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ATTO SECONDO
SCENA I
Ricchissimi appartamenti destinati da Serse a Temistocle.
Vasi all’intorno ricolmi d’oro e di gemme.
Temistocle, poi Neocle.
Temistocle, il tuo stato. Or or, di tutto
bisognoso e mendico, invan cercavi
un tugurio per te: questo or possiedi
di preziosi arredi
rilucente soggiorno;
splender ti vedi intorno
in tal copia i tesori; arbitro sei
e d’un regno e d’un re. Chi sa qual altro
sul teatro del mondo
aspetto io cambierò. Veggo pur troppo
che favola è la vita;
e la favola mia non è compíta.
Neocle. Splendon pure una volta,
amato genitor, fauste le stelle
all’innocenza, alla virtú: siam pure
fuor de’ perigli. A tal novella, oh, come
tremeran spaventati
tutti d’Atene i cittadini ingrati!
Or di nostre fortune
comincia il corso: io lo prevengo, e parmi
giá trionfi ed allori
teco adunar, teco goderne e teco
passar d’Alcide i segni,
i regi debellar, dar legge a’ regni.
Temistocle. Non tanta ancor, non tanta
fiducia, o Neocle. Or nell’ardire eccedi,
pria nel timor. Quand’eran l’aure avverse,
tremavi accanto al porto: or che seconde
si mostrano un momento,
apri di giá tutte le vele al vento.
Il contrario io vorrei. Questa baldanza,
che tanto or t’avvalora,
è vizio adesso, era virtude allora:
e quel timor, che tanto
prima ti tenne oppresso,
fu vizio allor, saria virtude adesso.
Neocle. Ma che temer dobbiamo?
Temistocle. Ma in che dobbiam fidarci? In quei tesori?
D’un istante son dono:
può involarli un istante. In questi amici,
che acquistar giá mi vedi? Eh! non son miei:
vengon con la fortuna, e van con lei.
Neocle. Del magnanimo Serse
basta il favore a sostenerci.
Temistocle. E basta
l’ira di Serse a ruinarne.
Neocle. È troppo
giusto e prudente il re.
Temistocle. Ma un re sí grande
tutto veder non può. Talor s’inganna,
se un malvagio il circonda;
e di malvagi ogni terreno abbonda.
Neocle. Superior d’ogni calunnia ormai
la tua virtú ti rese.
Temistocle. Anzi lá, dove
la virtú, che piú splende, è men sicura.
Neocle. Ah! qual...
Temistocle. Parti: il re vien.
Neocle. ...qual ne’ tuoi detti
magia s’asconde! Io mi credea felice;
mille rischi or pavento: in un istante
par che tutto per me cangi sembiante.
Tal per altrui diletto
le ingannatrici scene
soglion talor d’aspetto
sollecite cambiar.
Un carcere il piú fosco
reggia cosí diviene;
cosí verdeggia un bosco
dove ondeggiava il mar. (parte)
SCENA II
Serse e Temistocle.
Temistocle. Gran re.
Serse. Di molto ancora
debitor ti son io. Mercé promisi
a chi fra noi Temistocle traesse.
L’ottenni: or le promesse
vengo a compir.
Temistocle. Né tanti doni e tanti
bastano ancor?
Serse. No; di sí grande acquisto,
onde superbo io sono,
parmi scarsa mercé qualunque dono.
Temistocle. E vuoi...
Serse. Vuo’ della sorte
ad onta sua. Giá Lampsaco e Miunte,
e la cittá, che il bel Meandro irriga,
son tue da questo istante; e Serse poi
del giusto amore, onde il tuo merto onora,
prove dará piú luminose ancora.
Temistocle. Deh! sia piú moderato
l’uso, o signor, del tuo trionfo; e tanto
di mirar non ti piaccia
Temistocle arrossir. Per te finora
che feci?
Serse. Che facesti! E ti par poco
credermi generoso?
fidarmi una tal vita? aprirmi un campo
onde illustrar la mia memoria? e tutto
rendere a’ regni miei
in Temistocle sol quanto perdei?
Temistocle. Ma le ruine, il sangue,
le stragi, onde son reo...
Serse. Tutto compensa
la gloria di poter nel mio nemico
onorar la virtú. L’onta di pria
fu della sorte; e questa gloria è mia.
Temistocle. Oh magnanimi sensi,
degni d’un’alma a sostener di Giove
le veci eletta! oh fortunati regni
a tal re sottoposti!
Serse. Odimi. Io voglio
della proposta gara
seguir l’impegno. Al mio poter fidasti
tu la tua vita; al tuo valore io fido
il mio poter. Delle falangi perse
sarai duce sovrano. In faccia a tutte
le radunate schiere
vieni a prenderne il segno. Andrai per ora
dell’inquieto Egitto
poi tenterem. Di soggiogare io spero,
con Temistocle al fianco, il mondo intero.
Temistocle. E a questo segno arriva,
generoso mio re...
Serse. Va’, ti prepara
a novelli trofei. Diran poi l’opre
ciò che dirmi or vorresti.
Temistocle. Amici dèi,
chi tanto a voi somiglia
custoditemi voi. Fate ch’io possa,
memore ognor de’ benefizi sui,
morir per Serse o trionfar per lui.
Ah! d’ascoltar giá parmi
quella guerriera tromba,
che fra le stragi e l’armi
m’inviterá per te.
Non mi spaventa il fato,
non mi fa orror la tomba,
se a te non moro ingrato,
mio generoso re. (parte)
SCENA III
Serse, poi Rossane, indi Sebaste.
d’un diadema real, che mille affanni
porta con sé; ma quel poter de’ buoni
il merto sollevar, dal folle impero
della cieca fortuna
liberar la virtú, render felice
chi non l’è, ma n’è degno, è tal contento,
che di tutto ristora,
ch’empie l’alma di sé, che quasi agguaglia,
il destin d’un monarca a quel d’un nume.
Parmi esser tal da quel momento in cui
Temistocle acquistai. Ma il grande acquisto
assicurar bisogna. Aspasia al trono
voglio innalzar: la sua virtú n’è degna,
il sangue suo, la sua beltá. Difenda
cosí nel soglio mio de’ suoi nipoti
Temistocle il retaggio; e sia maggiore
fra’ legami del sangue il nostro amore.
Pur d’Aspasia io vorrei
prima i sensi saper. Giá per mio cenno
andò Sebaste ad esplorarli; e ancora
tornar nol veggo. Eccolo forse... Oh stelle!
è Rossane. Si eviti. (partendo)
Rossane. Ove t’affretti,
signor? fuggi da me?
Serse. No; in altra parte
grave cura mi chiama.
Rossane. E pur fra queste
tue gravi cure avea Rossane ancora
luogo una volta.
Serse. Or son piú grandi.
Rossane. È vero;
lo comprendo ancor io: veggo di quanto
Temistocle le accrebbe. È ben ragione
che un ospite sí degno
occupi tutto il cor di Serse. E poi
è confuso il tuo core,
né mi fa meraviglia,
fra’ meriti del padre, e...
Serse. Principessa,
addio.
Rossane. Senti. Ah, crudel!
Serse. (Si disinganni
la sua speranza.) Odi, Rossane: è tempo
Sappi...
Sebaste. Signor, di nuovo
chiede il greco orator che tu l’ascolti.
Serse. Che! non partí?
Sebaste. No. Seppe
che Temistocle è in Susa, e grandi offerte
fará per ottenerlo.
Serse. Or troppo abusa
della mia tolleranza: udir nol voglio:
parta, ubbidisca. (Sebaste s’incammina)
Rossane. (È amor quell’ira.)
Serse. (a Sebaste) Ascolta:
meglio pensai. Va’, l’introduci. Io voglio
punirlo in altra guisa. (parte Sebaste)
Rossane. I tuoi pensieri
spiegami alfin.
Serse. Tempo or non v’è. (volendo partire)
Rossane. Prometti
pria con me di spiegarti,
e poi, crudel, non mi rispondi e parti!
Serse. Quando parto e non rispondo,
se comprendermi pur sai,
tutto dico il mio pensier.
Il silenzio è ancor facondo,
e talor si spiega assai
chi risponde col tacer. (parte)
SCENA IV
Rossane e poi Aspasia.
trionfa Aspasia. Ecco l’altèra. E quale
è il gran pregio che adora
Serse in costei? (considerando Aspasia)
terminati, o Rossane?
Rossane. (come sopra) (Io non ritrovo
di nodi sí tenaci
tanta ragion.)
Aspasia. Che fai? Mi guardi e taci!
Rossane. Ammiro quel volto,
vagheggio quel ciglio,
che mette in periglio
la pace d’un re.
Un’alma confusa
da tanta bellezza
è degna di scusa,
se manca di fé. (parte)
SCENA V
Aspasia, poi Lisimaco.
come tormenti un cor! Ti provo, oh Dio!
per Lisimaco anch’io.
Lisimaco. (Solo un istante
bramerei rivederla, e poi... M’inganno?
ecco il mio ben.)
Aspasia. Non può ignorar ch’io viva:
troppo è pubblico il caso. Ah! d’altra fiamma
arde al certo l’ingrato; ed io non posso
ancor di lui scordarmi? Ah! sí, disciolta
da questi lacci ormai... (volendo partire)
Lisimaco. Mia vita, ascolta.
Aspasia. Chi sua vita mi chiama?... Oh stelle!
Lisimaco. Il tuo
Lisimaco fedele. A rivederti
pur, bella Aspasia, il mio destin mi porta.
Aspasia. Aspasia! Io non son quella: Aspasia è morta.
so che mentí; so per quai mezzi il cielo
te conservò.
Aspasia. Giá che tant’oltre sai,
che per te piú non vivo ancor saprai.
Lisimaco. Deh! perché mi trafiggi
sí crudelmente il cor?
Aspasia. Merita invero
piú di riguardo un sí fedele amico,
un sí tenero amante. Ingrato! e ardisci,
nemico al genitore,
venirmi innanzi e ragionar d’amore?
Lisimaco. Nemico! Ah! tu non vedi
le angustie mie. Sacro dover m’astringe
la patria ad ubbidir; ma in ogni istante
contrasta in me col cittadin l’amante.
Aspasia. Scòrdati l’uno o l’altro.
Lisimaco. Uno non deggio,
l’altro non posso; e, senza aver mai pace,
procuro ognor quel che ottener mi spiace.
Aspasia. Va’, lode al ciel, nulla ottenesti.
Lisimaco. Oh Dio!
pur troppo, Aspasia, ottenni. Ah! perdonate,
se al dolor del mio bene
donai questo sospiro, o dèi d’Atene.
Aspasia. (Io tremo!) E che ottenesti?
Lisimaco. Il re concede
Temistocle alla Grecia.
Aspasia. Aimè!
Lisimaco. Pur ora
rimandarlo promise, e la promessa
giurò di mantener.
Aspasia. Misera! (Ah! Serse
punisce il mio rifiuto.)
Lisimaco, pietá. Tu sol, tu puoi
salvarmi il padre.
giá forse il re dove adunati sono
il popolo e le schiere. A tutti in faccia,
consegnarlo vorrá. Pensa qual resti
arbitrio a me.
Aspasia. Tutto, se vuoi. Concedi
che una fuga segreta...
Lisimaco. Ah! che mi chiedi?
Aspasia. Chiedo da un vero amante
una prova d’amor. Non puoi scusarti.
Lisimaco. Oh Dio! fui cittadin prima d’amarti.
Aspasia. Ed obbliga tal nome
d’un innocente a procurar lo scempio?
Lisimaco. Io non lo bramo: il mio dovere adempio.
Aspasia. E ben, facciamo entrambi
dunque il nostro dovere: anch’io lo faccio.
Addio.
Lisimaco. Dove t’affretti?
Aspasia. A Serse in braccio.
Lisimaco. Come!
Aspasia. Egli m’ama, e ch’io soccorra un padre
ogni ragion consiglia.
Anch’io prima d’amarti ero giá figlia.
Lisimaco. Senti. Ah! non dare al mondo
questo d’infedeltá barbaro esempio.
Aspasia. Sieguo il tuo stile: il mio dovere adempio.
Lisimaco. Ma sí poco ti costa...
Aspasia. Mi costa poco? Ah, sconoscente! Or sappi
per tuo rossor che, se consegna il padre,
Serse me vuol punir. Mandò poc’anzi
il trono ad offerirmi, e questa, a cui
nulla costa il lasciarti in abbandono,
per non lasciarti ha ricusato il trono.
Lisimaco. Che dici, anima mia!
Aspasia. Tutto non dissi:
senti, crudel. Mille ragioni, il sai,
ridotta al duro passo
di lasciarti per sempre, il cor mi sento
sveller dal sen. Dovrei celarlo, ingrato!
vorrei, ma non ho tanto
valor che basti a trattenere il pianto.
Lisimaco. Deh! non pianger cosí: tutto vogl’io,
tutto... (Ah, che dico!) Addio, mia vita, addio.
Aspasia. Dove?
Lisimaco. Fuggo un assalto
maggior di mia virtú.
Aspasia. Se di pietade
ancor qualche scintilla...
Lisimaco. Addio, non piú: giá il mio dover vacilla.
Oh dèi, che dolce incanto
è d’un bel ciglio il pianto!
chi mai, chi può resistere?
quel barbaro qual è?
Io fuggo, amato bene;
ché, se ti resto accanto,
mi scorderò d’Atene,
mi scorderò di me. (parte)
SCENA VI
Aspasia sola.
ormai l’unica speme è che mi resta:
che pena, oh Dio, che dura legge è questa!
A dispetto — d’un tenero affetto,
farsi schiava d’un laccio tiranno
è un affanno, — che pari non ha.
Non si vive, se viver conviene
chi s’abborre chiamando suo bene,
a chi s’ama negando pietá. (parte)
SCENA VII
Grande e ricco padiglione aperto da tutti i lati, sotto di cui trono alla destra, ornato d’insegne militari. Veduta di vasta pianura, occupata dall’esercito persiano disposto in ordinanza.
Serse e Sebaste con séguito di satrapi, guardie e popolo;
poi Temistocle, indi Lisimaco con greci.
ricusa le mie nozze?
Sebaste. È, al primo invito,
ritrosa ogni beltá. Forse in segreto
arde Aspasia per te; ma il confessarlo
si reca ad onta, ed a spiegarsi un cenno
brama del genitor.
Serse. L’avrá.
Sebaste. Giá viene
l’esule illustre e l’orator d’Atene.
Serse. Il segno a me del militare impero
fa’ che si rechi.
Serse va in trono, servito da Sebaste. Uno de’ satrapi porta sopra bacile d’oro il bastone del comando, e lo sostiene vicino a lui. Intanto nello approssimarsi, non udito da Serse, dice Lisimaco a Temistocle quanto siegue.
amico, il ciel mi destinò! Con quanto
rossor...)
Temistocle. (Di che arrossisci? Io non confondo
l’amico e il cittadin. La patria è un nume,
a cui sacrificar tutto è permesso:
anch’io, nel caso tuo, farei l’istesso.)
Serse. Temistocle, t’appressa. In un raccolta
ecco de’ miei guerrieri
a tante squadre ormai
che un degno condottier; tu lo sarai.
Prendi: con questo scettro, arbitro e duce
di lor ti eleggo. In vece mia punisci,
premia, pugna, trionfa. È a te fidato
l’onor di Serse e della Persia il fato.
Lisimaco. (Dunque il re mi deluse,
o Aspasia lo placò.)
Temistocle. Del grado illustre,
monarca eccelso, a cui mi veggo eletto,
in tua virtú sicuro,
il peso accetto e fedeltá ti giuro.
Faccian gli dèi che meco
a militar per te venga Fortuna;
o, se sventura alcuna
minacciasser le stelle, unico oggetto
Temistocle ne sia. Vincan le squadre,
perisca il condottiero: a te ritorni
di lauri poi, non di cipressi cinto,
fra l’armi vincitrici il duce estinto.
Lisimaco. In questa guisa, o Serse,
Temistocle consegni?
Serse. Io sol giurai
di rimandarlo in Grecia. Odi se adempio
le mie promesse. Invitto duce, io voglio
punito alfin quell’insolente orgoglio.
Va’: l’impresa d’Egitto
basta ogni altro a compir; va’ del mio sdegno
portatore alla Grecia. Ardi, ruina,
distruggi, abbatti, e fa’ che senta il peso
delle nostre catene
Tebe, Sparta, Corinto, Argo ed Atene.
Temistocle. (Or son perduto!)
Lisimaco. E ad ascoltar m’inviti...
Serse. Non piú: vanne e riporta
l’esule in Grecia e quai compagni ei guida.
Lisimaco. (Oh patria sventurata! oh Aspasia infida!)
(parte co’ greci)
SCENA VIII
Temistocle, Serse e Sebaste.
Serse. Duce, che pensi?
Temistocle. Ah! cambia
cenno, mio re. V’è tanto mondo ancora
da soggiogar.
Serse. Se della Grecia avversa
pria l’ardir non confondo,
nulla mi cal d’aver soggetto il mondo.
Temistocle. Rifletti...
Serse. È stabilita
di giá l’impresa; e chi si oppon, m’irríta.
Temistocle. Dunque eleggi altro duce.
Serse. Perché?
Temistocle. Dell’armi perse
io depongo l’impero al piè di Serse.
(depone il bastone a piè del trono)
Serse. Come!
Temistocle. E vuoi ch’io divenga
il distruttor delle paterne mura?
No, tanto non potrá la mia sventura.
Sebaste. (Che ardir!)
Serse. Non è piú Atene, è questa reggia
la patria tua: quella t’insidia, e questa
t’accoglie, ti difende e ti sostiene.
Temistocle. Mi difenda chi vuol: nacqui in Atene.
È istinto di natura
le spelonche natie le fiere istesse.
Serse. (Ah! d’ira avvampo.) Ah! dunque Atene ancora
ti sta nel cor? Ma che tanto ami in lei?
Temistocle. Tutto, signor: le ceneri degli avi,
le sacre leggi, i tutelari numi,
la favella, i costumi,
il sudor che mi costa,
lo splendor che ne trassi,
l’aria, i tronchi, il terren, le mura, i sassi.
Serse. Ingrato! e in faccia mia (scende dal trono)
vanti con tanto fasto
un amor che m’oltraggia?
Temistocle. Io son...
Serse. Tu sei
dunque ancor mio nemico. Invan tentai
co’ benefizi miei...
Temistocle. Questi mi stanno,
e a caratteri eterni,
tutti impressi nel cor. Serse m’addíti
altri nemici sui:
ecco il mio sangue, il verserò per lui.
Ma della patria a’ danni
se pretendi obbligar gli sdegni miei,
Serse, t’inganni: io morirò per lei.
Serse. Non piú: pensa e risolvi. Esser non lice
di Serse amico e difensor d’Atene:
scegli qual vuoi.
Temistocle. Sai la mia scelta.
Serse. Avverti:
del tuo destin decide
questo momento.
Temistocle. Il so pur troppo.
Serse. Irríti
chi può farti infelice.
Temistocle. Ma non ribelle.
Temistocle. Non l’onor mio.
Serse. T’odia la Grecia.
Temistocle. Io l’amo.
Serse. (Che insulto, oh dèi!) Questa mercede ottiene
dunque Serse da te?
Temistocle. Nacqui in Atene.
Serse. (Piú frenarmi non posso.) Ah! quell’ingrato
toglietemi d’innanzi:
serbatelo al castigo. E pur vedremo
forse tremar questo coraggio invitto.
Temistocle. Non è timor dove non è delitto.
Serberò fra’ ceppi ancora
questa fronte ognor serena:
è la colpa, e non la pena,
che può farmi impallidir.
Reo son io: convien ch’io mora,
se la fede error s’appella;
ma per colpa cosí bella
son superbo di morir.
(parte, seguito da alcune guardie)
SCENA IX
Serse, Sebaste, Rossane e poi Aspasia.
Serse. Ah! principessa,
chi crederlo potea? Nella mia reggia,
a tutto il mondo in faccia,
Temistocle m’insulta. Atene adora,
se ne vanta, e per lei
l’amor mio vilipende e i doni miei.
Rossane. (Torno a sperar.) Chi sa? Potrá la figlia
svolgerlo forse.
son miei nemici. È naturale istinto
l’odio per Serse ad ogni greco. Io voglio
vendicarmi d’entrambi.
Rossane. (Felice me!) Della fedel Rossane
tutti non hanno il cor.
Serse. Lo veggo, e quasi
del passato arrossisco.
Rossane. E pure io temo
che, se Aspasia a te viene...
Serse. Aspasia! Ah! tanto
non ardirá.
Aspasia. Pietá, signor!
Rossane. (piano a Serse) (Lo vedi
se tanto ardí? Non ascoltarla.)
Serse. (piano a Rossane) (Udiamo
che mai dirmi saprá.)
Aspasia. Salvami, o Serse,
salvami il genitor. Donalo, oh Dio!
al tuo cor generoso, al pianto mio.
Serse. (Che bel dolor!)
Rossane. (Temo l’assalto.)
Serse. E vieni
tu grazie ad implorar? tu che d’ogni altro
forse piú mi disprezzi?
Aspasia. Ah! no, t’inganni:
fu rossor quel rifiuto. Il mio rossore
un velo avrá, se il genitor mi rendi:
sará tuo questo cor.
Rossane. (Fremo.)
Serse. E degg’io
un ingrato soffrir, che i miei nemici
ama cosí?
Aspasia. No, chiedo men. Sospendi
sol per poco i tuoi sdegni: ad ubbidirti
forse indurlo potrò. Mel nieghi? Oh dèi,
niun partí sconsolato: io son la prima,
che lo prova crudel! No, non lo credo;
possibile non è. Questo rigore
è in te stranier, ti costa forza. Ostenti
fra la natia pietá l’ira severa;
ma l’ira è finta e la pietade è vera.
Ah! sí, mio re, cedi al tuo cor; seconda
i suoi moti pietosi e la mia speme,
o me spirar vedrai col padre insieme.
Serse. Sorgi. (Che incanto!)
Rossane. (Ecco, delusa io sono.)
Serse. Fa’ che il padre ubbidisca, e gli perdono.
Di’ che a sua voglia eleggere
la sorte sua potrá;
di’ che sospendo il fulmine,
ma nol depongo ancor;
che pensi a farsi degno
di tanta mia pietá;
che un trattenuto sdegno
sempre si fa maggior.
(parte col séguito de’ satrapi e le guardie)
SCENA X
Aspasia, Rossane e Sebaste.
Aspasia. Scusa, Rossane,
un dover che m’astrinse...
Rossane. Agli occhi miei
invólati, superba! Hai vinto, il vedo;
lo confesso, ti cedo:
brami ancor piú? Vuoi trionfarne? Ormai
troppo m’insulti: ho tollerato assai.
compatisco il tuo dolore:
tu non puoi vedermi il core,
non sai come in sen mi sta.
Chi non sa qual è la face,
onde accesa è l’alma mia,
non può dir se degna sia
o d’invidia o di pietá. (parte)
SCENA XI
Rossane e Sebaste.
Rossane. Ah, Sebaste, ah, potessi
vendicarmi di Serse!
Sebaste. Pronta è la via. Se a’ miei fedeli aggiungi
gli amici tuoi, sei vendicata, e siamo
arbitri dello scettro.
Rossane. E quali amici
offrir mi puoi?
Sebaste. Le numerose schiere
sollevate in Egitto
dipendono da me. Le regge Oronte
per cenno mio, col mio consiglio. Osserva:
questo è un suo foglio.
(le porge un foglio ed ella il prende)
Rossane. Alle mie stanze, amico,
vanne, m’attendi: or sarò teco. È rischio
qui ragionar di tale impresa.
Sebaste. E poi
sperar poss’io...
Rossane. Va’: sarò grata. Io veggo
quanto ti deggio, e ti conosco amante.
Sebaste. (Pur colsi alfine un fortunato istante.) (parte)
SCENA XII
Rossane sola.
d’opprimer chi adorasti? Ah! sí; l’infido
troppo mi disprezzò: de’ torti miei
paghi le pene. A mille colpi esposto
voglio mirarlo a ciglio asciutto, e voglio
che, giunto all’ora estrema...
Oh Dio! vanto fierezza, e il cor mi trema.
Or a’ danni d’un ingrato
forsennato — il cor s’adira:
or d’amore, in mezzo all’ira,
ricomincia a palpitar.
Vuol punir chi l’ha ingannato;
a trovar le vie s’affretta:
e abborrisce la vendetta
nel potersi vendicar.