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Nel golfo del Leone
L'imbarco degli emigranti L'Italia a bordo

NEL GOLFO DI LEONE


Quando mi svegliai era giorno fatto, e il piroscafo rullava già nel golfo di Leone. Subito udii i gargarismi del tenore nella cabina di faccia, e in quella accanto alla mia una voce secca di donna che diceva: — La tua spazzola? Che so io della tua spazzolai Cercala! — ; una voce che rivelava non solo una stizza momentanea, ma un temperamento acre e duro, e che mi destò un senso di viva commiserazione per il proprietario dell’oggetto smarrito. Più in là un’altra voce femminile cantava la ninna nanna a un bambino, con una cantilena strana, e una modulazione che non mi parve potesse essere d’una creatura della nostra razza: mi venne in mente che fosse la negra incontrata la sera. e il canto era tagliato dalle voci sommesse e fischianti di due cameriere che leticavano nel corridoio, a proposito d’una picaggietta (un asciugamani). Tesi l’orecchio: bastarono poche parole a persuadermi che se una donna al mondo può tener testa a una cameriera genovese, quella non può essere che una cameriera veneziana. Un cameriere entrò nella cabina col caffè. La prima mattina si osserva tutto. Era un giovinetto bellino e spiacevole, coi capelli impomatati che colavano, pieno di rispetto per sè stesso, e sorridente alla propria bellezza come un attore vanitoso. Domandato come si chiamasse, rispose: — Antonio — con modestia affettata, come se quell’Antonio fosse il falso nome di un duchino, travestitosi da cameriere per un’impresa amorosa. Uscito lui, uscii anch’io, appoggiandomi alle pareti, e svoltando nel corridoio principale, vidi la schiena del gigantesco prete della sera avanti, che rientrava nella sua cabina, e un passo più in là, per lo spiraglio d’un uscio, proprio nel punto che ricadeva la cortina verde, due mani bianche che tiravano una calza di seta nera sopra una bellissima gamba. I passeggieri erano ancora quasi tutti nei loro camerini, dove si sentiva sbatter l’acqua nelle catinelle, e un gran fruscio di spazzole e di mani frugacchianti nelle valigie. A poppa, non trovai che tre persone. Il mare era mosso, ma d’un bel colore azzurro, e il tempo chiaro. Non si vedeva terra.


Ma lo spettacolo eran le terze classi, dove la maggior parte degli emigranti, presi dal mal di mare, giacevano alla rinfusa, buttati a traverso alle panche, in atteggiamenti di malati o di morti, coi visi sudici e i capelli rabbuffati, in mezzo a un grande arruffio di coperte e di stracci. Si vedevan delle famiglie strette in gruppi compassionevoli, con quell’aria d’abbandono e di smarrimento, che è propria della famiglia senza tetto: il marito seduto e addormentato, la moglie col capo appoggiato sulle spalle di lui, e i bimbi sul tavolato, che dormivano col capo sulle ginocchia di tutti e due: dei mucchi di cenci, dove non si vedeva nessun viso, e non n’usciva che un braccio di bimbo o una treccia di donna. Delle donne pallide e scarmigliate si dirigevano verso le porte del dormitorio, barcollando e aggrappandosi qua e là. Quello che Padre Bartoli chiama nobilmente l’angoscia e lo sdegno dello stomaco doveva aver già fatto il grande repulisti, desiderato da ogni buon comandante, delle solite frutte
cattive di cui s’impinzano a Genova gli emigranti poveri e delle sacramentali scorpacciate che fanno all’osteria quelli che hanno qualche cosa. Anche quelli che non soffrivano avevan l’aria abbattuta, e più l’aspetto di deportati che d’emigranti. Pareva che la prima esperienza della vita inerte e disagiata del bastimento avesse smorzato in quasi tutti il coraggio e le speranze con cui eran partiti, e che in quella prostrazione d’animo succeduta all’agitazione della partenza, si fosse ridestato in essi il senso di tutti i dubbi, di tutte le noie e amarezze degli ultimi giorni della loro vita di casa, occupati nella vendita delle vacche e di quel palmo di terra, in discussioni aspre col padrone e col parroco, e in addii dolorosi. E il peggio era sotto, nel grande dormitorio, di cui s’apriva la boccaporta vicino al cassero di poppa: affacciandovisi, si vedevano nella mezza oscurità corpi sopra corpi, come nei bastimenti che riportano in patria le salme degli emigrati chinesi; e veniva su di là, come da uno spedale sotterraneo, un concerto di lamenti, di rantoli e di tossi, da metter la tentazione di sbarcare a Marsiglia. La sola nota amena di quello spettacolo erano i pochi intrepidi che, sopra coperta, uscivan dalle cucine con le gamelle colme di minestra
tra le mani, per andarsela a mangiare in pace ai loro posti: alcuni, facendo prodigi d’equilibrio, ci riuscivano; altri, messo un piede in fallo, cadevano col muso nella gamella, spandendo brodo e paste da tutte le parti, in mezzo a uno scatenamento di maledizioni.

Udii con piacere la campanella che ci chiamava a tavola, dove speravo di veder un quadro più gaio.

Ci trovammo circa a una cinquantina, seduti a una tavola lunghissima, in mezzo a un vasto salone, tutto messo a oro e a specchi, e rischiarato da molti finestrini, in cui si vedeva ballare l’orizzonte del mare. Nell’atto di sedere, e per qualche minuto dopo, i commensali non fecero che squadrarsi a vicenda, celando sotto un’indifferenza simulata la curiosità scrutatrice che ispirano sempre le persone ignote con le quali si sa di dover vivere per qualche tempo in una familiarità inevitabile. Il mare essendo un po’ agitato, mancavano varie signore. Notai subito in fondo alla tavola il prete gigante, il quale sorpassava di tutta la testa i suoi vicini: una testa d’uccello grifagno, piccola e calva, con gli occhi orlati di presciutto, piantata sur un collo interminabile; e mi diedero nell’occhio le sue mani, mentre spiegavano il tovagliolo, smisurate e magre, con certe dita che parevano tentacoli di polipi: la figura d’un Don Chisciotte, senza poesia. Dalla stessa parte, ma più in qua, riconobbi la signora bionda che avevo incontrata di sotto la sera innanzi. Era una bella signora sui trent’anni, con due occhi troppo azzurri e un nasino spensierato, fresca e mobilissima, vestita con eleganza un po’ troppo vistosa; la quale girava su tutti i commensali, come se conoscesse tutti, uno sguardo vago e sorridente di ballerina alla ribalta; e non so perchè, avrei giurato che la calza di seta nera intravvista la mattina non poteva essere che sua. Il proprietario legittimo di quella seta era senza dubbio un signore sulla cinquantina, che le sedeva accanto: una faccia rassegnata e benevola, contornata d’una zazzera professorale, con due piccoli occhi socchiusi, nei quali brillava un sorriso d’un’astuzia più ostentata che vera, che gli doveva essere abituale. Alla sua destra c’erano due ragazze, che parevano parenti, o amiche intime; di una delle quali, vestita di color verde mare, mi colpì il viso smunto e pallidissimo, spiccante anche più sotto una massa di capelli neri e lucidi, che facevan l’impressione della capigliatura d’una morta: e aveva appesa al collo una grossa croce nera. C’era poi una coppia matrimoniale curiosa: due sposi certamente, giovanissimi, piccoli tutti e due, due stucchini di Lucca, che mangiavano col viso basso e si parlavano senza guardarsi, impacciati, come se avessero soggezione dei commensali. Non avrei dato più di vent'anni all’uno, nè più di diciassette all’altra, e avrei scommesso che non eran passati più di quindici giorni dalla loro apparizione al Municipio: una monachella e un seminarista avvedutisi in tempo d’un’assoluta mancanza di vocazione, e che non avevan punto bisogno di darsi del nero sotto gli occhi. Da un lato dello sposo troneggiava una matrona coi capelli mal tinti, col seno al mento, con un faccione come lo fanno i caricaturisti alla luna di cattivo umore, segnato sopra la bocca dalle tracce non dubbie d’un depilatorio troppo caustico: la quale era tutta occupata a mangiare con coscienza, facendosi tirar giù da una di quelle credenze aeree che ci ciondolavano sul capo come lampadari, ora la senapa, ora il pepe, ora la mostarda, come se volesse raccomodarsi lo stomaco guasto e schiarirsi la voce rauca, che andava provando, tratto tratto con un colpetto di tosse. A capo della tavola sedeva il Comandante, una specie
di Ercole raccorciato e accigliato, rosso di capelli e acceso nel viso; il quale parlava con voce burbera, ora in puro genovese al passaggiere che aveva a destra, ora in spagnuolo impuro a un signore che aveva a sinistra: un vecchio alto e asciutto, di lunghi capelli bianchissimi e d’occhi vivi e profondi, arieggiante gli ultimi ritratti del poeta Hamerling.

Non conoscendosi ancora fra loro i più dei passeggieri, s’udiva appena qualche conversazione a voce bassa, accompagnata dal tintinnio delle oliere sospese, e interrotta ogni tanto dal colpo secco con cui un commensale arrestava sulla tavola una mela o un arancia scappata; quando una frase spagnuola detta ad alta voce e seguita da un coro di risate, fece voltar tutte le teste verso il fondo del salone. — È una brigata d’Argentini, — disse il mio vicino di sinistra.

Mentre mi voltavo a guardarli, mi sviò l’attenzione la faccia maschia e bella del mio vicino di destra, di cui non avevo ancora inteso la voce. Era un uomo sui quarant’anni, dell’aspetto d’un antico soldato, di corpo poderoso, ma che s’indovinava svelto ancora; già grigio. La fronte ardita e gli occhi iniettati di sangue mi rammentarono Nino Bixio; ma la parte inferiore del viso era più mite, benché triste e come contratta da una espressione di disprezzo, che faceva violenza alla bontà della bocca. Non so bene per quale associazione di idee, pensai a una di quelle nobili figure di Garibaldini del 60 che avevo conosciute nelle pagine indimenticabili di Cesare Abba, e mi fissai nel capo ch’egli avesse fatto quella campagna, o che dovesse essere lombardo.

Mentre guardavo lui, il mio vicino di sinistra sbattè la forchetta sulla tavola, dicendo: — È inutile.... se mangio, crepo.

Costui era un ometto mingherlino, con un viso di dolor di corpo e una gran barba nera, troppo lunga per lui, che gli pareva appiccicata, come quelle dei piccoli maghi che saltan fuori dalle scatole a molla.

Gli domandai se si sentisse male. Mi rispose con la pronta familiarità dei malati, a cui si parla della loro malattia.

Non si sentiva male o, per dir meglio, non soffriva propriamente il mal di mare. Soffriva d’una malattia particolare, più morale che fisica, che era un’avversione invincibile al mare, un’inquietudine irosa e triste che lo pigliava al primo salire sul piroscafo, e che non l’abbandonava più fino all’arrivo, se anche avesse avuto sempre il mare come un lago e il cielo come uno
specchio. Aveva fatto parecchie traversate dell’oceano, perchè la sua famiglia era stabilita nell’Argentina, a Mendoza; ma pativa all’ultima le medesime torture che alla prima: di giorno una spossatezza e un’agitazione morbosa, e di notte un’insonnia incurabile, tormentata dalle più nere immaginazioni che possano passare per mente umana. Odiava a tal segno il mare che era capace di star sette giorni di seguito senza guardarlo, e ogni volta che trovava in un libro una descrizione marina, la saltava a pié pari. Mi giurava, infine, che se si fosse potuto andare in America per terra, egli avrebbe viaggiato un anno in carrozza piuttosto che far quella traversata di tre settimane. A tanto era ridotto. Un medico suo amico gli aveva detto per celia, ma egli credeva fermamente, che quella violenta avversione al mare non poteva derivar da altro che da un presentimento misterioso di dover morire in un naufragio.

— Scià se leve queste idee da a testa, avvocato! — gli disse il suo vicino dell’altra parte.

L’avvocato scrollò il capo, accennando con l’indice il fondo del mare.

Vedendo che aveva già conoscenze a bordo, gli domandai informazioni. Come avevo indovinato giusto! Il mio vicino di destra; in fatti,
doveva essere lombardo: egli l’aveva inteso parlare lombardo con un amico, sulla calata di Genova: e un antico garibaldino, senza dubbio: glie l’aveva detto la mattina il Commissario. — Ma come lo sa lei? — mi domandò. — Io insuperbii della mia facoltà divinatrice. Egli continuò a darmi notizie. La famiglia che era in fondo alla tavola, composta di padre e madre, e di quattro figliuoli, era una famiglia brasiliana, che andava al Paraguay. Il giovane coi baffetti neri, che sedeva accanto al brasiliano più piccolo, credeva che fosse un tenore italiano (era il mio vicino di camerino) che andava a cantare a Montevideo. Quello che parlava forte in quel momento, dalla nostra parte della tavola, era un cattivo originale di mugnaio piemontese, che, diventato ricco nell’Argentina, vi ritornava ora per sempre, dopo aver fatto un breve soggiorno in patria, dove pareva che non avesse trovato l’accoglienza trionfale che s’aspettava; e fin dalla sera innanzi era stato inteso raccontar a un cameriere la sua storia, e dir corna dell’Italia, la quale non avrebbe avuto le sue ossa. Qui s’interruppe, e mi disse a bassa voce: — Guardi quel braccio.

Accennava alla ragazza pallida, con la croce al collo, che avevo già notata. Guardai, e provai un senso quasi di ribrezzo: non era un braccio il suo, ma un povero osso bianco che pareva uscito da un sepolcro. E osservai nello stesso tempo i suoi occhi velati, e quasi svaniti, d’un’esprossione di tristezza e di dolcezza infinita, che sembrava guardassero tutto e non vedessero nulla. E osservai che anche il Garibaldino la fissava cogli occhi socchiusi, forse per nascondere il sentimento di compassione che inspirava a lui pure.

La compagnia, in somma, presentava una varietà abbastanza soddisfacente per un osservatore. Notai fra gli altri uno strano viso di color bronzeo, d’un uomo sui trentacinque anni, di fisonomia grave, e vagamente malinconica, dal quale non potei staccare gli occhi per un pezzo quando l’avvocato m’ebbe detto ch’era un Peruviano; poichè mi pareva che la forma oblunga del capo e la grande bocca e la barba rada rispondessero alle descrizioni che si leggon nelle storie di quegli Incas misteriosi, che m’avevan sempre tormentato la fantasia. Me lo raffiguravo vestito di lana rossa, con una benda intorno al capo e gli orecchini dorati, inteso a segnare i suoi pensieri coi fili variopinti d’una cordicella a nodi, e vedevo sfolgorare dietro di lui le gigantesche statue d’oro del palazzo imperiale di Cuzco, circondato di giardini scintillanti di frutti e di fiori d’oro. Ed era invece il proprietario d’una fabbrica di zolfanelli di Lima, che discorreva prosaicamente della sua industria col commensale che gli stava di faccia.

Alle frutta le conversazioni s’animarono un poco. Sentii che il Comandante raccontava un’avventura di quando era capitano di bastimento a vela; un’avventura il cui scioglimento, a giudicarne dal gesto, doveva essere una solenne distribuzione di scapaccioni fatta da lui in non so che porto straniero a non so quale mascarson, che gli aveva mancato di rispetto. In fondo alla tavola gli Argentini provocarono più volte delle risate sonore pigliandosi spasso, a quanto mi parve, d’un commesso viaggiatore francese dai capelli grigi, il solito commesso che si trova in tutti i piroscafi, il quale rispondeva con la disinvoltura imperturbabile d’un vecchio monello, profondendo le spiritosaggini del solito prontuario, che tutti i suoi colleghi hanno a memoria. Mentre servivano il caffè, il piroscafo fece due o tre mosse più forti, e allora s’alzò da tavola, guardata da tutti, una bella signora argentina, che non avevo ancora veduta; ma essendosene andata barcollando, sorretta da suo marito, non mi potei accertare della “grazia maravigliosa d’andatura„ che gli scrittori di viaggi attribuiscono alle donne del suo paese: Mi potei però accorgere, dalla curiosità ammirativa di tutti gli sguardi, che già le doveva esser stato riconosciuto il primato estetico tra le signore del Galileo, e che difficilmente sarebbe stata scoronata nel corso del viaggio. Poco dopo tutti gli altri s’alzarono, tornarono a guardarsi da capo a piedi, con la coda dell’occhio, come all’entrata, e poi si sparpagliarono a poppa, nel fumatoio e per i camerini, mostrando già sul viso la noia delle sei ore eterne che li dividevano dal pranzo.

Io però non m’annoiavo: un sentimento mi riempiva l’anima, nuovo e piacevolissimo, che non si può provare in nessun luogo, in nessuna condizione al mondo, fuorché sopra un piroscafo che attraversi un oceano: il sentimento d’un’assoluta libertà dello spirito. Potevo dire, insomma: per venti giorni, sono diviso dall’universo abitato, son sicuro di non vedere altri miei simili che quelli che ho intorno, i quali sono per me tutto il genere umano; per venti giorni sono sciolto d’ogni dovere e d’ogni servitù sociale, e certo che nessun dolore mi verrà dal mondo esteriore, perché non mi può giungere nessuna notizia da nessuna parte. Mille sventure possono minacciarmi, nessuna mi può raggiungere. L’Europa si può sconvolgere, io non lo saprò. Venti giorni di orizzonte senza limite, di meditazione senza disturbo, di pace senza timore, di ozio senza rimorso. Un lungo volo senza fatica a traverso a un deserto sterminato, davanti a uno spettacolo sublime, dentro un’aria purissima, verso un mondo sconosciuto, in mezzo a gente che non mi conosce. Prigioniero in un’isola, è vero; ma in un’isola che mi porta e che mi serve, che guizza sotto i miei piedi, e mi trasfonde nel sangue il fremito della sua vita, ed è un frammento palpitante della mia patria.

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