< Timone di Atene
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William Shakespeare - Timone di Atene (1608)
Traduzione dall'inglese di Carlo Rusconi (1858)
Atto quinto
Atto quarto Nota

ATTO QUINTO



SCENA I.

La stessa. — Dinanzi alla grotta di Timone.

Entrano il Poeta e il Pittore; Timone è indietro, e non visto da essi.

Pitt. Se fui bene istrutto, la sua dimora non dev’essere lontana.

Poet. Che dobbiam pensare di lui? Crederem noi alla voce pubblica che lo dice pieno d’oro?

Pitt. Certo: Alcibiade lo narrò; Frine e Timandra ne ebbero da lui: alcuni uomini di mal affare furono del pari arricchiti. Dicesi ch’egli fatto abbia un dono immenso al suo intendente.

Poet. Onde la sua ruina non fu che un artifizio per esperimentare la fedeltà de’ suoi amici.

Pitt. Nulla di più: voi lo vedrete fiorir di nuovo in Atene, e splendere fra i più ricchi; non sarà male perciò lo andare ad offerirgli i nostri omaggi nel suo infortunio apparente. Sarà per parte nostra un passo onesto, e con esso sapremo, ciò che è lo scopo della nostra visita, se sia così ricco come si dice.

Poet. Che avete ora da presentargli?

Pitt. Nulla; se non la mia persona; ma gli prometterò qualche capolavoro.

Poet. Penso di fare lo stesso, e di dirgli che sto apparecchiando un’opera per lui.

Pitt. È quel che ci vuole; promettere è il tuono del secolo; la promessa tiene svegliata la speranza che assopisce e annichila il compimento della parola. Mantenere non è più in uso che fra le persone del volgo. Promettere è più decente, più alla moda; attener la promessa, è un far testamento, e ciò annunzia sempre una gran malattia del giudizio.

Tim. Eccellente artefice! Tu non puoi dipingere un uomo così cattivo come te stesso.

Poet. Sto pensando all’opera che gli dirò aver ammannita. Sarà una personificazione di lui stesso: una satira contro le morbidezze della prosperità; con mille frizzi sulle infinite adulazioni che seguono la gioventù e l’opulenza.

Tim. Dovrai tu compiere la parte di ribaldo nella tua opera? vorrai tu sferzare i tuoi propri vizi in altrui? Fallo, ho oro per te.

Poet. Ma cerchiamolo: peccheremo contro la nostra fortuna se ci lasciamo sfuggir l’occasione di arricchire, indugiando a raggiungerlo.

Pitt. Ben dite; finchè fa giorno, e la luce ci offre i suoi doni, approfittiamone per trovar l’oro che ci manca. — Venite.

Tim. Fra poco vi incontrerò. — Qual Dio è dunque quest’ora per essere adorato in templi più vili e più abbietti di quelli in cui si alimentano i più sozzi animali? Sei tu che appresti i navigli da cui il mare spumante è solcato; tu che fai rispettato e blandito il più vile schiavo. Sii dunque adorato dai mortali, o vile metallo, e gli uomini devoti al tuo culto ne siano ricompensati con tutti i flagelli! — È tempo che gl’incontri. (avanzandosi)

Poet. Salute, degno Timone!

Pitt. Nostro antico e nobile signore.

Tim. Avrei io abbastanza vissuto per vedere alfine due uomini onesti?

Poet. Signore, noi che abbiamo così spesso partecipato alle vostre generosità, avendo saputo la vostra partenza, e la diserzione de’ vostri amici... Oh spiriti detestabili! Il Cielo non ha sufficienti castighi per punire quelle anime ingrate! Che! Verso di voi? Verso di voi, la cui magnificenza, come l’astro del cielo, compartiva la vita in tutti loro? Mi sento fuor di me; non posseggo espressioni abbastanza forti, abbastanza ardenti per rivestire de’ suoi veri colori una tanta ingratitudine.

Tim. Lasciala a nudo; essa non sarà che più visibile agli occhi degli uomini. — Per voi, che siete onesti, il contrasto della vostra probità serve a fare spiccare vieppiù la loro infamia.

Pitt. Noi passammo entrambi la vita sotto la celeste rugiada dei vostri beneficii, ed essa penetrò i nostri cuori col dolce sentimento della riconoscenza.

Tim. Oh! voi siete onesti.

Pitt. Venimmo qui per offrirvi i nostri servigi.

Tim. Anime egregie, come riconoscerò io il vostro attaccamento? Potreste mangiar radici, e ber acqua? No.

Poet. Tutto ciò che potrem fare lo faremo per voi.

Tim. Siete valentuomini: avete saputo che possedevo oro, mi è noto; confessatelo, se siete onesti.

Pitt. Questo si dice, nobile Timone, ma non fu tale il motivo che condusse me e il mio amico.

Tim. Uomo dabbene, non v’è alcuno in Atene che possa fare un ritratto più al naturale di te; di tutti gli artefici tu sei quello che adombri meglio la verità e la vita.

Pitt. Voi mi adulate, signore.

Tim. Penso come dico. — E tu nelle tue finzioni, il tuo verso scorre con tanta grazia e dolcezza, che l’arte vi par natura. Nondimeno, miei degni amici, convien ch’io vel dica: voi avete un difetto, ma un difetto de’ più lievi; e non voglio che vi cruciate molto per correggetene.

Poet. e Pitt. Preghiamo Vostro Onore di farcelo conoscere.

Tim. Ve ne avreste a male.

Poet. e Pitt. No, signore; l’udremo con riconoscenza.

Tim. Parlate da senno?

Poet. e Pitt. Non ne dubitate, degno signore.

Tim. È che non v’è alcuno di voi che non si confidi ad un ribaldo che lo tradisce.

Poet. e Pitt. Noi, signore?

Tim. Sì: voi intendete l’impostore che vi adula, lo vedete simulare, conoscete il suo artifizio rozzo, e nullameno lo nudrite, lo riscaldate nel vostro seno. Siate nondimeno sicuri che egli è un fior di scellerato.

Pitt. Non conosco alcun di tal carattere, signore.

Poet. Nè io.

Tim. Udite, io vi amo teneramente; vi darò oro; ma cacciate dalla vostra compagnia quegli astuti ipocriti: strozzateli, pugnalateli, annegateli, esterminateli infine con qualche mezzo, e venite poscia a trovarmi, che vi prodigherò liberamente il metallo che bramate.

Poet. e Pitt. Ditecene il nome, signore, fate che li conosciamo.

Tim. Ponetevi qui voi, e voi là; ognuno di voi solo, e senza compagno: ebbene, un gran ribaldo sta ancora con ognuno di voi. Se là dove sei (al Pitt.) non vuoi che si trovino due scellerati, non lasciarti avvicinare da lui. E tu, (al Poet.) se non vuoi starti presso a un malandrino, fuggi lungi da quest’uomo. — Via di qui, coppia infame; ecco oro, e per oro veniste, miserabili. — V’adopraste per me? Tale ne sia il pagamento. — Tu sei un alchimista, converti in oro questo ch’io ti do. — Lungi di qui, cani infami!     (li caccia a bastonate)

SCENA II.

La stessa.

Entrano Flavio ed altri Senatori.

Flav. È invano che cercate di parlare a Timone. Ei si è talmente racchiuso in sè, che, di tutti quelli che han volto umano, me è il solo ch’ei possa amare.

Sen. Conducine alla sua caverna; abbiam promesso agli Ateniesi di parlargli, e vogliamo compiere il nostro ufficio.

Sen. In circostanze simili gli uomini non si accordano sempre. È il tempo e il dolore che hanno prodotta in lui tanta mutazione; il tempo, offrendogli con mano prodiga le gioie dei suoi primi amici, può far rivivere l’antico uomo. Conducine alla sua grotta, avvenga quel che potrà.

Flav. Eccola. — La pace e il contento regnino in questa luogo! Timone! nobile Timone! Esci, e parla a questi amici; gli Ateniesi inviano verso di te due dei più rispettabili membri del loro Senato; tu parla ad essi; nobile Timone (entra Timone).

Tim. Sole, che conforti, ora abbrucia! — Parlate, e siate maledetti: ad ogni verità che direte, vi venga un malanno: ad ogni menzogna, un’ulcera nella gola.

Sen. Degno Timone....

Tim. Di niuno più che di uomini che vi rassomiglino, o che voi di Timone.

Sen. I Senatori di Atene ti salutano valente uomo.

Tim. Li ringrazio, e vorrei in ricambio mandar loro una seconda peste, se potessi di essa disporre.

Sen. Dimentica un’ingiuria di cui noi stessi sentimmo afflizione. I Senatori di consenso unanime ti richiamano ad Atene, e ti destinano alcune dignità vacanti.

Sen. Essi confessano che la loro ingratitudine verso di te fu grande, e spinta troppo oltre. Il popolo stesso, che di rado riconosce le sue ingiustizie per ripararle, sente, col bisogno che egli ha del soccorso di Timone, l’indegnità del suo procedimento, e implora il tuo aiuto. È esso che ci manda verso di te per attestarti il suo pentimento e offrirti ricompense molto maggiori dell’offesa. Mercè l’amore, i beneficii e gli onori accumulati sopra il tuo capo, si cancelleranno tutte le orme dell’antica offesa, e l’amistà di tutti, coprendoti di doni, farà di te un monumento eterno di riconoscenza.

Tim. Le vostre offerte mi seducono e mi commuovono fino alle lagrime. Prestatemi il cuore di un pazzo, e gli occhi d’una donna, perch’io possa piangere di tanta generosità, degni senatori.

Sen. Piacciati dunque di ritornare con noi: e vieni a riprendere l’autorità in Atene, tua cara patria e mia, dove sarà accolto con venerazione, e rivestito, in mezzo ai nostri omaggi, del potere assoluto. Il tuo nome rispettato vi regnerà sovrano e, mercè il tuo soccorso, avremo in breve respinto il feroce Alcibiade, che, come il cinghiale delle foreste, cerca di sradicar la pace al seno della sua patria.

Sen. E la cui spada minacciosa già scintilla dinnanzi alle mura di Atene.

Sen. Perciò, Timone...

Tim. Ebbene, signore, questo voglio; voglio, e sia così. — Se Alcibiade uccide i miei concittadini, ditegli per parte di Timone, che Timone non se ne cura; s’egli consente che Atene si depredi, se insulta ai bianchi capelli dei rispettabili vecchi, se abbandona le vergini consacrate ai più bassi oltraggi e all’insolenza sfrenata della licenziosa soldatesca, ch’ei sappia per vostra bocca quel che dice Timone: «commiserando alla nostra gioventù e ai nostri vecchiardi, non posso astenermi dal dirgli, che di ciò non mi cale: onde spieghi tutta la sua ira, e infierisca a sua posta». — Ebbene! fatevi giuoco delle loro spade finchè avrete gole da sgozzare. Per me, non v’è pugnale nel campo più sedizioso ch’io non preferisca alla testa più rispettabile di Atene. Vi abbandono dunque alla custodia degli giusti Dei, come si abbandonano masnadieri al carnefice.

Flav. Non v’intrattenete di più; tutti i vostri sforzi vi riuscirebbero inutili.

Tim. Ero inteso a fare il mio epitaffio, che dimani si vedrà. Comincio a rinfrancarmi di questa lunga malattia della vita: e tutto rinvengo nel nulla del tutto. Ite, vivete, Alcibiade sia il vostro flagello, e voi il suo; vivete lungamente, tormento gli uni degli altri.

Sen. Parliamo invano.

Tim. Nondimeno amo la mia patria, e non sono uomo da goder della sventura pubblica, come se ne sparge la voce.

Sen. Or bene...

Tim. Raccomandatemi ai miei cari concittadini.

Sen. Ecco le sole parole degne di passare per le vostre labbra.

Sen. Esse sono accolte dalle nostre orecchie colla gioia con cui si accolgono i guerrieri trionfanti alle porte della città.

Tim. Raccomandatemi a loro; dite che per consolarli delle loro pene, dei loro timori, degli strazii nemici, dei loro mali, delle loro perdite, dei loro amori sfortunati, e infine di tutti gli accidenti che possono assalire il fragile vascello della natura nel viaggio incerto della vita, voglio dar loro per pura amicizia un consiglio salutare che li sottrarrà al furore di Alcibiade.

Sen. Cotesto mi piace.

Tim. Ho qui nel mio giardino un albero che intendo abbattere per valermene fra poco. Ite ad Atene, miei amici; e dite a tutti quegli abitanti, grandi e piccoli, che, se qualcuno vuol por fine ai suoi dolori s’affretti di venir qui ad appiccarsi al mio albero, prima che la scure lo abbia atterrato. Addio, raccomandatemi alla loro ricordanza.

Flav. Non l’inasprite di più: lo troverete sempre lo stesso.

Tim. Non tornate per vedermi: narrate solo agli Ateniesi, che Timone ha innalzata la sua ultima dimora sulle sponde del mare, che viene una volta al dì a coprirlo coi suoi flutti spumanti. Accorrete in quel luogo, e la pietra del mio sepolcro sia il vostro oracolo. Oh mia bocca, pronunzia amare parole, e poscia la mia voce si estingua! La peste riformi gli abusi che vogliono riparazione; gli uomini non fatichino che per iscavarsi la fossa, e la morte sia la loro mercede! — Sole, nascondi i tuoi raggi; il regno di Timone è passato!     (esce)

Sen. Il suo odio incorporatosi, a così dire, colla sua sostanza, ne è divenuto inseparabile.

Sen. Le speranze che fondavamo in lui sono spente; ritorniamocene, e tentiamo qualche altro mezzo per allontanare l’orrendo pericolo che ci minaccia.

Sen. Esso chiede un pronto soccorso.     (escono)

SCENA III.

Le mura di Atene.

Entrano due Senatori e un Messaggiere.

Sen. Molto facesti per saperlo; ma il suo esercito è esse così numeroso come si dice?

Mess. Quello che vi ho esposto è nulla ancora; gli apparecchi che ha fatto annunziano che fra poco sarà sotto le nostre mura.

Sen. Corriamo un gran pericolo se Timone non ritorna.

Mess. Incontrai per via un corriere, mio vecchio amico, e, quantunque fossero diverse le strade che seguivamo, spintivi dal nostro antico affetto, c’intrattenemmo a lungo per conversare. Ei veniva dal campo d’Alcibiade, con lettere per Timone che andava a ritrovare nella sua caverna. Alcibiade lo prega di unirsi a lui contro la vostra città, in una guerra in parte intrapresa, dice, per vendicarlo.

(entrano i Senatori che andarono da Timone)

Sen. Ecco i nostri fratelli.

Sen. Non parlate più di Timone, nulla v’è più a sperare da lui. — Già i tamburi dei nemici si cominciano ad udire, e la loro marcia formidabile oscura l’aria con una nube di polvere. Rientiamo, e apprestiamoci: temo che la caccia non segua in pro de’ nostri nemici, e che noi non ne siamo la preda. (escono)

SCENA IV.

Il bosco. — La grotta di Timone e un monumento in distanza.

Entra un soldato cercando Timone.

Sold. A tenore della descrizione che me ne fu fatta, questo deve essere il luogo. V’ha alcuno costà? Olà! Favella. — Nessuno risponde. — A cne accenna tal silenzio? — Ah! Timone è morto. Egli ha terminato il suo corso, e qualche fiera selvaggia è divenuta ereda della sua grotta. — Qui non v’ha uomo vivente: egli è certo estinto, e quella è la sua tomba. Ma che vegg’io su di essa? Non so leggere. — Rapirò questa iscrizione, applicandovi sopra la cera, e la porterò al generale; ei conosce tutti i caratteri: e, sebbene giovine d’anni ha la scienza dei vecchi. — Se cinse Atene di assedio, non fu che per vendicare quest’uomo: la morte di Timone è il termine dell’ambizione di Alcibiade.     (esce)

SCENA V.

Dinanzi alle mura di Atene.

Squillo di trombe. — Entra Alcibiade coll’esercito.

Alcib. La tromba annunzii a questa città effeminata e ai suoi vili abitanti il nostro terribile avvicinamento. (le trombe fanno la chiamata e i Senatori compariscono sulle mura) Finora avete inoltrato sempre più nei vostri disordini; avete lordati i vostri giorni con mille abusi, prendendo per leggi i vostri ingiusti capricci. Infino ad ora io e quelli che dormivano all’ombra del vostro potere, vissuto abbiamo tenendo con braccia oziose le armi, ed esalando invano gemiti e lamenti. Ora il momento è venuto in cui i nostri ginocchi, troppo a lungo curvati sotto il peso della vostra oppressione, si rialzano, e alfine sdegnati vi gridiamo: «basta». La vendetta, stanca di stragi, andrà ad assidersi e a riposarsi sopra quei seggi, in cui la mollezza con voi si adagiava; e la guerra, feroce e implacata, si avventerà fra le vostre mura, per ispargervi il terrore e la carnificina.

Sen. Giovine eroe, allorchè seppimo le tue prime lagnanze, prima che tu avessi la forza in mano, e potessi ispirarci timore, abbiamo mandato verso di te, per calmare il tuo cruccio, e riparare alla nostra ingratitudine con segni di affetto, che ne dovevano cancellar la memoria.

Sen. Abbiamo voluto anche con un’umile preghiera risvegliare nel cuore dello snaturato Timone l’amore di Atene, promettendogli di esorare l’ingiuria che ne aveva ricevuta. Non tutti fummo crudeli, nè tutti meritiamo d’essere avvolti nella rovina.

Sen. Queste mura non furono innalzate dalle mani di coloro che ti hanno offeso; e il tuo oltraggio non è sì grave, che convenga distruggere queste torri superbe, questi splendidi trofei, e queste illustri accademie, per punire un fallo che è ad essi personale.

Sen. Gli autori del tuo esilio non vivono più; l’onta e la disperazione d’aver mancato di prudenza franse i loro cuori. Nobile Alcibiade, entra nella nostra città a bandiere spiegate; e, se la sete di vendetta ti muove ad infierire sopra un pascolo che la natura abborre, prendi sugli abitanti le decime della morte, e gli sfortunati eletti dal destino periscano.

Sen. Non tutti fummo tuoi nemici; non giusto è di vendicar sui vivi il delitto degli estinti: le colpe non sono ereditarie, come i campi. Perciò, dolce concittadino, fa entrare il tuo esercito; ma lascia la tua collera fuori delle mura; risparmia Atene, tua culla; risparmia i tuoi parenti, che periranno insieme con quelli che ti offesero, se non ascolti che il tuo furore. Entra come il pastore nell’ovile, separa il gregge sano e uccidi l’infetto; ma non isgozzare tutto l’armento.

Sen. Qual che si sia il tuo scopo, toccherai ad esso piuttosto colla mansuetudine che col terrore.

Sen. Batti soltanto col piede le nostre porte ferrate, e tosto i spalancheranno; ma manda il tao nobile cuore davanti a te per annunziare che entri in sembianza d’amico.

Sen. Gettane la tua manopola, o qualche altro pegno della tua fede che ne assicuri che non prendesti le armi che per rialzarti, non per rovesciar noi: il tuo esercito intero resterà nella città fino al momento in cui avremo soddisfatti i tuoi desiderii.

Alcib. Eccovi il mio guanto: scendete, e apritemi le vostre porte inviolate; sarà vostra cara di consegnarmi i nemici di Timone e i miei. Essi soli periranno; e per dissipare i vostri terrori, dichiarandovi i miei nobili sentimenti, non uno de’ miei soldati eccederà dal posto che gli avrò assegnato. Se alcuno di essi osasse violare le leggi e le discipline entro cotesta città, i tribunali ne faranno una giustizia severa.

Tutti i Sen. Nobilissimo eroe!

Alcib. Scendete e mantenete le vostre promesse.

(I Senatori discendono, ed aprono le porte; entra un soldato)

Sold. Prode generale, Timone è spento; egli riposa sulla sponda del mare: e sulla sua pietra trovai questa iscrizione che vi porto ripetuta in cera. Cotesti caratteri attestamela mia trista ignoranza.

Alcib. (legge) «Qui giace un misero cadavere, privo di un’anima infelice: non cercar del mio nome: la gangrena vi roda tutti, voi che restate dopo di me! Qui riposo io, Timone, che, vivo, tutti i viventi odiai: passa, e maledici a tuo senno; ma passa e non fermarti». Queste parole, Timone, esprimono con eloquenza i tuoi ultimi sentimenti. Tu avevi in orrore la pietà degli uomini, e disprezzavi quelle sterili lagrime che la natura fa sgorgare dai nostri occhi; nondimeno una sublime idea t’inspirò, quella di far piangere per sempre il gran Nettuno sulla tua tomba per colpe perdonate. Morto è il nobile Timone, della cui memoria l’avvenire si abbellirà. — Conducetemi entro la vostra città in cui reco oliva e spada. La guerra partorirà la pace: la pace raffrenerà la guerra; ed entrambe si alterneranno, sanando i mali l’una dall’altra. — Tamburi, battete.     (escono)


fine del dramma.

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