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IV.
Il villino abitato dalla contessa era nel viale Principe Amedeo, le sue finestre chiudevano da tre lati un giardinetto tascabile, largo cinquanta metri, ma aveano di faccia S. Miniato e il leggiadro serpeggiamento del Viale dei Colli. Le aiuole verdi del giardino, grandi come tappeti da bigliardo, e quegli alberi nani facevano un bel vedere sulla facciata nuova, lisciata e imbellettata, e sulle finestre di cui i vetri irradiavansi dei colori delle tende allorchè il sole vi batteva sopra. Alla sera, dalle otto alle undici, mentre i rumori della città si perdevano in lontananza, la luce che scaturiva da quelle finestre pigiantesi fra di loro, adorne, civettuole, foderate di velo e di damasco, ricamava a giorno come un merletto il disegno della cancellata sul marciapiede della larga via oscura e quasi deserta, e lambiva le foglie lucenti delle magnolie. Le poche persone che passavano si fermavano un istante, o mettevano il capo allo sportello della carrozza, per rallegrarsi la vista di quella luce, di quei luccichii che carezzavano qua e là i mobili e le stoffe, di quel dolce tepore profumato che indovinavasi, e immergendosi nel buio, mentre si allontanavano, si voltavano ancora per cercare di leggere un sorriso sulla faccia di quella dimora felice.
Al di dentro quella dimora felice avea un altro aspetto. Nella stanza più lontana dalla via, nell’angolo più remoto, stava di solito Nata, vicino al camino, illividita dagli azzurri bagliori della fiamma, cogli occhi semichiusi, come enormi macchie nere sul viso smorto, allungando i piedi sul tappeto, abbandonando il capo sulla poltrona, sfogliando le pagine di un libro o trastullandosi macchinalmente colla ventola. Tutte le altre stanze erano vuote, mute, fredde; il domestico passeggiava silenzioso nell’anticamera, e in mezzo a quel silenzio lo scoppiettare dei tizzi, il tic-tac dell’orologio, o il rumore delle carozze che passavano nella via avea qualcosa di triste.
Allorchè Giorgio era andato a far visita alla contessa, verso le cinque, tutte le finestre della casa luccicavano come specchi; al disopra delle tegole rosse e in mezzo alle guglie sottili dei camini il sole sembrava diffondersi come un’aureola di polvere d’oro. Nata udendo una carrozza che si fermava al cancello aveva vôlto istintivamente il viso verso l’uscio del salotto, con un rapido movimento. Giorgio la trovò presso la stessa finestra, davanti a un piccolo tavolino incrostato di rame dorato, su cui c’erano i suoi libri e le sue lettere, e sembrava più sola e deserta che mai. Il salotto era tutto foderato di seta azzurra, era poco illuminato e vi ardeva un gran fuoco. Quello splendido giorno invernale non metteva nè un raggio, nè un sorriso in quella stanzina. Gli uccelli facevano gazzarra nel giardino elegante e malinconico e fin sulle finestre, e fra i vetri e le tendine vedevasi una lista di cielo terso e limpido. La luce attraverso la seta delle tende penetrava tenera, diffusa, e nell’angolo del caminetto era assorbita dai chiarori rossastri della fiamma. Nata, colle spalle rivolte a quel quadrato di luce azzurrina, sembrava quasi al buio, i suoi occhi parevano più grandi e profondi, e il suo pallore sembrava quasi verdastro. Ella battè le mani con un movimento infantile, e stendendogliele entrambe, col suo più bel sorriso:
—Bravo! Se sapesse come giunge in buon punto, e come le son grata della sua visita! Vede? Tutta la mia vita si passa così, a contar gli alberi del viale. Ed ecco la mia più grande distrazione.
Giorgio si chinò ad esaminare la grande distrazione, un disegno giapponese che la contessa stava incollando su di una ventola, e si misero a discorrere delle industrie di quel paese dove La Ferlita avea passato parecchi anni come addetto alla Legazione; Nata gli faceva mille domande una più bizzarra dell’altra, e di tanto in tanto, senza pensarci, gli piantava in volto quei suoi occhioni penetranti e impenetrabili. Tutt’a un tratto, fra la descrizione di un bronzo niellato e di un lavoro in avorio, gli domandò:
—Dev’essere un po’ in broncio con me, dica?
Egli levò il capo bruscamente; la contessa non lo guardava neppure, teneva il disegno attraverso alla luce, per vedere se fosse disteso abbastanza, ammiccando un po’ degli occhi, colle mani in alto, bianche come cera e leggermente trasparenti nei contorni. Non sembrava nemmeno che avesse fatto quella domanda.
—Io! disse alfine La Ferlita.
—Si, un peu, beaucoup, passionnément - passionnément!
—Mais non! rien du tout!
Ella si voltò, colle mani ancora in aria e il disegno che faceva da trasparente. —Davvero? tanto meglio! Non può immaginare qual piacere mi faccia...
E chinando il capo con quella sua aria da statua che non lasciava indovinare se scherzasse o dicesse sul serio, aggiunse con un certo sibilo nell’accento:
—Merci!
Successe un istante di silenzio; ella sembrava tutta intenta al suo lavoro: poi lo buttò in un cestino e andò a posare il piede sul paracenere, rialzando un po’ la veste e appoggiando il gomito al piano del camino.
—È stato sempre a Firenze tutto questo tempo, dacchè non ci siamo visti?
—Sì, all’infuori di un mese di congedo, che poi si fece di otto settimane.
—Non l’avevo più visto dopo il mio ritorno, e credevo fosse partito.
—Io però l’avevo vista.
—Dove?
—Alle Cascine, saranno otto o nove giorni.
—Non l’avrò riconosciuto. Era una delle prime volte che incominciavo ad uscire in carrozza, ed ero ancor debolissima, la folla mi dava il capogiro.
—Adesso però sta molto meglio.
—Si, adesso sto bene...
La Ferlita il quale era venuto sognando senza sapere precisamente che cosa, ma tutto pieno dell’immagine di quella donna che gli avea fatto girar la testa come un ragazzo, a poco a poco era rientrato nella sua pelle vedendola da vicino e discorrendo tranquillamente con lei tanto semplice e naturale; Nata era assai leggiadra, così ritta dinanzi al fuoco, ma nulla più, e solo allorquando fissavagli in viso gli sguardi egli sentivasi sconcertato e perdeva alquanto della sua disinvoltura. Allorchè si levò per andarsene ella stendendogli la mano:
—Presto, non è vero? gli disse.
Nell’andarsene La Ferlita diceva fra di sè:
—Giorgio, amico mio, m’è entrato il sospetto che tu ci abbia fatto una figura ridicola. Orsù, la testa a casa, e rimediamo al malfatto. Perciò era ritornato altre volte da lei senza farle un briciolo di corte. Ella gli si era mostrata riconoscentissima. Lo accoglieva sempre con un’esclamazione o un sorriso, e gli diceva ch’era proprio una buona azione quella di venire a contare con lei gli alberi del viale. —Che peccato non esserci conosciuti prima, n’è vero? Giorgio rispondeva ridendo: —Ma noi ci conosciamo da un pezzo!
—Conosciuti... cioè, conosciuti! Incontrarsi in un ballo non è punto conoscersi. Ma tant’è, meglio tardi che mai. Del resto, vogliam divertirci questo Carnevale; ella sarà dei nostri: ella, la viscontessa, suo marito, e qualche altro. Faremo delle follie. Non abbia paura, non lo comprometteremo col suo Ministro, o alla peggio lo faremo compromettere con lei.
Nelle belle giornate di dicembre ella lagnavasi sempre d’aver freddo e stavano a discorrere accanto al fuoco che scoppiettava e illuminava di riflessi cangianti il viso scarno e sorridente di lei. Gli avea sempre promesso sorridendo che la prima volta che sarebbe uscita si sarebbe fatta accompagnare da lui. Un giorno, vedendolo entrare, gli domandò:
—Fa molto freddo oggi?
—Punto. È una bellissima giornata.
Ella andò lentamente verso la finestra e sollevò la tendina.
—Infatti, disse sbadatamente, sarebbe proprio la giornata...
Il largo viale inondato di sole sembrava in festa. Passavano dei contadini che erano stati a vendere in piazza d’Azeglio, dei commessi che avevano preso da porta San Gallo per andare a porta San Nicolò, e delle sartine che avevano dimenticato la loro scatola dalla portinaia, a coppie, rasentando i muri o serpeggiando per la via, tenendosi per mano, dondolando le braccia o tirando in su il vestitino nuovo sugli stivalini polverosi; passavano pure due carri, qualche fiacre aperto, lesto, chiassone, scoppiettando la frusta, oppure colle tendine calate che lasciavano passare una mano o un occhio curioso; e in mezzo a tutto questo va e vieni, dei passeri vispi e petulanti che saltellavano sul marciapiedi. La cupola del Duomo, il campanile, e la torre di Palazzo Vecchio, spiccavano sul cielo con profili netti, su di un caos di tetti e di guglie; più in là il palazzo Pitti, bruno e severo, sembrava appoggiarsi alla gran spalliera di verdura del Giardino Boboli. In fondo la leggiadra cintura dei colli stendevasi come un immenso giardino punteggiato di ville bianche e screziato di getti d’acqua, di masse di verdi e di bianchi viali serpeggianti; e dietro il vasto piazzale, di cui la balaustrata si disegnava sull’azzurro, e il profilo grazioso della Bella Villanella, un immenso sfondo ceruleo, digradante una luce opalina sui verdi contorni delle colline.
—Ma mi sento molto stanca, come se avessi camminato tanto quanto tutta quella gente lì. Costoro si danno bel tempo, come se non avessero altro da fare!...
C’era del corruccio nella sua voce e nella ruga verticale che solcò un momento la sua fronte. La contessa stava sempre meglio, riceveva quasi tutte le sere la de Rancy, Giorgio, e tre o quattro altri; di tutti i suoi amici La Ferlita era divenuto il più assiduo, passava soventi le sere intere in via Principe Amedeo, presso il caminetto, col thè fumante sul tavolino, e se pur gli balenava in mente il desiderio di baciarle la mano delicata, lo faceva da dilettante, per una vecchia abitudine, quasi per un obbligo di cortesia, e non pensava più che sarebbe stato possibile perdere la testa per quella leggiadra signora colla quale passava così piacevolmente la sera, in tranquilla intimità. Un giorno le disse ridendo:
—Perchè la prima volta che son venuto a farle visita mi ha domandato se fossi stato in broncio con lei?... Dica la verità... c’è stato un momento, tempo fa, in cui devo esserle sembrato assai ridicolo!
Ella aggrottò le sopracciglia, o perchè la domanda la pungesse, o perchè cercasse risovvenirsi. —Ridicolo? e perchè?
—Giacchè non lo sa, o giacchè non si rammenta, tanto meglio... Non ne parliamo altro.
—Ma sì, mi rammento. Però non mi sembra ridicolo battersi per la sua dama; io ero la sua dama... allora, in quel quarto d’ora, nient’altro.
Egli, che era stato ad un pelo di rimetterci la pelle invece di far delle armi, si accorse che il meglio era riderne anche lui. Così su quel passato, imbarazzante per ambedue, ella avea messo risolutamente, con grazia, il suo stivalino polacco, egli s’era chinato ad ammirare il piede, e non se n’era più parlato.