelle mischie guerresche del Dorè, e traboccare fuori dai parapetti nel mare. Ma invece d’avversione, sentivo più forte, in quei brutti momenti, la compassione delle loro miserie, e come un impulso affettuoso e triste verso di loro; poiché sotto l’espressione provocante di tutti quei visi, s’indovinava un oscuramento passeggiero di ogni speranza, una grande stanchezza della vita, un pianto segreto, che usciva in ira; e si vedeva che soffrivano, e che, in fondo, avevano pietà gli uni degli altri, e ciascuno di sè stesso. L’immagine vivente del loro stato d’animo erano quei due vecchi contadini del castello di prua, marito e moglie, che anche allora stavano seduti accanto sopra due bitte, con le braccia incrociate sulle ginocchia e il capo abbandonato sulle braccia, mostrando i colli magri e rugosi, che raccontavano cinquant’anni di fatiche senza compenso. Mentre stavo guardandoli, una donna incinta cadde in deliquio, sopra i coperchi vetrati della boccaporta del dormitorio, arrovesciando la faccia bianca tra le braccia delle vicine. E subito corsero cento voci: — È morta una donna, — è morta una donna. — Io me n’andai.

Dove andare? Sei ore eterne dovevano passare prima di notte. Rientrai nel salone, e cominciai a sfogliare l’album di bordo, in cui varii passeggieri avevano scritto; ma era pieno di sciocchezze, di luoghi comuni e di bugie. Allora discesi nel camerino, ultimo rifugio, per tentar di dormire. Ma il camerino mi parve più stretto, più asfissiante, più odioso che non mi fosse mai parso. I passeggieri dovevano esser discesi quasi tutti; eppure non si sentiva nessuno, come se quelle cento pareti di legno non racchiudessero che cadaveri. Non si udiva che la nenia lamentevole della negra, come un canto solitario per le vie d’una necropoli. E mi pareva che mi pesassero su l’anima non soltanto i miei, ma tutti i tedi, tutti i ricordi amari e gli affetti lacerati e i tristi presentimenti ch’crano ammucchiati su all’aria aperta, tra quei mille e seicento figliuoli d’Italia, che andavano a cercare un’altra madre di là dall’oceano. Ed era inutile che cercassi di ragionarmi, analizzando il mio stato d’animo, per dimostrare a me stesso che non c’era un perchè logico del veder tutto fosco quel giorno, come gli altri, mentre pel solito, diversamente dagli altri, vedevo ogni cosa in un buon aspetto. I pensieri foschi, tenuti per un momento con uno sforzo fuor della mente, vi rientravano, appena cessato quello, come un’onda di torrente, e ne invadevano tutti i recessi. E non so quanto tempo stetti su questi pensieri; poi m’addormentai. Ma ebbi un sogno orribile: casa mia di notte, — un via vai di lumi e di facce che non conoscevo, — un rantolo in una camera di cui non mi riusciva di trovar la porta, — e poi mutata la scena in un lampo, uno spaventevole grido: — Si salvi chi può! — e il disordine disperato d’un piroscafo che si sprofonda nell’abisso...

Nel punto stesso mi svegliò un forte rumore. Non so se avessi dormito tre ore o cinque minuti. Nel camerino brillava un raggio di sole, il rumore cresceva sopra il mio capo. Era un gridio di gente che si chiamava per nome, un suono di passi affrettati, un tramestio come all’annunzio d’un pericolo. Feci un salto fuori: da tutti gli altri camerini uscivano i passeggieri correndo, e si slanciavano su per le scale. Salii in coperta, mi trovai tra una folla. Guardai verso prua; quanto c’era di vivo nelle più profonde cavità del bastimento era sbucato fuori; un brulicame nero da un capo all’altro; tutti si gettavano contro al parapetto di destra, salivano sulle stie, sulle panche e sulle scale a corda, guardando il mare, io non vedevo nulla, un baluardo di schiene mi nascondeva l'orizzonte. Interrogai due che passavano: scapparono senza rispondere. Allora salii sul palco di comando... Ah! la benedetta apparizione! La divina cosa che vidi! Un piroscafo enorme e nero, imbandierato e affollato, veniva maestosamente verso di noi, fendendo il mare azzurro, sotto il cielo limpidissimo, con la prua alta e con le vele gonfie, dorato dal sole, fumante e festoso, che pareva balzato come un prodigio dal seno dell’oceano. Era il Dante, della stessa società di navigazione del Galileo, proveniente dal Plata, diretto in Italia, carico di emigrati che tornavano in patria. Era il primo grande piroscafo che incontravamo dopo l’uscita dal Mediterraneo, ed era un fratello. Ad ogni sbuffo dei suoi grandi fumaioli stellati, ingigantiva, e apparivano più nette le mille figure umane che lo coronavano. Le due moltitudini, affollate sulle due prue, si guardavano in silenzio; ma tutti fremevano. Il Dante ci s’avvicinò tanto che un’improvvisa ondata ci fece rullare violentemente. Quando fu alla massima vicinanza, a portata di voce da noi, presentandoci tutta la lunghezza del suo fianco superbo, un altissimo grido, da molto tempo trattenuto, proruppe quasi ad un punto dallo due folle, accompagnato da un frenetico sventolio di cappelli e di fazzoletti; un grido interminabile d’augurio e d’addio, d’un accento strano, diverso da ogni altro grido di popolo che avessi inteso mai, uno scoppio di voci violente e tremanti, in cui si espandevano e si confondevano le tristezze del viaggio, il rimpianto della patria, la gioia di rivederla tra breve, la speranza di ritornarvi un giorno, la maraviglia e l’allegrezza affettuosa d’incontrar dei fratelli, di sentir la voce e l’alito dell’Italia nella solitudine dell’Atlantico immenso. Furono pochi minuti. In pochi minuti il Dante non fu più che una macchia nera nell’azzurro, dentellata appena dallo mille teste confuse dei suoi passeggieri. Ma quella rapida visione aveva tutto mutato a bordo del Galileo, aveva risuscitato le speranze di buona fortuna, ridestati i canti, le risa, la benevolenza, la vita. — Signore! — intesi dire vicino a me. Mi voltai: era la signorina di Mestre che toccava il garibaldino col ventaglio. Questi si voltò, e la ragazza, con un viso come illuminato da un baleno dell’anima, accennandogli con la mano scarna il piroscafo che s’allontanava, gli disse con la sua dolcissima voce: — Ecco la patria.

  1. Sul suo giuramento.
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