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I.
Non sapevo più nulla di Giorgio La Ferlita allorchè ricevetti il biglietto che m’invitava alle sue nozze. Dacchè si era messo nella carriera diplomatica non ci eravamo visti che a rari intervalli, e come di sfuggita. L’ultima volta che l’avevo incontrato a Firenze, in tutta la pompa della sua cravatta bianca, arrivava dal Giappone, e ci stringemmo la mano alla tavola rotonda dell’Albergo della pace. Il mio amico era un bel giovane, pieno di brio, alquanto sarcastico e motteggevole, con una vernice di buona compagnia raccolta qua e là, a Londra e a Vienna, un po’ commesso viaggiatore in uniforme d’addetto d’ambasciata. Fu gentilissimo verso di me, mi riconobbe subito, non mi parlò de’ suoi viaggi, e a mo’ di ringraziamento gli offersi un sigaro mentre prendevamo il caffè; me lo ricambiò con uno de’ suoi, accennandomene però la lontana provenienza: il discorso si metteva sul freddino, e finì lì; ci facemmo grandi promesse di vederci spesso, e ci incontrammo due o tre volte sul vestibolo, mentre egli sortiva ed io entravo, o viceversa. Un bel mattino poi mi capitò in camera come una bomba, parlandomi di non so che duello pel quale mi pregava di assisterlo con tali discorsi e tal viso da spiritato che dissi di no due volte invece di una, e naturalmente ci lasciammo meno amici di prima. Due giorni dopo seppi ch’era stato inchiodato al letto da un colpo di spada, e andai a trovarlo; egli aveva la febbre; mi narrò una storia la quale sembrava anch’essa un delirio febbrile, e che racconterò forse in seguito.
Durante la sua convalescenza andavo a trovarlo quasi tutti i giorni; egli mi teneva il broncio , e per dir la verità un po’ di rimorso l’avevo anch’io. Un mattino lo sorpresi mentre in fretta e in furia stava facendo le sue valigie; non mi disse dove andava, non mi disse perchè partiva, mi rispose per monosillabi, con impazienza nervosa. L’accompagnai sino alla stazione, e in mezzo al gran brulichio della folla sembravami completamente sbalordito; al momento di prendere il biglietto mi domandò se quella corsa coincidesse colla partenza del piroscafo da Napoli per Costantinopoli.
— Ma dove vai? gli chiesi alfine.
— Non lo so; vado a Napoli per ora. To’, guarda! E con improvvisa risoluzione mi mostrò un biglietto di visita sul quale era scritto:
« Vi amo, parto, addio. »
Nient’altro; il nome era stato raschiato col temperino, e sul biglietto rimaneva soltanto una corona di conte, in alto, e quella sola linea fine, elegante, ondulante, che sembrava sdraiarsi mollemente sotto quella corona, stirandosi le braccia, proprio per far perdere la testa al mio povero Giorgio, il quale di per sè non ne aveva già molta.
Lo rividi due mesi dopo al Doney, col naso al vento, come uomo cui il vento spiri secondo e imbalsamato di tutti i profumi della giovinezza. Mi fece una lunga chiacchierata di certi danari che aveva aspettato inutilmente a Napoli, e di certa Palmira che avea rapito ai trionfi del San Carlo per ingannare la noia della bolletta. — Quella del biglietto di visita? gli domandai. — Quale? — quasi non si rammentava più. — Ah! no! tutt’ altro! quella lì correva più lesta di me, e sì che non era il borsellino che mi dava peso! Non quella, pur troppo!
E si mise a fissare il fumo che svolgevasi dal suo sigaro. Poi si strinse nelle spalle.
— Ci rivedremo, mi disse, e non ci rivedemmo altro. Giorgio era stato sempre uno di quei fortunati che attraversano la vita in carrozza, come soleva venire a scuola quando faceva troppo freddo, o quando faceva troppo caldo, ciò che per caso durava tredici mesi dell’anno. A vent’anni aveva pubblicato un volume di versi che posarono un’aureola precoce sui suoi capelli biondi; a trenta correva per le capitali e le alcove a spese dello Stato — è vero che babbo La Ferlita, pur brontolando, aiutava parecchio lo Stato. — Suo padre, onesto e forte lavoratore venuto su dal nulla, adorava con tenerezza materna cotesto ragazzo delicato e linfatico; avea dedicato tutto sè stesso e tutto il suo avere a spianargli la via che eragli sembrata la più bella perchè il figliuolo ci si divertiva, e a mettergli della bambagia sotto i piedi; se avesse potuto, con quell’esagerazione del sentimento di protezione, e nel tempo istesso di devozione verso il debole che c’è nei caratteri generosi e robusti, avrebbe portato sulle braccia il suo bambino sino ai trent’anni. Giorgio era arrivato alla maturità della giovinezza senza un ostacolo, senza una contrarietà, senza avere l’occasione di impiegare una sola delle sue facoltà virili nelle lotte della vita. Il buon padre sorrideva del suo grosso riso contento allorchè scorgeva nel giovinetto le debolezze nervose e le grazie femminili che gli rammentavano la sua povera moglie.
Così Giorgio non aveva dovuto occuparsi, per 365 giorni dell’ anno che della cera dell’ usciere di Sua Eccellenza, e del sorriso delle donne. Ora che era un uomo serio, un tantino materialista come conviensi a diplomatico, non faceva più versi, anzi si vergognava di averne fatti, ma giovavasi della vecchia abitudine di guardare in aria per mettere del cobalto nel suo orizzonte, e faceva servire la linfa che c’era nel suo organismo da poeta a rendere più soffici i cuscini di quel tal cocchio che lo menava attraverso la giovinezza allegramente e a quattro cavalli. Quando qualche sassolino ne faceva rimbalzare le ruote — un pentimento, un rimorso di dieci minuti, una stretta involontaria di cuore, un rossore importuno — egli si voltava dall’ altra parte, si rannicchiava, si stirava le braccia sbadigliando, chiudeva gli occhi per non vederci, diceva: — E la passione! — e si rimetteva a sonnecchiare coll’animo in pace.
Ora cotesto farfallino avea buttato la sua uniforme in mezzo ai ventimila filari della stupenda vigna che gli portava in dote la signorina Ruscaglia, e s’era convertito al matrimonio, un bel matrimonio che gli dava 600,000 lire, ed una magnifica bruna — Giorgio avea sempre preferito le brune, quando aveva potuto, e quella era proprio un bel tocco di bruna, la quale prometteva di fare onore alle vesti scollacciate che lo sposo, con un po’ d’opposizione della suocera, avea fatto ordinare a Firenze. Allorchè il nostro amico venne a stringerci la mano sulla porta della chiesetta di Tremestieri avea l’occhio luminoso e il sorriso trionfante del dì in cui la moglie dell'ambasciatore inglese s’era lasciato rapire il più bel guanto di questo mondo. Babbo La Ferlita era morto lasciando al figliuolo una bella educazione, una bella carriera, ed un bellissimo avvenire che avea punzecchiato e smunto l’ambizioncella e la borsa dal buon negoziante di zolfi. Giorgio, senza neppur metter piede a terra, non avea dovuto far altro che passare dalla sua alla carrozza della sposa.
La cerimonia fu breve, tutta luce di sole, profumo di fiori, e allegria di bianche pareti; sembrava che le nostre giubbe e il fazzoletto della suocera, ingiallito nel guardaroba, tutto ricami e fradicio di lagrime, fossero le sole cose tristi che esistessero. I due sposi partirono in mezzo agli augurj e alle strette di mano, ancora circondati da un leggero velo d’incenso, tenendosi a braccetto, la sposa un po’ impettita, un po’ serrata nel suo vestito grigio svolazzante in balzane a sgonfietti, un po’ imbarazzata dall’aria signorile dello sposo, dall’ombrellino appeso alla cintura, dal velo azzurro che imbrogliavasi nel grosso nodo delle trecce. La carrozza li aspettava al piede della larga spianata erbosa, coi postiglioni gallonati a nuovo, in mezzo ad una folla di contadini estatici e di monelli che si specchiavano facendo boccacce nella vernice luccicante delle fiancate, e si sparpagliarono vociando dinanzi allo scoppiettare delle fruste:
— Buon viaggio agli sposi!
Buon viaggio! e non vi voltate mai più verso tutto quello che vi lasciate dietro in mezzo alla polvere che fugge, voi signora, i romanzi nebulosi della cameretta tappezzata di carta a grandi fiori azzurri, quel volume del Prati prestato e ridomandato venti volte, dal quale avete invano cercato di far scomparire i segni impercettibili fatti coll’ unghia, quel piccolo orologio, regalo della nonna, sul quale volgeste tante occhiate furtive, agucchiando presso la mamma, nell’ora in cui egli — quell’altro — soleva venire, e quell’ultima stretta di mano che scambiaste allorchè egli partiva pel collegio di marina, prima di fuggire e rintanarvi nella cameretta dai fiori azzurri come un uccelletto letto ferito — e tu, Giorgio, tutti i sorrisi che rallegrarono le pagine del tuo album da scapolo, e tutti i biglietti che profumarono il cassetto del tuo scrittoio, ti rammenti? E quell’altro biglietto singolare, senz’altro nome all’infuori di una corona di contessa, e senz’altra data che il giorno di una febbre, di una follìa, che è passata, lontana, molto lontana, ti rammenti?
Io me ne rammento ancora, dopo tanto tempo, e non ho vista colei che una sola volta, e mi sembra d’averla ancora dinanzi agli occhi, in quella gran sala d’albergo triste e nuda, mentre stendeva presso il fuoco le mani pallide e scintillanti di gemme, e mi fissava in volto gli occhi febbrili.