< Tigre reale
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VI VIII


VII.



La contessa pagò la passeggiata al chiaro di luna con parecchi giorni di febbre, e Giorgio che non era stato più in casa sua lo seppe al Circolo, desinando con San Damiano e Colli. Ella non s’era fatta più viva, e non gli aveva scritto un sol rigo come soleva fare pel passato allorchè desiderava vederlo, sicchè poteva ben credere ch’egli avesse preso alla lettera il buon viaggio datogli, e fosse partito per Lisbona. Nonostante la sera istessa andò a chiedere notizie di lei, e mentre il domestico gli diceva che la signora stava molto meglio, sopraggiunse Nata, vestita per uscire, col mantello sulle spalle. Vedendo La Ferlita, gli tese amichevolmente la mano, come nulla fosse stato fra di loro, dicendogli: — Sto meglio, grazie. Giorgio balbettava qualche parola. — Vado alla Pergola; volete accompagnarmi, se non avete nulla da fare?

Da porta San Gallo alla Pergola scambiarono poche parole, Giorgio scusandosi alla meglio per non esser venuto, ed ella dicendogli che alla fin fine non era stato nulla, ma che si era annoiata moltissimo. Sembrava che non ci fosse un’ombra d’imbarazzo fra di loro, eppure divagavano troppo nei discorsi e mettevano contemporaneamente il capo allo sportello ad ogni voltata che faceva la carrozza, per vedere se fossero arrivati. Nata intanto si snodava i nastri del cappuccio, e la seta dell’ovatta rendeva un fruscìo che, così nell’oscurità, avea qualcosa di vivo e carezzava l’innamorato nelle più intime fibre. Attraversando il vestibolo del teatro Giorgio si scusò di non essere in giubba e voleva lasciarla sul limitare del palchetto. — Non fa nulla, rimanete. Vi metterete in un canto, e discorreremo lo stesso.

Così dicendo lasciò cadere il mantello nelle mani di Giorgio, e si avanzò sul davanti del palchetto, colle braccia nude, gli omeri un po’ magri e come trasalenti alla prima impressione dell’aria, il capo ornato di fiori, l’occhio brillante sul viso imbellettato, appena accerchiato da un leggiero lividore; prima di mettersi a sedere si fermò ritta, appoggiandosi colla mano sul velluto del parapetto, e passò in rivista col cannocchiale le acconciature eleganti, salutando le amiche con un piccolo cenno del capo o con un sorriso. Poi si assise, sciorinando le balzane, assettandosi sul busto la vita scollacciata con dei piccoli movimenti di spalle. La Ferlita fu completamente dimenticato. Durante i due primi atti ella non ci fu che per il pubblico, o per sè stessa, o per lo spettacolo. Fra un atto e l’altro Giorgio era andato a comprarle dei dolci, e al suo ritorno la trovò come l’avea lasciata, attentissima all’opera. Ella lo ringraziò con un cenno del capo, ma il cartoccio rimase intatto sul parapetto. Fino allora non avea rivolto a Giorgio una sola parola.

— Avete fatto bene a non partire senza dirmi addio, gli disse infine col viso rivolto verso la scena, sarei stata molto dolente se non vi avessi visto.

— Scusatemi, anzi. Ho saputo soltanto oggi che siete stata ammalata.

E gli stese la mano.

— Ci lasciamo amici, non è vero?

— E ci rivedremo più amici di prima, spero.

Nata gli rispose con una stretta viva e brusca, ma tosto ritirò la mano e si mise a guardare col binoculo in un palchetto di faccia. Poscia posò il cannocchiale col braccio disteso sul parapetto, e appoggiò le spalle allo schienale della poltrona. Sembrava che lo spettacolo l’assorbisse completamente; di tanto in tanto passavano delle correnti di fluido misterioso in fondo alle sue larghe pupille grigie, e le oscuravano come se le intorbidassero. A poco a poco gli occhi si fecero immobili, si dilatarono, le labbra si strinsero, e parve che il viso si profilasse; appoggiò anche il capo alla parete del palchetto, un po’ indietro e all’oscuro, e più non si mosse; soltanto le trine che le velavano il petto si gonfiavano interrottamente. Giorgio non osava dir nulla ed evitava di guardarla. Infine, sorpreso dalla durata di quella immobilità e di quel silenzio, si chinò alquanto verso di lei per domandarle cosa avesse, ma vide che teneva gli occhi chiusi, e gli sembrò scorgere delle lagrime luccicare fra le lunghe ciglia, nell’ombra. Egli sentì come un’onda improvvisa di amarezza e di voluttà che gli addentava il cuore e lo afferrava alla gola: erano le stesse lagrime dell’altra volta, le quali sgorgavano dal più profondo, ribelli, schive, amarissime su quel viso impenetrabile, sul quale s’indovinava solo la lotta interna e la collera che sarebbe scoppiata se ella fosse stata sorpresa in quel momento. Dalla platea e dai palchi si applaudiva fragorosamente il duetto del Ruy Blas; Nata si scosse, si alzò bruscamente, volgendo in là il capo con un mal celato dispetto, e volle andarsene; avea la voce leggermente velata. Giorgio l’aiutava a mettere il cappuccio nel fondo del palchetto; ella lasciava fare e lì, nella semi oscurità, ritta e palpitante, gli afferrò all’improvviso le tempie, e pallida, seria, risoluta, coll’occhio luccicante, senza dire una parola, gli appoggiò lungamente sulle labbra le labbra umide e calde.

Giorgio l’abbracciò quasi fuori di sè; ella gli appoggiò le mani sul petto, e s’irrigidì, coll’occhio sbarrato in quello di lui, senza vederlo; poi si svincolò dolcemente, ed uscì dal palchetto. Ei la seguiva barcollando, sbalordito, soffocato dalla violenza di quella passione che irrompeva ad un tratto come una tempesta. Nata attraversò il vestibolo a passi affrettati e chiusa nel suo mantello. Lungo tutta la via non aprì bocca, si tenne rincantucciata nell’angolo della carrozza, al buio, stringendosi nelle vesti, e quando i fanali delle cantonate mettevano un raggio guizzante di luce nel fondo della carrozza, Giorgio sorprendeva quegli occhi lucenti, fissi su di lui, con un che d’implacabile che faceva quasi paura su quel viso bianco e rigido. Infine cedendo ad un impulso irresistibile La Ferlita afferrò vivamente la mano di lei che dapprima rispose alla sua stretta con una pressione nervosa, bruciante di febbre sotto il guanto; poi si svincolò bruscamente, quasi con collera.

— Che avete, le domandò.

Ella rispose con voce sorda:

— Mi disprezzo!

In questa il legno si fermava. Nata discese, gli strinse la mano, senza guardarlo; sentendo la stretta di quella di lui, muta, disperata, supplichevole, gli piantò in viso quello stesso sguardo del palchetto, duro e freddo come l’acciaio, luccicante ai fanali della carrozza, e con accento breve e secco:

— Non vi amo, sapete — disse — no!

E lo inchiodò sul marciapiedi con quello sguardo, con quelle parole, allontanandosi senza dir altro.

Era sera di ricevimento in casa de Rancy, e la viscontessa vide giungere La Ferlita così tardi e così stralunato che gli andò incontro premurosamente.

— Cos’è stato?

— Nulla, domani parto per Lisbona e sono venuto a dirle addio.

— Com’è pallido!

— Sarà il freddo; avrò fatto le scale molto in fretta. Quanta gente stasera!

— Ha vista la contessa?

— Sì, sono stato alla Pergola con lei.

— Sta meglio dunque?

— Molto meglio.

— E lei... partirà proprio?

— Ho già fatto le mie valigie.

— Amico mio, dalla sua cera ho paura che perderà la corsa e che tornerà a disfarle.

— E il mio dovere? la mia carriera? il mio ministro?... Se ciò per disgrazia avvenisse, la prego di rendermi un vero servigio: procuri di farmi condurre sino alla frontiera dai carabinieri, colla camicia di forza per giunta.

La viscontessa gli tese la mano, fra seria e ironica:

— S’è così, tanto meglio! buon viaggio dunque, e a rivederci.

In quella sopraggiunse il visconte.

— Partite finalmente? Lasciatemene congratular con voi, mio caro; prima di tutto per la vostra carriera, e poi per cento altre cose. — Così, attraversando le sale a braccetto. — Fate benissimo ad andarvene in questo momento; siete l’amante della contessa, lo dice tutta Firenze, è una bella fortuna, non dico di no; ma è anche una bella fortuna finirla a tempo; suo marito potrebbe capitare da un giorno all’altro; certamente che un incontro con lui non vi metterebbe in pensiero, ma sapete, nella vostra posizione bisogna pure aver dei riguardi; un affare di questo genere con tutt’altra persona non vi nuocerebbe, anzi! ma il conte è uno dei beniamini della corte di Pietroburgo, e voi non siete ancora ambasciatore. Poi cosa potete desiderare dippiù? A Lisbona del resto ci sono delle bellissime donne. È vero che la contessa non ha da temerne il paragone, almeno per voi che ne siete innamorato: è questione di gusti. Venite di là a fumare un sigaro. Insomma si può essere innamorati, lo so; è una donna bizzarra, tutta nervi, tutta a faccette, come un richiamo da allodole, è cosa piacevolissima, interessante, che vi agita, vi scuote, vi fa vivere in un bagno caldo... so cosa vuol dire amare una di queste donne, sia detto ora che la viscontessa non può udirci, si può perderci la testa, ma ecco dove sta appunto il pericolo, amico mio; noi abbiamo la testa sulle spalle per fare i nostri affari e il nostro interesse, lo sapete meglio di me, e non esser ridotti a tirarci su delle pistolettate come quel povero diavolo di Dolski.

— Conoscete anche voi quella storia?

— Chi non la conosce più o meno a Pietroburgo? Quella è una donna pericolosa, per bacco!, bella, bellissima, seducentissima; ma da far paura al Baiardo degli innamorati; io ho conosciuto quel polacco a Varsavia, era un giovane bello e distinto, ma era anche un po’ esaltato, tanto da compromettersi ed esser mandato in Siberia, e da far poi quel che ha fatto... Infine perchè? lo saprete anche voi — per la miseria di un amoretto che s’era permesso mentre lei era a Pietroburgo, e pensate che doveva starci sei mesi! La contessa deve avere delle idee singolari sulla fedeltà mascolina, e punto comode! Egli ruppe il bando, a rischio di tutto, corse a buttarlesi ai piedi; ella non volle vederlo, e gli fece dare quattromila rubli per mezzo del domestico. Il vostro sigaro non accende bene, prendetene un altro, son degli avana fabbricati in Isvizzera, che mi appestano la stanza. Sentite che donna, mio caro! Gli diceva: vi ho comperato, ma non vi ho amato, ora vi pago, l’amore è salvo e senza macchia — l’amore è la sola divinità di costei; egli le scrisse colla febbrile concisione della disperazione, che se non gli avesse perdonato sarebbesi ucciso sotto i suoi occhi. — E il solo mezzo di riabilitarci entrambi— gli fece rispondere.

Giorgio fumava e sembrava distratto. Infine gli disse colla maggiore calma del mondo:

— Dite delle cose giustissime, caro visconte; ma quando siete stato innamorato, cosa avete fatto?

— Quello che state per fare voi. Non sono un eroe, non ho la pretesa di vincere nè me nè gli altri; batto in ritirata: quando mi accorgo di essere sul punto di fare una corbelleria, ci metto di mezzo una bella distanza; il meglio sarebbe di metterci un’altra donna - chiodo scaccia chiodo; il mare vi dà delle melanconie noiosissime, i monti vi danno la nostalgia, la frontiera vi pare che vi stia sullo stomaco - ma la ritirata ad ogni costo, a costo della nostalgia, a costo dello spleen, se non potete metterci un’altra donna; è questione d’ottica, amico mio, quando sarete di là dalle Alpi finirete col far le boccaccie alla corbelleria che stavate per fare. Infine spero che questo viaggio vi sarà utile. — Vi ringrazio.

— E scusatemi anche, caro La Ferlita, se ho chiacchierato troppo, a fin di bene però, vi prego di esserne convinto. Ho detto delle cose che forse in questo momento non avreste voluto udire; quel che ho raccontato della storia del polacco avrà potuto farvi dispiacere; ma in fondo spero che gioverà. È una donna terribile, caro mio, con idee dell’altro mondo, ma che nel nostro, diciamolo fra noi, fanno un effetto assai singolare, e credo vi aiuteranno a partire allegramente.

— Non parto più.

— Siete matto!

— Lo so benissimo, ma non parto più.

— Per quel che vi ho raccontato?

— Forse...

— Caro mio... Io sono stato certamente più matto di voi a non prevederlo. L’indomani, quando Nata meno se lo aspettava, arrivò suo marito.

Marito e moglie solevano farsi buona compagnia per tre o quattro mesi dell’anno, allorchè s’incontravano alla capitale; ma il resto del tempo il conte era sempre lontano e in servizio. Egli dovette indovinare, o si aspettava, la sorpresa della moglie.

— So che state assai meglio, le disse, e credo che vorrete approfittare della buona stagione per tornare in Russia. Ho chiesto un permesso di quindici giorni e son venuto per avere il piacere di accompagnarvi.

Il conte era un gentiluomo sui 40 anni, alto, biondo, un po’ calvo sulla sommità della fronte e invecchiato innanzi tempo; ma nel suo aspetto, nelle sue maniere, in tutto ciò che faceva e diceva aveva una rigidità militare, un certo che di calmo e risoluto che, accompagnato a quel viso pallido e disfatto, imponeva soggezione mista a diffidenza. Avea degli sguardi freddi e penetranti che infastidivano.

— Grazie, rispose Nata.

Però la sera istessa ricevette una lettera misteriosa che le fu recapitata di nascosto per mezzo della sua cameriera.

— Tuo marito ha dei sospetti. Guàrdati.

Il conte non mostrava aver nulla di nulla, e passò il giorno visitando le gallerie e i musei. Rientrando in casa vide dei preparativi di partenza.

— Quando volete partire? domandò alla moglie.

— Anche domani; sono pronta.


La Ferlita intanto non sapeva nulla di quell’arrivo, ed indugiava ad affibbiare le sue valigie. La sera dopo trovò una lettera che l’aspettava sul suo tavolino: «Speravo vedervi un’altra volta. Quando ci siamo lasciati l’altro giorno nè io nè voi sapevamo che quello sarebbe stato il nostro ultimo addio. Ho molto sofferto, sapete; ma nel momento in cui vi scrivo, accanto a quel medesimo tavolino sul quale avete appoggiato la mano tante volte, sembrami di soffocare. Vorrei morire prima di di partire. Pochi giorni sono eravate qui, seduto sul canapè, vi rammentate? avevate il gomito sul bracciuolo, e il cuore mi si spezzava pensando che fra non molto ci saremmo lasciati per sempre. V’erano dei momenti, quando meno lo sospettevate, in cui avrei voluto soffocarvi nelle mie braccia come una pantera gelosa. Vi amo! vi amo! ve lo dico adesso che non vi vedrò mai più; ve lo dico per inchiodarvi questa parola nel cuore, come ho la vostra immagine inchiodata nel mio. Sentite, ora che ve l’ho detto, ora che non mi vedrete più, voi non mi dimenticherete giammai; nessuna passione dell’animo vostro mi sarà rivale: l’amore, il giuoco, l’ambizione, tutto sarà meschino per voi al confronto della memoria di colei cui non avete baciato un dito. Ecco come voglio essere amata: se fossi stata vostra amante, forse saremmo finiti per voltarci le spalle senza dirci addio; ogni giorno che avremmo passato insieme ci avrebbe rapito un’illusione; l’oggetto del mio amore dev’essere superiore a tutti gli altri. Voglio pensare a voi, sempre, nei lunghi dolori, nella solitudine, negli scoramenti che mi aspettano; voglio pensare che mi amerete come cosa al di sopra di voi, che mi cercherete dappertutto col pensiero, anche quando sarò morta. Vi condanno a pensare a me, vi condanno ad adorarmi in ispirito, come una divinità, perchè vi amo! Voi sapete che mi rimangono pochi mesi di vita — voglio sopravvivere in voi. Addio, Giorgio! vi faccio una promessa; verrò a morire vicino a voi, non vi vedrò, avrò la forza di morire in silenzio, ma voi penserete a me, non è vero? Direte, forse in questo momento, ella è là, che si muore. Guardate, piango e vi assicuro che non mi accade di frequente! Vorrei piangere sulle vostre ginocchia.» L’orologio sullo scrittoio suonava gli ultimi rintocchi delle ore che Giorgio non aveva udito; il vento faceva piegare la fiammella della candela; ei si accorse allora che la finestra era aperta. La via era silenziosa e deserta, in alto, al di sopra dei tetti che confondevansi vagamente nell’ombra, formicolavano delle stelle. La Ferlita stette qualche tempo alla finestra, assorto, senza sapere quel che stesse pensando; le ore suonavano a tutti gli orologi della città con toni diversi; di tanto in tanto si levava in mezzo al silenzio il fischio della stazione di Santa Maria Novella; l’unico pensiero, di cui egli avesse una percezione distinta, era che giammai avea creduto ci fossero tanti orologi a Firenze. Finalmente uscì, e andò nel viale Principe Amedeo senza sapere egli stesso perchè. Il villino avea la consueta fisionomia. Qualche volta La Ferlita s’era trovato a passare a notte avanzata dinanzi a quelle finestre — allora se ne ricordava — e avea visto così quella casa, colla sua facciata biancastra e muta su cui si allungavan le ombre degli alberi, e coi suoi contorni che al lume del gas uscivano dall’oscurità con un certo rilievo. Il lampione più vicino del marciapiede lambiva di sbieco le lancie dorate. Al cominciare del viale c’era ancora il solco netto delle ruote di una carrozza signorile; d’insolito non c’era che l’appigionasi, in alto e appeso al cancello, che di quando in quando si moveva nell’ombra agitato dal vento.

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