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XII.
La Ferlita in quel tempo avea, senza dubbio, «il diavolo» che gli avea scoperto il cugino Carlo. Fosse la salute malsana del suo bambino, fosse altro motivo, era evidente che faceva grandi sforzi per dissimulare una insolita agitazione, colmava di carezze il bimbo, ed era pieno di attenzioni e di premure per la moglie; ma in modo singolare, con una certa inquietudine, come se volesse farsi perdonare qualche torto, come avesse qualcosa che lo pungesse, o come se temesse di perdere madre e figlio. Ne’ suoi mille progetti d’andare a passare l’estate in campagna, di cominciare grandi lavori nelle sue terre, di andare ai bagni di Alì, c’era dell’irrequietezza. Gli rincresceva moltissimo che lo stato del bimbo non gli permettesse di mettere in esecuzione su due piedi l’idea fissa che faceva capolino sotto tutte le forme, quella di lasciare la città.
Un giorno ch’ero andato a fargli visita, mi domandò: — Tu che sei all’Albergo dei Bagni... ci sono molti forestieri?
— Pochi, per la stagione che corre.
Egli mi fissò, e non aggiunse altro. Un’altra volta domandò a Rendona: — E la tua ammalata? come sta?
— Come quelli che se ne vanno.
— Dev’essere assai triste morire così sola in paese lontano! aggiunse dopo alcuni istanti di silenzio.
— È giunto suo marito.
— Poveretta! chissà dove correrà il suo pensiero! chissà quanto avrà sofferto per arrivare a tal punto! chissà quale passione l’avrà uccisa!
— Oh la passione! di passione non si muore, mio caro, quando non è accompagnata dalla tubercolosi o dal tifo.
— Tu parli da medico! rispose Giorgio con un certo sorriso.
— Non sono medico soltanto, e ho avuto anch’io i miei amoretti grandi e piccini. Ho pianto, in quel beato tempo che avevo più arrendevole la glandula lacrimale, e mi sono strappato i capelli, quando ne avevo molti; ma vedi, non sono morto, e sto benissimo.
— Si vede! Anzi hai messo pancia. Però ti calunnii alquanto, mio povero dottore; avrai avuto degli amoretti, ti sarai strappato i capelli, conosci le trentanove maniere in cui un galantuomo se ne può andare all’altro mondo, ma ignori completamente quel che sia una passione... e meglio per te! Potresti vincere la morte, tu che hai tanto studiato? sai che ci sia un rimedio contro la tisi? Quando si è colpiti di quel male, che si chiama una passione, vedi... è una disgrazia, è una fatalità... ma è inutile lottare, e bisogna subirla fino all’ultimo.
— Se fosse così, sarebbe meglio mandare pel prete alla prima febbre - e in buona coscienza io credo di fare il mio dovere lottando colla malattia della mia russa, quantunque non abbia la menoma speranza.
— Bravo, dottore! disse facendosi un po’ rossa la signora Erminia, la quale sino allora non avea ardito prender parte alla conversazione. Mi pare che sia proprio così! Molti mali ci vengono addosso appunto per la paura che ne abbiamo, e ci vincono più facilmente allorchè ci lasciamo sopraffare senza combatterli... certe cose bisogna guardarle coraggiosamente in faccia per vedere quali sono... e alla fine forse non ci è nulla di irresistibile, nè di fatale.
La Ferlita ascoltava la moglie sorridendo con una specie di tenera compiacenza, di rispetto e d’indulgente compatimento. — Mia cara Erminia, le disse poscia accarezzandola con la voce, come vuoi parlare tu di cotesti mali e del modo di vincerli!... Tu sei una bambina, tu! la sorella maggiore del nostro Giannino!... Uno o due giorni dopo La Ferlita ricevette una lettera col bollo di Acireale. Prima di aprirla le mani gli tremavano; poi entrò nella camera dove erano la moglie e il bambino infermo per dire che un affare urgente lo chiamava la sera stessa a Giarre. Io mi trovava presente, insieme a Rendona, e mi parve scorgere in Giorgio una singolare agitazione. Anche la moglie se n’era accorta di sicuro, poichè lo fissava con un’aria mal dissimulata di sorpresa, mentre metteva innanzi mille pretesti per fargli differire quella gita. Il bambino infatti, sebbene non destasse serie inquietudini, avea peggiorato. — Andrai domani, gli diceva Erminia, infine a Giarre non può essere avvenuto nulla di così urgente. Domani il nostro Giannino starà meglio, e tu partirai più tranquillo.
— Come hai trovato mio figlio? domandò Giorgio a Rendona, sempre con quel turbamento inesplicabile nella voce, in tutta la persona. — Come stamane. La sera poi di solito la febbre si fa più gagliarda.
— Bisogna assolutamente che io vada a Giarre stasera... se credi che lo stato del mio Giannino non me lo permetta, dimmelo...
— No... non ho detto questo...
— Allora a rivederci, Erminia; sarò di ritorno col primo treno di domani. Vedi che il nostro Rendona è tranquillo?
La moglie non rispose, lo accompagnò sino all’uscio, e ritornò a mettersi accanto alla culla, tenendo gli occhi fissi sul bimbo. Uscendo con me, Rendona mi disse:
— Che maniera singolare di farmi siffatte domande in presenza della moglie! Un po’ inquieto lo sono, è vero; ma avrebbe fatto meglio ad indovinarlo, anzichè costringermi a spaventare quella povera donna.
Siccome ritornavo ad Acireale, incontrai La Ferlita alla stazione al momento di partire. Era solo, senza bagaglio, e parve sorpreso vedendomi, come se non sapesse che quasi tutti i giorni facevo quel va e vieni; egli prese un biglietto per Giarre; c’era uno scompartimento vuoto e l’occupammo noi due. Giorgio parlava poco, e stette col capo allo sportello dalla parte del mare per quasi tutto il tempo del brevissimo viaggio. Alla stazione di Castello credeva fossimo diggià arrivati, e quando il treno si rimise di nuovo in movimento appoggiò i gomiti alle ginocchia e il capo fra le mani. Prima ancora di giungere ad Acireale, mentre il convoglio fischiava e andava balzelloni rallentando la corsa, egli era alzato e s’era messo ritto dinanzi allo sportello che guardava dal lato opposto all’albergo dei Bagni, appoggiandosi alla manopola. Non si mosse, più, e tutto il tempo che il treno stette fermo, non disse una parola. Gli domandai prima di lasciarlo se avremmo fatto il ritorno insieme col treno dell’indomani; ma risposemi che non lo sapeva di sicuro, e che forse sarebbe tornato a Catania in carrozza. Lo sportello si chiuse, e mentre il convoglio ripartiva, non si affacciò nemmeno meno per vedere la gente che usciva dalla stazione.
All’albergo si passava la sera leggicchiando, pestando sul piano, o fumando e passeggiando in giardino. Verso le undici si udì arrivare una carrozza dalla parte di Giarre; io stavo per salire in camera mia quando m’imbattei faccia a faccia con La Ferlita.
Giorgio si arrestò bruscamente, poi mi venne incontro risolutamente e mi strine la mano con forza. — Infine, mormorò, dovea essere così! Andiamo in sala, in giardino, in camera tua, dove vuoi. Avrai tutto compreso...
Io avevo compreso perfettamente e lo condussi in giardino; la sera era mite, ma importuni non ce n’erano a quell’ora. Mentre cercavamo un banco, al buio, egli mi disse con voce sorda:
— Soprattutto... non mi far della morale; sai che è inutile.
— Io non te ne ho mai fatta, caro Giorgio; da dove diavolo ti è venuta questa idea... — M’è venuta... che avrei dovuto evitarti, e incontrandoti mi son vergognato di me.
Alcune finestre dell’albergo disegnavano qua e là sulla facciata bruna dei quadranti luminosi. Giorgio, ritto dinanzi a me, sembrava interrogarle tutte collo sguardo.
— Dov’è? mi domandò alfine, come se avessimo già parlato di qualcheduno. Faccio male, lo so! Hai visto come mi guardava quella povera Erminia? Sembrava che mi leggesse in cuore. E il mio Giannino?... chissà come starà a quest’ora?... Hanno un bel dire... In questo momento se alcuno mi bruciasse le cervella mi farebbe un gran bene... Ma sento che è più forte di me... quella poveretta si muore... sai... L’ho sempre dinanzi agli occhi, e se oggi fossi stato costretto a non poter venire qui mi pare che la testa mi sarebbe scoppiata!...
Egli andava su e giù pel viale; strappava le foglie degli arbusti che masticava con una specie di rabbia. Ad un tratto lo vidi che si celava il viso fra le mani, e scoppiò in singhiozzi senza poter profferire una sola parola. Quell’uomo che si accasciava sotto il dolore faceva pietà; Giorgio, di solito così fatuo, così spensierato, si contorceva per nascondermi le sue lagrime e la sua debolezza. Tentai prendergli una mano; egli mi respinse dolcemente e continuò a piangere.
— Se tu sapessi quanto costino certe gioie fatali! mi disse alfine con un accento che penetrava l’anima — e quanto si soffra a esser così miserabile!
— Giorgio!
— Lo so che sono un miserabile! Ho ingannato quella povera Erminia, ho lasciato mio figlio quando sarebbe stato mio dovere di assisterlo, ho lasciato la mia casa, la mia felicità... il cuore mi si spezzava a lasciarli... e son partito!
— Perchè sei partito dunque?
— Perchè?— e mi piantò in viso uno sguardo da insensato — perchè bisognava... perchè ella mi ha scritto.
— E la tua visita a che le gioverà?
— Non lo so! a nulla! Bisognava andare.
— Hai provato a pensare il contrario, ad affermarti nell’idea che non avresti dovuto andare... nè per te, nè per lei?
Egli rispondeva come fosse fuori di sè.
— Provare? a che provare? Se è più forte di me, ti dico!... Sì, le conosco tutte le vostre ragioni, le vostre convenzioni, i vostri doveri!... lo so, sono uno sciagurato!... ed eccomi qui come un dannato!
Rimase così qualche tempo, col viso fra le mani, poscia si scosse, udendo suonare la mezzanotte, e con accento risoluto:
— Addio! mi disse. Bisogna che vada. Lasciami andare.